Dire quasi la stessa cosa

Tra neologismi e anglicismi: la sudditanza linguistica degli Italiani

In diverse occasioni su questo giornale, ho avuto modo di sottolineare come troppo spesso si usino parole straniere, soprattutto inglesi, al posto di quelle italiane (come il fatidico “driver” al posto di fantino e “destination” turistiche al posto di destinazioni di cui ebbi occasione di scrivere anni fa).

Al Tg1 della sera di qualche giorno fa, mi è capitato di ascoltare un servizio in cui si parlava di un bambino che ha coniato il termine “petaloso” per indicare la presenza di molti petali e di come l’idea di questo neologismo stia spopolando sul web (ormai qualsiasi cavolata spopola sul web, ma in questo caso la notizia è assai più curiosa).

Che in un Paese come il nostro, in cui step child adoption, welfare, bail in, bail out, gap, stanno facendo tabula rasa dei lemmi nostrani spesso di pari livello, ci sia stato un italico capace di inventarsi un neologismo è notizia che non poteva evidentemente passare inosservata, tanto da chiudere il telegiornale della sera.

E’ probabile che il termine “petaloso” non sia poi così di grande utilità, ma ciò che ha di interessante nell’averlo coniato è la consapevolezza che la nostra lingua un po’ viva lo è ancora, nonostante venga continuamente infarcita di termini stranieri talvolta perfettamente inutili.

Quando al lavoro sento dire “ti faccio una invitation” al posto di fissare una riunione oppure “faccio un check e ti dico” invece semplicemente di controllare una cosa, mi vengono i brividi, poiché alla fine pare più che mai evidente che l’utilizzo di certi anglicismi nasce prevalentemente dal fatto che nel subconscio ci sentiamo piccoli di fronte al mondo e ostentare un lemma inglese o francese, quindi di Paesi più ricchi e benestanti, ci gratifica poiché ci fa sentire più vicini a loro, più internazionali, più avanti, anche se così non è.

Perché mai rinunciare a utilizzare una lingua come la nostra, tra l’altro figlia di quel latino che è stata la madre delle lingue europee, dovrebbe essere un valore aggiunto nella globalizzazione, anche quando parliamo fra di noi?

Si noti che a parlare così è uno come il sottoscritto a cui piace leggere in altre tre lingue, ma che ritiene essere da finti saccenti ostentare troppo spesso fuori luogo di conoscere qualche termine straniero per essere un po’ più “cool”.

E pensare che in altre lingue come lo spagnolo e il portoghese, certamente con più madrelingua nel mondo rispetto a noi, alcuni termini presi dall’inglese o dal francese vengono trasformati in un lemma con un suono più consono alla propria lingua, come in spagnolo, dove vengono usati “la champaña” al posto dello “champagne” francese e “la computadora” al posto del “computer” inglese.

Noi, invece, in fatto di importare e usare termini stranieri siamo spesso anche poco capaci, come nel caso del famoso “Jobs Act” che farebbe riferimento alla legge sui lavori, veramente brutta, soprattutto perché scopiazzata dagli Stati Uniti dove riguarda una legge voluta da Obama che fa riferimento al finanziamento di piccole nuove imprese in cui Jobs non significa “lavori”, ma è in realtà l’acronimo di “Jumpstart Our Business Startups” (a loro il gioco di parole, a noi la figuraccia di non averlo neanche capito).

E di esempi ce ne sarebbero altri, come “footing”, che in inglese si usa solo con riferimento al bilanciamento stando in piedi, mentre dovremmo usare “jogging”; oppure “outing” spesso confuso con “coming out”, quando i due significati in inglese sono diversi.

A proposito di traduzione, proprio in questi giorni, dopo la morte di Umberto Eco, mi è venuto in mente un suo bellissimo libro letto molti anni fa, intitolato “Dire quasi la stessa cosa”, in cui lo scrittore illustrava quanto la pratica della traduzione sia attività assai difficile, ardua e rischiosa e varrebbe proprio la pena di leggerlo per non cadere nel facile errore della traduzione letterale che spesso conduce a traduzioni e utilizzi inappropriati di termini e locuzioni che potremmo evitare.




Marco Pinzuti


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Articolo pubblicato il 27/02/2016