
Traduzione in endecasillabi incatenati del Poema Omerico: la tela di Penelope.
La tela di Penelope
Udite le ragion, del giovinetto,
un procio, ch’Antinoo facea di nome,
levossi a ‘ngiuriare, il poveretto,
urlando “Traditor e vil eccome!”
“Ma come puoi pensar, che gent’onesta,
che porta sopra ‘l capo, lunghe chiome,
e chiede solamente di far festa,
portando sull’altar la tua Reina,
udirti possa senza mover gesta?”.
“Ricorda che son anni che cammina,
il tempo, e non pote più ‘spettare,
nel mentre noi vediamo la ruina
cadere sul tuo regno, e pazientare
guardando di Penelope sua tela,
è cosa che nessuno vol più fare”.
“A noi dicea, con sua voce bela,
che tessere doveva, per Laerte
di giorno, senza lume di candela,
un gran sudario, dalle trame certe.
E disse poi, con gran convincimento,
parlando alle nostre alme aperte,
che solo se portato a compimento,
l’ordito suo, in tutta perfezione,
sposar potrà, ma solo a quel momento.
Poi noi sentì, d’ancella una lezione:
ci disse che Panelope di sera,
portava la sua tela in distruzione,
lo disse con un’aria sì severa,
da porre ogni dubbio in disparte.
Così potemmo allor, veder la vera
condotta ch’ella già, mostrò con arte,
di trasformar, il nodo dell’inganno
in una frode, spaiando le sue carte.
Eppoi si aprì il novo quarto anno,
e lei dovette allor abbandonare,
tutti i pensier, ch’ a nostr’ offesa vanno”.
Così parlò, tra quei che sanno fare
le male cose, e tengono l’ardire
di volgere al volgo, per sedare,
le alme che, potrebbero capire.
“Telemaco dovrai”, ancor gli disse,
“Andando da tua madre, a dirle d’ire,
ben certo che poi lei, quinci partisse,
a casa di suo padr’, e concertare,
il nome dello procio, ch’ei gradisse”.
“Se ciò non si potesse presto fare,
o altri inciampi ancor, nascer potranno,
colei ch’avé d’Atena, ogni suo dare,
sapendo cose che, altre non sanno,
(né Alcmena, né Tirò, neppur Micena,
le doti sue, in sola parte hanno),
se lei dovesse ancor tirar la pena,
ai giovani Achei, troppo pazienti
allora si vedrà da pranzo a cena,
sacrificar le troppe belle armenti,
fintanto che ne sia, alcun in stalla!
E sì potrai veder, svanir sementi,
e tutti gli ori chè, verran a galla,
e noi gioir di tutte tue ricchezze,
uscite da una sempre maggior falla.
Pertanto ti diciam, con le carezze,
ch’è meglio che tua madre s’abbandoni
al sol pensier, d’unire sue bellezze,
a quelli ch’ora già, le son padroni.
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Articolo pubblicato il 02/03/2016