Il bello e il sublime (prima parte)
Albert Bierstadt, panorama della Yosemite Valley, California

Il sublime rappresenta nell’estetica la qualità della grandezza dal punto di vista fisico, morale, intellettuale, metafisico, estetico, spirituale e artistico. Fa riferimento a un tipo di grandezza al di fuori di ogni calcolo, misurazione o imitazione.

Nell’antichità esso conferiva alla forza del bello un valore spirituale in grado di elevare l’anima. Nel corso dei secoli questo valore ha mantenuto la sua fondatezza, essendo gli organi di senso ritenuti sì necessari per sperimentare il bello ma poco attendibili per i valori spirituali.

Tuttavia, in tutti i tempi la valutazione della Venere come quintessenza della bellezza è sempre stata unanime. Venere, come simbolo della bellezza, è universale, mentre la natura della bellezza non è né da capire, né da possedere in modo duraturo. Nel XVI secolo un poeta italiano definì il vero incantamento della bellezza di Venere “un non so che”.

L’attenzione per il sublime si sviluppò in tempi successivi e acquisì il suo significato solo nel corso della storia. Nell’alchimia, Jan van Ruysbroeck descrisse, forse per la prima volta, il grande calore che si lega al processo interiore delle Nozze spirituali e definì “sublime” l’effetto dello Spirito.

Nella tradizione alchemico-spirituale lo stadio della sublimatio è una fase importante nel processo spirituale di trasmutazione. Il desiderio di immortalità (del divenire immortale dell’anima) trovò la sua ispirazione nella fascinazione suscitata dalla bellezza, nell’irradiamento definito “divino” prodotto da Venere.

Nel Romanticismo il rapporto tra la nostra percezione sensoriale nell’esperire il sublime e l’esperienza del bello si rivela conflittuale. Un contrasto che termina solo nella trasfigurazione quando, con il fuoco “dionisiaco”, riusciamo a condurre il nostro processo alchemico fino alle sublimi Nozze alchemiche.

In una preghiera dei Mandei, una comunità di pensiero giovannita che considerava centrale la purezza e l’azione della luce, c’è un passaggio in cui si chiede a Dio di poter scorgere con i propri occhi soltanto la bellezza del mondo e della realtà, senza vederne gli orrori. Non per imparare a riconoscere il bello ma per regolare gli occhi a scorgere solo il bello e a trasmetterlo alla coscienza. Come se si volesse cambiare il “codice” degli organi sensoriali affinché vi fossero riflessi solamente i valori della purezza e dell’effetto luminoso.

Se ciò fosse realizzabile, sarebbe fantastico. E forse una parte della grandiosa legge dell’Amore consiste nel riconoscere la bellezza della creazione, ma soprattutto nell’incontrare senza lotta questa meravigliosa natura e allo stesso tempo nel nascondere il brutto col mantello dell’Amore.

Tuttavia, possiamo permetterci di negare una parte della realtà?

Con ciò vogliamo dire: imparare a stimare entrambi, il bello e il brutto, non è una fase necessaria da attraversare per chi percorre il cammino?

Non è forse importante vedere con lucidità la bellezza sullo sfondo della bruttezza?

Proprio come Jan van Rijckenborgh e Catharose de Petri lo descrivono nel libro La Gnosi Cinese e cioè come sconcertante scoperta che la bruttezza è la dimostrazione che la bellezza è ingannevole. Citiamo: L’essere umano è indicibilmente povero di bellezza, di vera bellezza e per questo ama la luce. Ed essendo così infelice, mente per scacciare la bruttezza. Tuttavia questo processo non riesce, perché chi costruisce la propria vita sull’apparenza, sull’irrealtà, richiama delle reazioni opposte e contrarie molto forti. Quando scoprite che una situazione, definita precedentemente bella, a voce alta e con convinzione, non lo è affatto, come prima reazione non lo volete accettare. Ma allo stesso modo, a mano a mano che andate avanti, la realtà del brutto vi schiaccia. Ciò significa immergersi nell’apparenza e corrompersi tramite l’apparenza. Il miraggio del bello e l’inganno illusorio del bene, entrambi fanno emergere la bruttezza.

Possiamo allora dedurre da quanto sopra che la vera bellezza si può sperimentare solo nel sublime?

Ci sono persone che affermano di aver provato in qualche modo un’esperienza “sublime”: un’esperienza estrema, un attimo di illuminazione, un momento di crescita fuori da se stessi (la coincidenza degli opposti, Cusano la definisce la settima fase dell’alchimia: la conjunctio), accompagnato dalla serena sensazione di unità e dall’esperienza del suono, del colore, della forma e del contenuto in un rapporto perfetto.

Gli organi di senso e la coscienza possono – singolarmente o insieme – percepire il sublime. L’armonia nelle relazioni può essere elevata, profonda e toccante – e può evocare le idee del buono, del bello e del vero dei Greci. Non esiste in greco una parola per “sublime”. Tuttavia il sublime ha naturalmente un’origine linguistica. Etimologicamente passa dal latino nell’Antico-francese e nel Medio-inglese in un periodo tra il 1200 e il 1500.

Sublime – sub limes – significa in latino sotto la soglia e successivamente trovarsi in alto, in aria o sollevare in aria, elevato. La parola non ha un equivalente greco ma il valore sentimentale del bello, buono e vero descritto da Platone si avvicina molto al concetto di sublime. Il bello aveva per i Greci un valore assoluto, avvicinandosi pertanto al significato odierno.

Il sublime come vissuto sembra invece provenire da un’epoca posteriore, anche se nel famoso mito di Platone si riconosce un’esperienza simile. Il successivo sviluppo del termine mostra un crescente appiattimento del significato. È come se la parola si fosse inabissata a causa del suo stesso peso, diventando un’iperbole al pari di favoloso, mega, super. Per quanto riguarda la banalizzazione del significato, i termini ultimativo e sublime si contendono il primato.

Hans den Hartog Jager scrive nel suo libro Het Sublieme che questa parola si è talmente caricata di un senso di esagerazione e di una mancanza di significato oggettivo che può ancora essere usata senza ironia solamente dai giornalisti sportivi e dai giovani con un vocabolario da TV. Secondo l’autore, sublime è diventato un vocabolo che esprime impotenza spirituale e mancanza di sottigliezza.

 

Articolo tratto dalle pubblicazioni di: Edizioni Lectorium Rosicrucianum

Scuola Internazionale della Rosacroce d'Oro

https://www.lectoriumrosicrucianum.it/

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Articolo pubblicato il 06/05/2019