L’elogio di Trump.

Nelle parole di Valentino Baldacci.

Si capisce facilmente perché la figura di Donald Trump, quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America, crei, prima ancora che ostilità, disagio in molti ambienti politici e culturali al di qua e al di là dell’Atlantico. Trump sembra fatto apposta per dispiacere, a partire dal suo linguaggio verbale e corporeo, dal suo ciuffo arancione, dalla ostentazione plebea delle sue esternazioni; ma anche per ragioni di contenuto politico, per la scarsa propensione alla mediazione, per la maniera tranchante di assumere posizioni in contrasto con il senso comune diffuso, per l’ostentata esibizione di muscolarità nei rapporti con alleati ed avversari; per lo scarso rispetto, insomma, per le regole non scritte delle relazioni politiche, interne e internazionali.

 

E poi ci sono le ragioni di sostanza politica, il suo «America first», che lo ha portato spesso a collidere con alleati di lunga data, la sua scarsa sensibilità per una serie di problemi che invece l’agenda politica convenzionale tende a privilegiare, dal problema dell’ambiente a quello delle diseguaglianze, crescenti in America come in ogni parte del mondo.


Ma tutte queste considerazioni – che danno conto delle ragioni della forte ostilità che Trump riceve in tanti ambienti e al tempo stesso del favore che incontra in altri – non possono far dimenticare la chiarezza e la limpidezza di idee e di comportamenti che hanno caratterizzato l’Amministrazione Trump di fronte al grande pericolo per gli equilibri internazionali e in particolare per quelli del Medio Oriente rappresentato dalla Repubblica islamica dell’Iran e dalla rete di organizzazioni più o meno esplicitamente terroristiche – da Hamas a Hezbollah, dalla Siria agli Huti yemeniti – che fanno da corona alla politica degli ayatollah.

 

E questa limpidezza ha condotto Trump ad assumere nei confronti di quello che l’Iran degli ayatollah considera il suo peggior nemico, quello che con disprezzo definisce l’«entità sionista»”, cioè lo Stato d’Israele, una politica che nessun presidente americano aveva in precedenza osato condurre.


Tutti gli atti di Trump nei confronti di Israele sono ispirati a una visione che assume come proprio il punto di vista dello Stato ebraico e, in nome della giustizia, lo porta avanti senza esitazioni. Nessun presidente americano aveva compiuto atti così netti ma anche così ricchi di significato politico: a cominciare dallo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, nella zona che fin dal 1948 era stata incontestabilmente sotto la sovranità israeliana, abbandonando l’ipocrisia di considerare Tel Aviv la sede delle ambasciate, quando uno Stato sovrano come Israele aveva posto a Gerusalemme, sua capitale storica, tutti gli organi dello Stato, dalla Presidenza delle Repubblica a quella del Governo, dal Parlamento alla Corte suprema.


Gli altri atti compiuti in questo campo sono stati altrettanto chiari: a partire dal riconoscimento dell’annessione del Golan, territorio abitato in maggioranza da drusi e che solo le alchimie diplomatiche che portarono a disegnare artificialmente i confini del Medio Oriente dopo la I guerra mondiale aveva assegnato alla Siria: quella Siria che ripetutamente, a partire dal 1948, ha attaccato Israele proprio da quelle alture finendo per essere sempre sconfitta ma che, nonostante ciò, si è sempre rifiutata di concludere un trattato di pace con Israele e tanto meno di riconoscerne il diritto all’esistenza.


Altrettanta chiarezza e una corretta interpretazione del diritto internazionale ha ispirato un altro atto di Trump, il rifiuto di considerare illegali gli insediamenti in Cisgiordania. Troppi consessi internazionali hanno dimenticato che la Cisgiordania e Gaza, dove, secondo la Risoluzione n. 181 dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 27/11/1947, doveva nascere lo Stato di Palestina, furono, dopo la guerra di aggressione del 1948-1949, semplicemente annesse rispettivamente alla Giordania e all’Egitto, mutando così il proprio status giuridico internazionale.

 

Dopo la guerra dei Sei giorni e soprattutto dopo i trattati di pace conclusi da Israele con l’Egitto e con la Giordania e la rinuncia di questi due Stati ad ogni forma di sovranità rispettivamente su Gaza e sulla Cisgiordania, questi due territori si trovano in uno status giuridico indefinito: mentre Gaza, dopo il ritiro unilaterale israeliano del 2005, è caduta in potere del gruppo terroristico Hamas e di altri gruppi analoghi come la Jihad islamica, la Cisgiordania si trova in una situazione molto complicata: la divisione in tre aree (A, B e C) sancita dagli accordi di Oslo è ancora in vigore ma poiché tali accordi non sono stati perfezionati con una pace definitiva con Israele, a causa del rifiuto di Arafat di accettare il piano di pace proposto da Bill Clinton nel luglio 2000 a Camp David e perfezionato a Taba nel gennaio 2001, lo status di questi territori resta ancora da definire.

 

Cisgiordania e Gaza si trovano perciò, secondo il diritto internazionale, in una situazione indefinita, sono territori contesi, controllati in parte da Israele e per il resto da formazioni politico-militari come Hamas e Fatah che non hanno alcuna legittimazione internazionale che ne giustifichi il possesso. Pertanto l’atto di Trump che dichiara di non considerare illegali gli insediamenti israeliani in Cisgiordania ha il semplice significato di prendere atto di una situazione di fatto, che dovrà essere definita dal punto di vista del diritto internazionale ma che oggi non lo è.


L’ultimo atto di Donald Trump, che non riguarda il Medio Oriente ma lo stesso territorio americano, è forse il più significativo. Dichiarare che quello ebraico costituisce un popolo e non soltanto una religione consente di combattere efficacemente tutte le forme di antisemitismo che – con il camuffamento dell’antisionismo e con l’aiuto di professori compiacenti e ideologizzati – si annidano in molti campus universitari. Significa avere anche strumenti più efficaci per combattere forme di terrorismo come quella che ha portato al massacro in un supermercato kosher di Jersey City, compiuto da un gruppo di suprematisti neri e sul quale i media internazionali, e in particolare quelli italiani, hanno vergognosamente cercato di confondere le idee parlando di delinquenza comune.


Ma se questo è l’aspetto che maggiormente è stato rilevato dagli osservatori, ce n’è un altro che ha una portata e un significato ancora superiori. Che cosa sia l’ebraismo, che cosa sia un ebreo, fa parte di una riflessione e di una disputa che si trascina da secoli, in particolare dalla nascita del sionismo. Aver messo in evidenza che quello ebraico è prima di tutto un popolo, un’etnia, che ha una sua identità specifica che si è formata nel corso dei secoli e che è certamente connessa alla tradizione religiosa ma non si esaurisce e non si confonde con essa, significa fare un passo avanti decisivo vero la piena affermazione della laicità dello Stato d’Israele, una questione che ancora oggi è oggetto di discussioni e di controversie.

 

E’ vero che l’atto di Trump ha valore per il territorio americano ma è tale il peso e l’importanza dell’ebraismo americano che inevitabilmente l’atto di Trump avrà ripercussioni anche nella stessa autodefinizione dello Stato ebraico.

 

Valentino Baldacci

 

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Articolo pubblicato il 03/01/2020