Rama, antica città celtica. Prima Parte
Le mura di Rama

Un tesoro archeologico presente in Val di Susa. A cura di Rosalba Nattero

Presentiamo la prima parte di un interessantissimo approfondimento sui resti di una antica città, presente in Val di Susa, della quale pochissimi conoscono l'esistenza.

Rosalba Nattero, giornalista e  presidente di Ecospirituality Foundation, ci porterà indietro nel tempo, in un viaggio affascinante che, tra miti, reperti archeologici ed indagini storiche, riporterà alla luce le vestigia e il ricordo della Città di Rama, una realtà archeologica tutta da riscoprire.

 

di Rosalba Nattero

 

RAMA, ANTICA CITTÀ CELTICA

Narrazione popolare o realtà storica?

 

In Val di Susa, Piemonte, sarebbe esistita migliaia di anni orsono una immensa città megalitica che avrebbe dato vita a gran parte delle scuole filosofiche d’Europa. A questa misteriosa città sono legati il mito del Graal e quello di Fetonte, nonché la tradizione esoterica della città di Torino.

Parliamo del mito di Rama, una antica città ciclopica che periodicamente suscita l’interesse dei ricercatori. Un mito che ha lasciato profonde tracce nelle tradizioni europee. Una città che sarebbe scomparsa a seguito di un cataclisma naturale.

Il mito della città di Rama è sopravvissuto ai secoli per via delle tradizioni orali e grazie ai ricercatori dell’800 che hanno raccolto dati di prima mano con le conferme documentate della sua esistenza, prima che scomparissero nell’oblio.

Va ricordato soprattutto il prezioso lavoro della ricercatrice Matilde Dell'Oro Hermil che nella sua opera “Storia di Mompantero e del Roc Maol”, pubblicato a Torino nel 1897, cita e descrive la città di Rama sulla base delle leggende raccolte nella Valle di Susa.

Rama compare nelle mappe medievali come una stazione di posta romana, se ne è parlato fino alla fine dell’800, e poi il buio.

Fino a quando negli anni ’70 il ricercatore e studioso Giancarlo Barbadoro, purtroppo scomparso nel 2019, sul filo di una intuizione e anche sulle indicazioni degli anziani di comunità piemontesi autoctone, ha ripreso la ricerca di Rama. Barbadoro ha avuto il merito di aver divulgato questa leggenda e di averla storicizzata mediante il ritrovamento delle sue mura ciclopiche, rinvenute secondo le indicazioni delle “Famiglie celtiche” con cui era in contatto.

Rama rivestiva un posto privilegiato tra le ricerche di Barbadoro,  perché egli riteneva che questo mito potesse far luce sul nostro vero passato e sulle nostre origini. I Celti, i Vikinghi, vengono collocati nel calderone della preistoria insieme ai Popoli antichi di altri continenti, come se prima dei romani e dei greci non fossero esistite civiltà degne di nota e di ricerche approfondite, e vengono liquidati sui libri di storia in poche frasi, definiti col generico nome di “barbari”.

Ma come si possono definire “barbari” quelle culture come i Vikinghi che hanno lasciato raffinatissimi reperti di gioielleria, un’arte che si è espressa anche nei poemi, nelle sculture?

Per non parlare delle loro tecniche di navigazione, che rappresentano ancora oggi un mistero per i ricercatori i quali non si spiegano come sia stato possibile che i Vikinghi abbiano percorso migliaia di chilometri in mare senza l'aiuto della bussola e senza carte nautiche. In realtà usavano una bussola di cordierite, una pietra che chiamavano “pietra del sole”, che adoperavano per ricavare la posizione del sole e i punti cardinali.

Lo stesso discorso vale per i Celti, con cui i Vikinghi erano imparentati come dimostrato dai miti e dalla spiritualità in comune.

In realtà abbiamo i reperti e le testimonianze di una cultura elevatissima, sia spiritualmente che tecnologicamente, in grado di aver eretto i grandi megaliti su tutto il pianeta. Dimostrando che era in grado di viaggiare percorrendo il globo terracqueo e che possedeva i mezzi per farlo. Installazioni come la famosa Stonehenge che ancora oggi avremmo difficoltà a erigere.

Il mito della città di Rama periodicamente ricompare, forse perché continua ad affiorare dai racconti dei valligiani e ad affascinare i ricercatori, tanto che è stata definita “la misteriosa Atlantide del Piemonte”. Un mito che sembra collegato agli imponenti megaliti delle valli Piemontesi. Che cosa ci vogliono raccontare i megaliti? Di quale passato sono stati testimoni?

Ancora oggi in Piemonte proseguono tradizioni e usanze apparentemente inspiegate. Tradizioni antiche che si mescolano a quelle attuali. Ne abbiamo un esempio nelle Madonne nere presenti un po’ ovunque in Piemonte, e non solo in Piemonte, o nei simboli celtici adottati da amministrazioni locali. La cultura megalitica è spesso ispirazione per gli artisti che vivono in queste valli.

Che cosa è rimasto della mitica città di Rama? Solo il ricordo di una tradizione perduta?

Una vasta regione, che oggi si estende dal Piemonte alla Savoia e alla Provenza, fino a raggiungere la Liguria e la Valle d’Aosta, è stata testimone di eventi straordinari che rappresentano le radici culturali di queste stesse terre e di tutto il continente europeo.

Le leggende e le tradizioni di tutta Europa parlano della caduta dal cielo, nell’area della Valle di Susa, di un oggetto di origine divina, portatore di conoscenza sulla Terra, che avrebbe dato il via a una tradizione iniziatica ancora esistente nel nostro tempo.

L'evento riguardante la caduta dell'oggetto di natura divina è riportato nella tradizione ellenica dalla leggenda di Fetonte, figlio del re Sole, il quale, non sapendo guidare il carro celeste del padre, sarebbe precipitato al suolo. Gli uomini, rinvenuti i resti del carro celeste, avrebbero tratto da essi la conoscenza divina che conteneva.

Tuttavia la narrazione druidica parla non di una caduta ma di una discesa, e Fetonte rappresenterebbe un dio (o una consorteria di dèi) civilizzatore. Mito che ha un grande riscontro in tutte le tradizioni della Terra e addirittura nella Bibbia, in cui si parla degli Elohim, gli dèi che secondo alcuni ricercatori sarebbero venuti dal cosmo.

Queste leggende sembrano coincidere con il mito greco dei primi Dei che, come dice Platone, si divisero il nostro mondo in precise aree e le organizzarono per donare la loro conoscenza alle creature terrestri.

L’antica leggenda greca di Fetonte riprende il tema del mito del Graal. Il mito narra la vicenda di una creatura semidivina che in tempi molto antichi precipitò dal cielo finendo per cadere sulla Terra. Nella caduta, lo smeraldo che adornava la sua fronte si staccò precipitando al suolo. Altre creature semidivine lo raccolsero modellandolo in forma di coppa e lo consegnarono ad Adamo nell'Eden, al fine che lo custodisse e se ne avvantaggiasse.

A questi due miti, che hanno una stessa narrazione, è indissolubilmente associata la leggenda della città di Rama.

La tradizione druidica vuole che il carro di Fetonte sia caduto in un luogo che si trovava all'incontro di due grandi fiumi, nella zona dove oggi si uniscono la Dora e il Po. Una zona identificabile nell'area che comprende l'attuale città di Torino e parte della Valle di Susa.

Le antiche cronache della Valle di Susa, nel Nord Italia, riportano l’esistenza, in epoche remote, di una città ciclopica chiamata Rama. La città, dalle descrizioni, potrebbe assomigliare alle fortezze megalitiche peruviane e dell'Oceania. Le leggende dei secoli successivi aggiungono che questa mitica città fu uno dei luoghi dove venne conservato per un certo periodo il Graal.

Il mito della città sopravvisse ai secoli per mezzo delle tradizioni orali delle “famiglie celtiche”, così come esse stesse si definiscono, e grazie ai ricercatori dell’ ‘800 e di inizio del secolo scorso che raccolsero dati di prima mano e conferme documentate della sua esistenza.

Secondo queste testimonianze, la città megalitica di Rama si ergeva sulle falde della montagna del Roc Maol, l’antico nome celtico del Monte Rocciamelone, la cui vetta era stata sede di culti antichi tra cui per ultimo il culto di Giove. La città era stata costruita con l'uso di grandi blocchi di pietra che dalla stima delle loro dimensioni dovevano pesare mediamente dalle quattro alle cinque tonnellate ciascuno. Le sue mura ciclopiche si snodavano per circa 27 chilometri e i suoi immensi portici in pietra si sviluppavano, per tutta la lunghezza della valle, sulla direttrice delle cittadine di Bruzolo, Chianocco e Foresto, sulle rive del fiume Dora. Ma si estendeva anche Oltralpe.

Rama secondo le leggende dei valligiani sarebbe stata distrutta più volte per cataclismi e ragioni ambientali, e sarebbe stata ricostruita tre volte.

Secondo Platone i miti e le leggende spesso nascondono eventi reali che possono essere trasmessi proprio attraverso il mito, passando tra le maglie del tempo e della storia che, come si sa, è scritta dai vincitori.

Forse proprio miti come quello di Rama ci possono dare indicazioni sul nostro passato.

Barbadoro, come un moderno Schliemann che scoprì Troia sulle tracce di una leggenda, non si diede mai per vinto e nonostante il fumo creato da chi aveva interesse a seppellire un passato glorioso ma scomodo, riuscì a seguire il filo dell’intuizione e, aiutato dalle “Famiglie celtiche” del Piemonte, trovò conferme alle sue intuizioni. Ebbe anche il merito di radunare intorno a sé molti ricercatori che come lui erano armati solo del proprio entusiasmo, primo fra tutti l’archeologo Mario Salomone.

Le sue ricerche, durate 50 anni, furono premiate con la scoperta delle Mura ciclopiche che hanno definitivamente estrapolato Rama dal mito per inserirla nella Storia. La scoperta è avvenuta nel 2007 in Val di Susa.

Quelle che sono state definite le Mura di Rama Barbadoro le ha viste come la prova dell’effettiva esistenza della città ciclopica, e anche alcuni esperti che aveva interpellato le hanno giudicate così. Si tratta di mura ciclopiche, con blocchi di almeno 1,60 metri per 1 metro circa, e appaiono sistemate con sagomature che sembrano aver avuto lo scopo di dare compattezza alle mura.

L’aspetto delle mura, per forma e lavorazione, può ricordare quello delle fortezze andine ma hanno anche una straordinaria similitudine con le mura delle fortezze megalitiche del Centro Italia, quelle dell’area del Circeo, vicino a Roma.

Insieme a Giancarlo Barbadoro ho avuto la possibilità di intraprendere appassionanti ricerche che sul fil rouge della leggenda di Rama ci hanno portato a viaggiare per il mondo scoprendo gli incredibili legami esistenti tra i miti delle culture native e ci hanno fatto conoscere personaggi eccezionali.

Le scoperte di Giancarlo Barbadoro su Rama sono state pubblicate nel testo “Rama, antica città celtica” dalle Edizioni Età dell’Acquario. Il testo è recentemente uscito in una edizione ampliata e aggiornata con le ultime scoperte dell’autore. Il testo, nonché le ricerche, a cui ho avuto l’onore di partecipare, condensa 50 anni di indagini di Giancarlo Barbadoro su questo mito.

Nel libro si parla diffusamente dei Celti, una cultura che l’impero romano e il cristianesimo hanno cercato di eliminare dalla Storia. In effetti nella Storia narrata dai vincitori non si parla di questo popolo eroico. Ma ci sono molti ritrovamenti che parlano per loro, ad esempio il Calderone di Gundestrup, una imponente coppa d’argento del diametro di 69 cm, 42 cm di altezza e un peso di 9 chilogrammi, conservata al Museo Nazionale di Copenhagen. Il Calderone è costituito da un insieme di 13 pannelli d’argento di finissima fattura che l’hanno reso un importante e discusso oggetto. Quello che lo rende importante è il significato delle 13 placche d’argento che lo compongono: ciascuna di esse infatti viene attribuita a una delle diverse etnie che si erano unite insieme in una federazione di nazioni. Una Europa Unita ante litteram. Popoli che si univano in pace, sotto una identità comune. La provenienza del luogo di fabbricazione, la regione del basso Danubio, avvalora la tesi di Barbadoro secondo cui attorno al Mar Nero si era sviluppata una progredita civiltà stanziale costituita da etnie diverse, ma unite da una stessa cultura. Questi popoli furono costretti a migrazioni di massa per via dell’esondazione del Mar Nero dovuta all’irruzione del Mare Mediterraneo nella depressione dello “Svartahaf” (“mare nero” in islandese nell’opera di Snorri Sturluson).

 

Testo e foto di Rosalba Nattero

 

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 13/09/2021