L’Etiopia e la guerra del Tigrè

Addis Abeba: stupri e assedio nel nord dell’Etiopia. La Chiesa ortodossa etiope denuncia “un genocidio” contro la popolazione tigrina.

I Paesi limitrofi e la comunità internazionale lanciano l’allarme sull’inasprirsi del conflitto in Etiopia e chiedono un cessate il fuoco immediato.

Ma come si è generata la guerra?

Nel 2019, per allontanare il paese dal federalismo etnico e dalla politica etnica nazionalista , il primo ministro Abiy Ahmed ha unito i partiti costituenti etnici e regionali della coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (EPRDF) e diversi partiti di opposizione nel suo nuovo “Partito della prosperità”. Tutti i partiti, eccetto uno: il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF), un'entità marxista politicamente potente, che aveva dominato la politica etiope per 27 anni come regime repressivo, attraverso un sistema dominante a partito unico nella regione tigrina.

Il presidente Abuy Ahmed, da giovane, è stato un attivista nella lotta armata contro il regime comunista del “Negus Rosso”, il dittatore Menghistu Hailé Mariàm, il quale governò il Paese fino al 1991.

Ma dietro le motivazioni ideologiche, come spesso accade in Africa, lo scontro è prevalentemente di natura etnica. Il presidente attualmente in carica appartiene all’etnia oromo, il gruppo etnico maggioritario del Paese, ma anche il più marginalizzato. Sopratutto dai tigrini durante la dittatura comunista.

Attualmente, i due gruppi che si fronteggiano appartengono rispettivamente al nord tigrino contro le elites del centro e del sud del Paese (amara e oromo).

Dunque, i marxisti tigrini del Fronte di Liberazione si sono ribellati contro Addis Abeba.

Ma come è potuto accadere ciò?

Per comprenderlo ci viene in soccorso la Costituzione dell'Etiopia, la quale afferma all'articolo 39.1 che: "Ogni nazione, nazionalità e popolo in Etiopia ha un diritto incondizionato all'autodeterminazione, incluso il diritto alla secessione".

Nella regione del Tigrai, nel nord dell’ Etiopia, lo scontro tra il Governo centrale e il Fronte popolare per la liberazione del Tigrai (TPLF) continua così da anni, e coinvolge anche gli Stati vicini, Eritrea in testa, la quale la vede alleata di Addis Abeba e del suo Presidente premio Nobel per la Pace nel 2019.

Stupri, omicidi e violenze di ogni genere affliggono la popolazione da mesi e raramente è concesso ai convogli umanitari l’accesso alla regione. La guerra civile sta avendo ripercussioni nei rapporti tra il Presidente etiope Abiy Ahmed e gli altri leader mondiali, sia per i crimini commessi dall’esercito che per la collaborazione con l’Eritrea per la repressione dei tigrini.

A distanza di quattro mesi dalla dichiarazione ufficiale sulla cessazione delle operazioni nella regione del Tigrai, il conflitto tra il Governo centrale e il Fronte popolare per la liberazione del Tigrai (TPLF), con a capo Debretsion Getremichael, continua a infuriare.

I comunisti tigrini hanno cambiato tattica di combattimento, passando ad una guerra completamente asimmetrica e non convenzionale, mentre l’esercito nazionale persevera nel commettere omicidi e altre violenze. Data la posizione strategica dell’Etiopia, il conflitto risulta rilevante anche per le sorti della regione del Corno d’Africa.

Il Governo centrale continua a minimizzare la guerra civile che si sta perpetrando, definendola “un’operazione di polizia” e dichiarando di aver debellato definitivamente i ribelli con la presa della capitale tigrina Macallè.

È difficile avere notizie reali e precise riguardo al conflitto, dal momento che il Governo ha bloccato internet e censurato i notiziari.

Uhuru Kenyatta, presidente del Kenya, ha predisposto sorveglianza speciale alle frontiere con l’Etiopia. Yoweri Museveni, capo di Stato dell’Uganda, ha fatto sapere che si parlerà delle crisi etiopica durante la prossima riunione di IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione internazionale politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), in programma per il 16 novembre.

Insomma anche le Nazioni limitrofe cominciano a preoccuparsi.

Altrettanto preoccupante risulta essere la constante presenza turca nelle nostre ex colonie.

Secondo quanto rivelato dal quotidiano turco Daily Sabah, l’industria privata militare “Baykar” di Istanbul, specializzata nella produzione di velivoli senza pilota, sistemi di comando, controllo e intelligence (C3I), dopo aver concluso un accordo con il Regno del Marocco, starebbe per firmare un contratto con le forze armate dell’Etiopia per la fornitura di droni “Bayraktar TB2”, dei relativi pezzi di ricambio e del supporto alla formazione del personale militare.

Negli ultimi anni le relazioni diplomatiche, economiche e militari tra Addis Abeba a Ankara si sono fatte strettissime. Secondo l’ambasciatore turco in Etiopia, Yaprak Alp, gli scambi commerciali sono cresciuti da 200 a 650 milioni di dollari nell’ultimo biennio e la Turchia è il secondo investitore straniero dopo la Cina con più di 2,5 miliardi e mezzo di dollari investiti in molteplici settori, in particolare nell’industria tessile e manifatturiera e sarebbero più di 200 le compagnie turche operative nel Paese africano.

Rilevantissime le esportazioni di sistemi d’arma turchi all’Etiopia: solo nei primi tre mesi del 2021 ci sono stati trasferimenti per 51 milioni di dollari, contro i 203.000 dollari registrati nello stesso trimestre dell’anno precedente.

Il conflitto in Tigray si è caratterizzato non solo per i drammatici bombardamenti contro la popolazione civile, ma anche per la diffusione di informazioni spesso prive di fondamento e il cui unico fine è stato quello di “intossicare” ulteriormente lo scontro armato tra le parti belligeranti.

L’impiego massiccio dei droni armati da parte etiope è stato uno degli argomenti più utilizzati dalle fonti d’opposizione tigrine sin dallo scoppio del conflitto nel novembre 2020. Inizialmente i vertici militari etiopi hanno smentito il possesso di velivoli senza pilota, ma poi ne hanno ammesso l’uso anche se solo contro target militari. “La nostra forza aerea è equipaggiata con droni moderni”, ha dichiarato a fine 2020 il Comandante in capo dell’Ethiopian Air Force, il generale Yilma Merdas.

In un anno di guerra sono morte migliaia di persone, gli sfollati sono oltre due milioni, senza contare gli oltre 60 mila che hanno cercato rifugio e protezione in Sudan. Nel nord dell’Etiopia la gente è allo stremo, più di 400 mila civili sono in condizioni di carestia, perché gli aiuti umanitari stentano ad arrivare. E, secondo il rapporto, redatto dall’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e dall’ Ethiopian Human Rights Commission (EHRC), pubblicato il 3 novembre 2021, emerge che atrocità e abusi sono stati commessi da tutte le parti in causa.

Nel Tigray la situazione attuale è catastrofica. I convogli con gli aiuti umanitari sono bloccati dal 18 ottobre e i movimenti degli operatori da e per la regione sono vietati dal 28.

Centinaia di camion sono fermi, carichi di alimenti e beni di prima necessità, per non parlare delle cisterne di carburante, che non hanno il permesso di entrare da metà agosto. Le comunicazioni e internet sono ancora interrotti, anche la maggior parte dei servizi bancari sono bloccati, quasi impossibile trovare denaro contante.

Scarseggiano i medicinali e i vaccini, molti ospedali hanno chiuso i battenti per la ormai cronica mancanza di qualsiasi materiale sanitario.

Altrettanto disarmante risulta essere la totale assenza dell’Italia nel conflitto. Le ex regioni dell’Africa italiana hanno un’importanza geostrategica fondamentale. Il Nilo azzurro collega il Corno d’Africa con il Sudan e l’Egitto; mentre l’affaccio sul Mar Rosso, rende vitale il controllo delle rotte verso il canale di Suez e il “Medioceano” Mediterraneo. La nostra base militare nel vicino Gibuti condivide l’avamposto con altre potenze mondiali, spesso rivali fra loro, Stati Uniti e Cina in testa; il nostro impegno nell’Area è spesso rivolto alle azioni di anti-pirateria(Operazione Atalanta), ignorando completamente quel territorio interno che un tempo era nostro; territorio che oggi risulta sempre più tinto di rosso, con una mezzaluna di Istanbul al centro.

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Articolo pubblicato il 09/11/2021