La Bielorussia e i suoi confini

La crisi ai confini fra la Polonia e la Russia Bianca ha delle ragioni storiche ben precise.

La definizione dei confini nel nucleo di una Nazione è un passaggio fondamentale nel processo di forgiatura dell’identità di un popolo. In particolare di quello bielorusso, sottoposto per secoli a intensi tentativi di russificazione o polonizzazione, che hanno portato gli autoctoni, di volta in volta e spesso anche contemporaneamente, a essere considerati “russi dell’Ovest” o “polacchi dell’Est”.

La Bielorussia (detta anche ‘Russia Bianca’) è un Paese dell'Est Europa senza sbocchi sul mare; conosciuto per le architetture di epoca stalinista, le fortificazioni e le foreste vergini. Nella moderna capitale, Minsk, il monumentale quartier generale del KGB domina la “piazza dell'Indipendenza”, mentre il Museo della Grande Guerra Patriottica ricorda il ruolo ricoperto dal Paese durante la seconda guerra mondiale al servizio di Stalin.

In effetti, la Russia Bianca, è l’unico Paese ex sovietico ad aver mantenuto la dicitura KGB per i suoi servizi segreti.

Il Presidente bielorusso, Lukashenka, è un vero comunista di stampo sovietico. Dopo una brillante carriera militare nell’Armata Rossa; nel 1990 fece il suo ingresso in politica. Seguendo la nuova linea di Gorbaciov, propose la democratizzazione del comunismo; fondando in Bielorussia il partito dei “Comunisti per la Democrazia”. Tuttavia, si oppose, nel ‘92, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica per creare la CSI (Comunità di Stati Indipendenti).

Dopo il crollo dell’Urss, e di conseguenza della Bielorussia Socialista; Lukashenka fece di tutto per mantenere lo status quo inalterato. Dopo il ‘92, non potendosi più candidare direttamente come comunista, fece in modo di dichiararsi “indipendente”; vincendo così tutte le elezioni contro i liberali e i democristiani. Chiaramente quest’ultimi, come solito fare, utilizzano presunti giornalisti “liberi” per denunciare brogli elettorali. Insomma, un film già visto anche alle nostre latitudini.

Ma torniamo alle questioni di Minsk.

Il premier Lukashenka è stato molto abile a gestire la transizione da Repubblica Socialista a Repubblica di Bielorussia in maniera indolore, riuscendo, in maniera gattopardesca, a cambiare tutto affinché non cambi nulla. Tuttavia, fra il 1995 e il 1998 fu costretto a ‘pagare il conto’. La Banca Mondiale e il FMI accusarono Lukashenka di non fare le riforme dovute(ovvero le famigerate e oramai arcinote riforme di ‘austerity’). Nel ‘98 la Banca centrale russa cessò di trattare il rublo bielorusso portando così al crollo il valore della valuta. Lukashenka prese allora il controllo della Banca centrale bielorussa, congelando i conti in banca e riducendo le attività delle banche commerciali nazionali. Trenta ufficiali del governo vennero arrestati poiché Lukashenka li accusò di aver portato il Paese alla crisi economica. Sempre nello stesso anno fece espellere gli ambasciatori di Francia, Regno Unito, Stati Uniti d'America, Germania, Italia, Grecia e Giappone dalle loro residenze vicino a Minsk, accusandoli di cospirazioni contro di lui, causando le proteste internazionali. In tutta risposta, Il Fondo Monetario Internazionale e il Comitato Olimpico Internazionale esclusero la Bielorussia. Minsk parlò di un attacco senza precedenti, denunciando le autorità internazionali di cospirazione e volontà di isolamento contro il Paese.

La Russia Bianca ha sempre cercato di opporsi all’allargamento della NATO e alle ingerenze dei liberal occidentali. Consolidando invece il suo rapporto con Mosca. Non solo per le enormi affinità linguistiche e culturali, ma anche per il comune passato sovietico.

Lukashenka, nel 2007, ha creato un’associazione politica e culturale simile al partito di Putin “Russia Unita”; lui l’ha denominata “Russia Bianca” (Belaja Rus’). L’idea è quella di consolidare il vecchio militarismo sovietico con la tradizione imperiale ortodossa degli Zar; il tutto coniugato in un partito nazionalista di centro-destra. In questo modo Minsk si è totalmente allineata con la Russia, dimostrando che il vecchio legame sovietico e imperiale non è mai venuto meno.

In effetti le affinità fra Mosca e Minsk sono sempre state molto forti. La stragrande maggioranza dei bielorussi comunica principalmente in russo. Se tutte le quindici repubbliche sovietiche sono diventate Stati indipendenti a seguito della disgregazione dell’Unione Sovietica, l’assenza di un movimento separatista in Bielorussia ha portato il paese all’indipendenza senza combattere. Ciò la distingue da Lituania, Lettonia e Ucraina occidentale, nonché dalla Polonia – vicina che, pur non avendo mai fatto parte dell’Urss, ha sviluppato sin dalla rivolta del 1794 un sentimento nazionalista imperniato sulla necessità di svincolarsi dalla sfera d’influenza russa.

In Bielorussia, invece, il sentimento antirusso non ha mai preso piede. Piuttosto, l’attaccamento alla Russia e la sensazione di vicinanza culturale ha sempre attenuato ogni senso di differenza. Al punto che lo storico Jurij Sevcov, nato e cresciuto nella parte più occidentale della Bielorussia, in un saggio del 2018 ha definito la cultura bielorussa come una versione territoriale di quella russa.

Dunque, per comprendere a pieno quello che sta accadendo lungo l’attuale frontiera polacco-bielorussia, non possiamo fare a meno della Storia. Il sentimento anti-russo è sempre stato molto forte a Varsavia. La Polonia, in veste di paese NATO e di “Antemurale Christianitatis”, non può permettere l’uso strumentale, attuato da Minsk, del fenomeno migratorio presso le proprie frontiere.

 

 

La Polonia, essendo l’unico paese cattolico dell’area est europea, è vista con sospetto dai suoi vicini da secoli. Per questi motivi ha sempre cercato di promuovere il Trimarium, ovvero un alleanza con tutte quelle Nazioni che non vogliono finire sotto l’egida tedesca o russa.

Questo timore di natura storica viene abilmente sfruttato da Washington; la quale consolida lo spazio Atlantico col favore polacco fino ai confini con la Russia Bianca (appendice indisciplinata della Federazione Russa).

In caso di sanzioni occidentali, Lukashenka ha minacciato di chiudere il gasdotto che alimenta l’Europa del Nord. Tuttavia, questa volta, dietro l’azzardo di Minsk non c’è Mosca; Lukashenka ha forzato la mano di Putin, sperando che quest’ultimo si schierasse dalla sua parte. Invece, la Russia si è detta risentita della libera iniziativa bielorussa, senza nemmeno consultarli.

Il leader del Cremlino ha tirato fuori la lista delle tensioni nella regione che veramente lo inquietano: le nuove mosse Nato e Usa nel Mar Nero e quelle del governo di Kiev nel Donbas.

Sospettato di essere il vero regista della “guerra dei migranti” lungo la nuova cortina di ferro, il leader russo potrebbe certo fermare con una telefonata i flussi di disperati convogliati verso la capitale bielorussa e poi lasciati fluire verso la frontiera con l’Unione Europea. Non è detto però che ancora una volta a condurre la partita non sia l’astuto e mai domo Aljaksandr Lukasenka.

Il presidente bielorusso sta giocando su due tavoli. All’Europa ricorda che può creare problemi non secondari, se messo alle strette. Contemporaneamente, costringe Mosca a schierarsi al suo fianco ancora una volta, ancora di più, accumulando punti per il premio più ambito: restare al potere, azzerare i tentativi russi di organizzare una transizione fluida verso un cambio di leadership.

La vera sconfitta ad oggi appare invece la Polonia, vittima del suo stesso occidentalismo filo-europeo; incastonata in un’Europa che non la vuole. L’Unione Europea, imbevuta di liberalismo e ‘diritti civili’, tende ad isolare quei Paesi rimasti tradizionali e fedeli all’Europa ‘christiana’ delle origini. Così facendo, l’UE, spinge all’isolamento Nazioni chiave come la Polonia, fondamentali per le strategie di contenimento NATO. Il rischio attuale per l’Europa, è che isolando Varsavia isoli pure se stessa. Dimentica non solo delle proprie origini identitarie, ma persino di quel realismo geopolitico che per decenni l’ha vista protagonista durante la Guerra Fredda.

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Articolo pubblicato il 17/11/2021