Polvere di mummia, un «farmaco» miracoloso

Di Achille Maria Giachino

Tutti sanno che cosa è una mummia, ma probabilmente non tutti sono a conoscenza che la “mummia”, o meglio, la polvere da essa ricavata, è stata per molti secoli, a partire dal XIII, un farmaco.

A questo punto è necessaria una precisazione di carattere linguistico prima e farmacologico poi, per comprendere per quale motivo si sia giunti a considerare i corpi imbalsamati come dei prodotti galenici.

L’etimo persiano “mummia”, in arabo “mumija”, significa catrame, pece, bitume. E proprio il “pissasfalto”, composto di pece e asfalto proveniente dall’Oriente, era considerato idoneo al trattamento di ferite, contusioni, fratture, lussazioni, oltre che utile per combattere la nausea. Suffumigi di asfalto erano utilizzati contro la tosse e l’asma; unguenti contenenti bitume venivano usati per lenire pruriti, per far maturare gli ascessi, per arrestare le emorragie. Assunto per via orale, attenuava i dolori mestruali.

Contemporaneamente si scoprì però che il “pissasfalto”, estremamente raro e costoso, era molto somigliante alla materia bituminosa che gli Egizi utilizzavano per imbalsamare i cadaveri, per cui, quando la materia prima cominciò a scarseggiare, ci si accorse che il materiale estratto dai corpi imbalsamati avrebbe rappresentato un ottimo succedaneo. Quindi si diffuse l’uso di sostituire al costoso catrame originario, l’estratto di mummia, più a buon mercato.

Se si considera infatti che l’imbalsamazione fu praticata dagli Egizi fino al 700 d. C. circa e che secondo la stima di alcuni storici sarebbero stati imbalsamati circa 730 milioni di corpi, si può ben comprendere quale abbondanza di “principio attivo” fosse disponibile.

Ma è a partire dal XVI secolo che la richiesta di “mummia”, nonostante il prezzo elevato, aumenta in modo vertiginoso. Per far fronte a tale richiesta speculatori ed individui senza scrupoli non avevano problema ad acquistare i corpi imbalsamati che gli indigeni stessi vendevano loro, dopo aver tenuto per sé i sarcofaghi lignei fatti a pezzi per ricavarne legna da ardere. Le salme erano poi trasportate al Cairo o ad Alessandria sia intere, sia in pezzi opportunamente disarticolati, e da qui, dopo essere state triturate e polverizzate, venivano inoltrate nei paesi occidentali.

I profitti di questi mercanti erano altissimi, e se si pensa che nel XVII secolo la polvere aveva raggiunto l’equivalente attuale di 15.000 euro al chilo, si comprende come solamente le persone benestanti o i sovrani potessero permettersela. E infatti Francesco I, re di Francia, portava sempre con sé, per precauzione, un pacchetto di “mummia”.

Nel frattempo, i progressi della tecnologia farmaceutica avevano permesso di commercializzare i poveri resti anche sotto forma di balsamo, crema, sciroppo, estratto, linimento. Di tale traffico più o meno clandestino si accorse però anche il fisco egiziano, che pensò di istituire una tassa sui corpi in commercio, ma non sapendo bene come classificarli, pensò di equipararli al... pesce essiccato.

Con il passare del tempo, e con i progressi nel campo medico e farmacologico, l’interesse per questo cosiddetto galenico diminuì, ma rimase in commercio fino al 1924 anno in cui si trovava ancora registrata nel listino della casa farmaceutica inglese Merk & Co.

Inoltre qualcuno sostiene che negli anni ‘70, presso qualche negozio di New York specializzato in articoli per esoterismo, era ancora possibile ottenere autentica e pregiata polvere di mummia al modico prezzo di 1.500 euro al chilo.

Achille Maria Giachino

Fonte dell'immagine della mummia: Pixabay

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Articolo pubblicato il 27/01/2022