10 febbraio 1953, muore Maria Rygier

Storia di una rivoluzionaria

Il 10 febbraio 1953 muore a Roma Maria Rygier; è stata una personalità sindacale e politica intensa, che ha avuto una notevole influenza in vari ambienti culturali nella prima metà del Novecento.

Nasce a Cracovia (Polonia) il 5 dicembre 1885 in una famiglia della borghesia dell’epoca, figlia di uno scultore di fama che si trasferisce a Roma, dove la ragazzina studia e cresce.

Non risulta sia mai stata a Torino, ma ha conosciuto e frequentato molte personalità torinesi e piemontesi, native o di adozione, nella temperie di un magma sociale e politico quale fu il primo Novecento: un vero laboratorio di rivoluzioni e dittature, che nel capoluogo piemontese ha visto transitare e operare eccelsi personaggi (fra tutti, Piero Gobetti e Antonio Gramsci, interpreti di modelli diversissimi eppur sempre rispettosi l’un dell’altro).

Fin da giovanissima Maria si avvicina al socialismo, in un tempo in cui si pensava ancora di poter cambiare gli assetti del mondo con le rivoluzioni o con attentati esemplari contro i potenti e i monarchi.

Viene attratta dal socialismo umanitario del canavesano Giovanni Cena (Montanaro 1870 – Roma 1917) e dagli ambienti del femminismo riformista, dal volto umano.

Quando si trasferisce a Milano, con la madre, conosce Ersilia Bronzini in Majno (Oleggio 1859 – Milano 1933), nata in una famiglia di Oleggio, che la introduce a lavorare come impiegata al periodico Unione Femminile, dal quale si distacca presto; rompe l’ambiente riformista e si avvicina al sindacalismo rivoluzionario che abbraccia in pieno, rinunciando anche al mantenimento che le garantiva la sua famiglia per essere fedele all’ideale proletario.

Nelle elezioni del 1904 alla Camera del Lavoro di Milano i sindacalisti rivoluzionari ottengono la maggioranza, appoggiati dagli ambienti del vecchio operaismo. In virtù della rottura e della contrapposizione con i riformisti, che va avanti fin dal 1891, i rivoluzionari continuano a non inserire donne nella propria lista (quanto era ancora lontana la parità fra uomo e donna, anche fra i progressisti?).

Nonostante questa presa di posizione, la giovanissima Maria Rygier è delegata al Congresso Nazionale delle Camere del Lavoro di quell’anno, insieme a Virginio Frati (Senigallia 1876 – Ancona 1945) e a Virginio Corradi (un tornitore a cui si lega e che sposa due anni più tardi, ottenendo la cittadinanza italiana).

Nel 1905 inizia a collaborare a L’Avanguardia socialista di Arturo Labriola (Napoli 1873 - 1959) e del torinese Walter Mocchi (Torino 1871 – Rio de Janeiro 1955), distinguendosi per la sua intensa propaganda antimilitarista.

Nel dicembre 1906 diventa redattore responsabile del periodico milanese Guerra di classe e all’inizio del 1907 del quindicinale antimilitarista Rompete le file! insieme a Filippo Corridoni (Corridonia 1888 – San Martino del Carso 1915), Edmondo Mazzuccato (Forlì 1888 – Cervia 1944) e Edmondo Rossoni (Tresigallo 1884 – Roma 1965), uno dei fondatori del Sindacato UIL (che è esistito soltanto fra il 1918 e il 1925, omonimo di quello che nascerà nel 1950). A Rossoni si deve la prima trasformazione che porterà la sua natia Tresigallo a diventare città metafisica (e questa è un’altra storia, tutta da raccontare).

Il suo ruolo di responsabilità nella carta stampata e la sua presenza a varie manifestazioni le procurano arresti e condanne (fra tutte, l’assalto all’Arcivescovado di Milano del 21 luglio 1907 per protestare contro atti di pedofilia di alcuni sacerdoti).

Subisce, quindi, alcune condanne: venti mesi di reclusione il 3 agosto, sei mesi il 22 agosto, sei mesi e dodici giorni il 10 settembre 1907, due anni il 14 febbraio 1908.

Maria entra ed esce dalle carceri e utilizza i processi a suo carico come tribune dalle quali esporre le sue idee antimilitariste. Diventa in breve un’eroina, le sue autodifese in tribunale vengono stampate e diffuse, la sua fotografia utilizzata come effigie.

Descritta dai rapporti di polizia come affetta da una “febbre intima di rendersi celebre”, il Questore di Milano si oppone alla domanda di grazia del padre (preoccupato delle conseguenze del carcere sulla salute della figlia), dichiarando che “il riposo, la tranquillità e la quiete” dello stato di detenzione avrebbero potuto avere su di lei effetti salutari.

Una amnistia del febbraio 1909 le restituisce la libertà.

Si separa dal marito (decide di mettere fine al rapporto con lui perché le aveva fatto perdere la dote e procurato continui problemi economici) e si trasferisce a Bologna nel 1910.

Il suo abbandono del sindacalismo rivoluzionario a favore del movimento anarchico stupisce tutti.

Il 29 luglio 1910, nel decennale della morte di Umberto I, tiene nel salone dell’Arte Moderna a Milano, davanti a pressoché tutti gli anarchici milanesi, una conferenza privata in cui sostiene che il regicidio di Monza era stato “necessario e doveroso”.

Nello stesso periodo collabora a L’Agitatore, di cui sarà due volte redattore responsabile, alla fine del 1911 e all’inizio del 1913.

Partecipa alla grandiosa per quanto inutile campagna lanciata dalla SFIO, dalla CGT e dagli anarchici contro la legge dei tre anni di ferma militare, ma soprattutto cerca solidarietà, con conferenze e articoli, per Augusto Masetti, (Sala Bolognese 1888 – Imola 1966), il soldato anarchico che nel 1911 spara e ferisce il suo colonnello.

Nel maggio dello stesso anno, di ritorno da un giro di conferenze in Svizzera, in seguito ad uno strano incidente avvenuto in treno (l’incendio di una bottiglia di fosforo bianco che portava con sé) è nuovamente arrestata, scatenando le protesta della stampa anarchica, socialista e sindacalista.

Nel 1912, mentre sconta un periodo di detenzione, viene anche coinvolta dalle indagini per il fallito attentato al Re Vittorio Emanuele III. Il 14 marzo, mentre il Re si sta recando al Pantheon per la messa in suffragio di Umberto I, il muratore romano Antonio D’Alba, anarchico, spara due colpi di pistola contro il sovrano, mancandolo. L’attentato causa il ferimento di un corazziere e di un cavallo della scorta. L’attentatore è stato arrestato. Poche ore dopo il fallito attentato, Vittorio Emanuele III riceverà la visita dei socialisti riformisti Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati e Angiolo Cabrini, che si felicitano con lui per lo scampato pericolo.

Ritenuta estranea al gesto, la Rygier viene comunque condannata a tre anni per le sue idee antimonarchiche.

Nel 1914 il Comitato Nazionale pro-Masetti, di cui è segretaria, decide di organizzare per il 7 giugno, festa dello Statuto Albertino, comizi antimilitaristi in tutta Italia. Ad Ancona, il tragico epilogo del comizio dà il via alla settimana rossa, che si svilupperà dal 7 al 14 giugno, dalle Marche alla Romagna e alla Toscana.

Racconto questo episodio di sangue per restituire il clima sociale dell’epoca.

Su Volontà, giornale degli anarchici anconetani, si leggeva: “Il 7 giugno è la festa del militarismo imperante. Faccia il popolo che diventi giorno di protesta e di rivendicazione”.

Viene convocato un comizio antimilitarista. Alla presenza di circa 500/600 persone (repubblicani, anarchici e socialisti), intervengono, sotto la presidenza del segretario della Lega Muratori e della Camera del Lavoro Alfredo Pedrini, i dirigenti del Sindacato Ferrovieri Italiano Livio Ciardi e Sigilfredo Pelizza, Ettore Ercoli per i socialisti, Oddo Marinelli per i giovani repubblicani. Verso le ore 18.30 la riunione ha termine e i partecipanti cominciano a lasciare l’edificio di Villa Rossa, quando sono circondati dalle forze dell’ordine (che vogliono evitare di farli spostare nella vicina piazza Roma, dove si sta tenendo un concerto della banda militare per le celebrazioni dello Statuto Albertino). Alcuni colpi di pistola vengono esplosi: secondo i dimostranti da una guardia di pubblica sicurezza, mentre i carabinieri sosterranno che i colpi sarebbero partiti dalla folla. A seguito di questo, i carabinieri aprono il fuoco e sparano circa 70 colpi. Tre dimostranti sono mortalmente colpiti: il commesso Antonio Casaccia, di 28 anni, ed il facchino Nelio Budini, di 17 anni, entrambi repubblicani, muoiono in ospedale; il tappezziere anarchico Attilio Giambrignoni, di 22 anni, affacciato ad una finestra, muore sul colpo. Si contano anche cinque feriti tra la folla e diciassette contusi tra i carabinieri.

Il 10 giugno 1914, dopo un altro suo comizio a Imola, i dimostranti danno fuoco alla Pretura e assaltano la caserma della Polizia. La sera stessa Maria parla a Faenza, e anche qui una folla inferocita cerca di appiccare il fuoco al Duomo e ad altre chiese.

Maria Rygier si trova a Parigi nei giorni dell’attentato di Sarajevo contro l’Arciduca Francesco Ferdinando: segue da vicino la mobilitazione francese per la Grande Guerra, interpretando progressivamente il proprio antimilitarismo nel senso di ferma opposizione al militarismo degli Imperi Centrali e passando all’interventismo, come farà, tra gli anarchici, il torinese Massimo Rocca (Torino 1884 – Salò 1973), che, dopo la guerra, alle elezioni politiche del 15 maggio 1921 si candida nella lista del Blocco Nazionale a Torino (dove era segretario del Fascio un suo antico sodale, il tipografo e corrispondente Mario Gioda).

Il cambio di campo le vale frequenti e dure contestazioni, le sue conferenze interventiste danno più volte luogo a disordini nei quali lei sarà anche ferita.

Dopo la Rivoluzione russa e il trasferimento a Roma si avvicina agli ambienti liberali e monarchici, sostenendo la necessità di difendere la società borghese (da cui, in fondo, proviene).

Nel 1917 fonda la Lega Femminile Patriottica.

Si iscrive anche ai Fasci di Combattimento romani nel gennaio del 1921, ma la sua posizione rispetto al fascismo è da subito critica, denuncia il regime nel gennaio 1923 con una petizione alla Camera dei Deputati, dichiarandolo un “momento di confusione e di terrore che attraversa il nostro paese”.

Teme di essere arrestata e nel 1926 espatria in Francia, è nuovamente a Parigi, grazie anche al sostegno della massoneria francese, in aperta polemica con la Concentrazione Antifascista (organizzazione politica creata nel 1927 da esponenti di vari partiti italiani emigrati all’estero, allo scopo di combattere il fascismo. Della Concentrazione, che ebbe il suo organo nel giornale La Libertà, non fecero parte il Partito Popolare Italiano e il Partito Comunista).

Per Maria sono lunghi anni di solitudine e privazioni.

Quando rientra a Roma, nel 1945, nella sede del Partito Liberale viene scambiata per una mendicante.

Riprende comunque la militanza nel partito, si batte a favore della monarchia nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, insistendo sulla necessità di separare le colpe del fascismo da quelle di Casa Savoia.

Muore a Roma il 10 febbraio 1953, “Dopo aver percorso nel giro di mezzo secolo e con la massima disinvoltura tutto l’arcobaleno politico dall’estrema sinistra alla destra” ha scritto di lei Maurizio Antonioli.

Mi piace ricordare oggi, giorno della dipartita terrena, la sua movimentata parabola umana, che è stata anche antesignana del ruolo della donna nella società e nell’impegno politico.

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Articolo pubblicato il 10/02/2022