Rivelazioni su Giordano Bruno

Il Prof Marco Matteoli ci racconta il filosofo di Nola - prima parte

Civico20news ha il piacere di intervistare il Prof. Marco Matteoli, uno dei massimi esperti del pensiero e delle opere di Giordano Bruno. 

Marco Matteoli è ricercatore in Storia della filosofia presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell'Università di Pisa. I suoi interessi scientifici riguardano, in particolare, la prima età moderna. Ha curato l'edizione critica delle opere latine di Giordano Bruno (Adelphi 2004-2012) e ha pubblicato una monografia sull'arte delle memoria del Nolano edita dalle Edizioni della Normale (2019).

Potremmo dire una vita dedicata al grande Filosofo, un lungo percorso di studi e di approfondimenti affrontati con una esemplare competenza, maturata attraverso l’esame di tutti gli scritti bruniani e l’analisi delle critiche e dei commenti pubblicati dai maggiori studiosi internazionali. 

 

Giancarlo Guerreri: Prof. Matteoli, ringraziandoLa per aver accettato questa intervista, inizierei con il domandarLe come definirebbe Giordano Bruno?  Filosofo? Scienziato? Poeta?  …. o …? 

Marco Matteoli: Vorrei rispondere, anzitutto, assecondando la definizione che Bruno dà di se stesso: un filosofo. E poi ricordare che cosa egli intende per filosofo, una ‘sapiente’ che si pone in stretta relazione conoscitiva con la natura (quindi un ‘filosofo naturale’, qualcosa di simile a quello che oggigiorno definiremmo un ‘fisico’) e, per certi versi, anche un pittore ed un poeta. In una pagina molto bella dell’Explicatio triginta sigillorum, un testo di arte della memoria pubblicato a Londra nel 1583, Bruno scrive che «i filosofi sono in qualche modo pittori e poeti, i poeti, pittori e filosofi ed i pittori, filosofi e poeti e reciprocamente i veri poeti, i veri pittori e i veri filosofi si apprezzano e si ammirano.

 

Ed infatti non è filosofo se non chi immagina e raffigura[...]; né è pittore se non chi in qualche modo immagina e riflette e, infine, non si è poeti se non in virtù di una riflessione e figurazione». Pensare, contemplare e immaginare, nella prospettiva gnoseologica di Bruno, non possono essere separati, né teoricamente, né metodologicamente (da cui il suo grande interesse per l’arte della memoria, arte delle immagini per eccellenza): del resto il filosofo naturale si confronta con un orizzonte esperienziale che ha per sfondo l’infinito e l’infinito, proprio per la sua natura, non può essere attingibile  se non con uno sforzo intellettuale che assomma tutte le potenze interiori, che tentano di lambirlo con uno sguardo che è, in ultimo, metalinguistico o, se vogliamo, sovra-razionale, quasi mistico, se accettiamo che Dio, nel caso di Bruno, coincida o sia per lo meno strettamente correlato, con la natura infinita.

 

Credo che sia diverso, invece, il giudizio rispetto al «Bruno scienziato», sebbene la critica, proprio per i suoi interessi rivolti alla natura e alla sua potente visione cosmologica – sorprendentemente innovativa per il suo tempo – l’abbia considerato tale. Non ritengo, infatti, che il pensiero di Bruno o, per lo meno, l’atteggiamento filosofico che ha nei confronti della natura e gli esiti delle sue riflessioni, possano essere considerate ‘scientifiche’ in senso moderno. É Bruno stesso, del resto e di nuovo, a dirci come va considerato chi ‘misura’ la realtà naturale con il solo strumento matematico e chi suppone teorie filosofiche su di essa: i primi, scrive nel primo dialogo de La cena de le Ceneri, «son come quelli interpreti, che traducono da uno idioma a l'altro le paroli: ma sono gli altri [cioè i filosofi] poi, che profondano ne' sentimenti». Gli astronomi, i matematici, aggiunge ancora, «son simili a que' rustici, che rapportano gli affetti e la forma d'un conflitto a un capitano absente», loro leggono le cose nei particolari, ma «non intendono il negocio, le raggioni e l'arte, co' la quale questi son stati vittoriosi»; mentre il filosofo è come il capitano «che ha esperienza e meglior giudicio ne l'arte militare». Il punto di vista del filosofo, secondo Bruno, è dunque epistemologicamente distante (forse superiore) e addirittura opposto a quello che noi, oggi, consideriamo lo scienziato, almeno da un punto di vista metodologico e non considerando le molte implicazioni filosofiche – nel loro senso più ampio: etico, esistenziale, perfino ‘contemplativo’ – che la scienza ci offre. 

 

GG: Bruno viene spesso descritto come un grande saccheggiatore del Cristianesimo, un eretico a tempo pieno che dedicava il proprio tempo a demolire i dogmi di Santa Madre Chiesa… questa definizione corrisponde al vero? 

 

MM: Bruno è, fondamentalmente, un pensatore anticristiano o, come lo definisce il professor Ciliberto – lui sì massimo esperto e conoscitore del pensiero e delle opere di Giordano Bruno –, post-cristiano. Il motivo dell’avversità di Bruno per la Chiesa e il cristianesimo non è dovuto ad una particolare critica per i dogmi religiosi – seppure ne critichi molti per il modo in cui spingono le persone alla credulità rispetto a cose che Bruno considera irragionevoli o, addirittura, contrarie alla sua prospettiva etica – ma è di ordine filosofico, poiché la sua visione del mondo è incompatibile con il cristianesimo. Nella filosofia di Bruno, infatti, non c’è posto per alcuna figura di mediazione tra il piano divino e quello umano: l’unico eterno e immenso ente che si frappone tra noi e Dio è la natura stessa – che non a caso Bruno definisce «unigenita» come il Cristo – ed inoltre non è assolutamente sostenibile da un punto di vista teorico che l’infinito si ‘incarni’ in un soggetto finito, per quanto la sua natura possa essere considerata divina.

 

L’infinito, infatti, può solo esprimersi in una natura altrettanto infinita e, per questo, essa allora è divina. Tutto ciò non implica, da parte di Bruno, il rifiuto nei confronti di ogni religione o della chiesa, qualunque sia il suo credo: il discrimine per giudicare se un culto è buono consiste, infatti, nei ‘frutti’ che esso apporta alla società. Ne Lo spaccio de la bestia trionfante, il testo in cui è più esplicitamente esposto il progetto di riforma morale, sociale e religiosa di Bruno, egli propone una nuova gerarchia di valori: gli dèi – parafraso il testo – vogliono essere amati e temuti allo scopo di favorire «al consorzio umano» e detestano al massimo «que' vizii che apportano noia a quello»; pertanto i «peccati interiori» devono essere giudicati tali «per quel che metteno o metter possono in effetto esteriore; e le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna, come le piante in vano sono piante senza frutti».

 

Di conseguenza gli errori e le colpe più gravi sono quelli che producono «pregiudicio della republica» e quelli meno gravi quelli che danneggiano alcune o poche persone, mentre è un errore «nullo» quello che riguarda solo l’opinione personale e dal quale «non procede a mal essempio o male effetto». La morale bruniana, insomma, è tutt’uno con l’etica e con l’esercizio delle virtù politiche, civili e sociali. Per questo apprezza, riprendendo Machiavelli, la religione dei Romani, che era tutta volta a preservare la nazione, la validità della fiducia e dei patti politici, mentre disprezza massimamente il cristianesimo riformato, perché, nell’assicurare la salvezza per la sola fede interiore, nega appunto il valore delle opere.

 

Il male incarnato dalla Riforma, in particolare, si vede proprio dai frutti che ha prodotto: le guerre di religione che incendiano tutta l’Europa, il fanatismo religioso; il cristianesimo dei riformati, dunque, è un «morbo pestifero», come la definisce Bruno, da estirpare a tutti costi, mettendolo al bando da ogni consesso civile: non si può tollerare, infatti, chi fa dell’intolleranza la propria principale ideologia e azione politica.

 

Il rapporto con la Chiesa e la teologia cattolica, al contrario, non è altrettanto conflittuale come con i riformati: in più momenti della sua vita Bruno, intuendo la possibilità di un cambiamento della teologia interna alla chiesa stessa, tenta di riavvicinarsi ad essa; perfino durante i lunghi anni del processo prova più volte a convincere il pontefice dei possibili punti di contatto tra la sua riforma religiosa e civile e la secolarizzazione del potere religioso che, oramai, era la forma principale di espressione del cattolicesimo nelle nazioni rimastigli fedeli. Ovviamente, dal punto di vista cattolico, ogni avvicinamento alla filosofia di Bruno era impossibile – una volta compresa la sua visione – non meno di quanto, in fondo, lo era Bruno rispetto al cristianesimo, anche romano. 

 

GG: Secondo la Sua esperienza come potrebbe essere definita la Weltanschauung di Giordano Bruno? La sua visione del mondo sembra trascendere i limiti imposti dalle varie confessioni, pur mantenendo una pregnante religiosità  che superava i confini che caratterizzano le varie teologie. 

 

MM: La filosofia di Bruno è anzitutto e principalmente una filosofia della natura, una «metafisica della natura», volendo usare provocatoriamente tale ossimoro. La prospettiva bruniana, infatti, non può prescindere dall’idea di infinito che rimanda, inevitabilmente, alla nozione di Dio o di divinità, poiché la personalizzazione di tale concetto è estranea non solo alla prospettiva di Bruno, ma anche alla teologia negativa di pensatori come Cusano, alla cui ‘ontologia’ Bruno si rifà profondamente.

 

Essendo, però, una filosofia della natura (infinita), la Nolana filosofia è anche un’antropologia, poiché riconsidera la condizione dell’uomo all’interno del contesto naturale, definendone il destino e la sua azione in senso naturalistico. In questa ottica la ‘natura’ dell’uomo è creare e produrre civiltà, cultura, invenzioni e tutte queste non sono considerate attività ‘artificiali’, ma perfettamente naturali. La natura, infatti, ha come «fine e perfezione» la produzione di tutto quanto è implicito potenzialmente alla sua materia fisica e il principio vitale che opera dall’interno di essa – che Bruno chiama «efficiente primo», «intelletto universale» e «anima del mondo» – agisce o nelle cose stesse naturali o attraverso di esse, ossia per mezzo delle azioni e delle relazioni degli organismi naturali stessi.

 

Questi possono essere di varie dimensioni e complessità: gli esseri viventi più grandi di tutti sono i mondi, cioè i corpi celesti, che possono essere principalmente ‘caldi’ (i soli) o ‘freddi’ (i pianeti) ed i cui reciproci movimenti sono dovuti alle relazioni di reciproco «nutrimento» che essi intrattengono gli uni rispetto agli altri. I pianeti, ad esempio, si nutrono del calore dei soli, ruotando attorno ad essi e volgendosi anche intorno a se stessi in modo da offrire ogni parte della propria superficie al calore vitale che promana dal sole e diffonderlo così fino ad ogni parte esterna ed interna del proprio organismo.

 

Sulla superficie e corpo dei mondi poi, vi sono altri e innumerevoli esseri viventi, tra i quali l’uomo: le cose che fa, la storia e la cultura che costruisce sono parte di questo ciclo vicissitudinale e naturale perenne, che permette ad ogni mondo di esprimere in atto tutte le possibilità materiali che gli sono fisicamente implicite. Come tutto ciò che è vivo, pertanto e riprendendo un altro motivo machiavelliano, anche le civiltà sono destinate e nascere, crescere e perire, in un ciclo organico che, appunto, riguarda tutto ciò che è vivo e, per questo, in continua trasformazione. 

 

Termine della prima parte

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Articolo pubblicato il 09/04/2022