Più Italia

Di Aldo A. Mola

Il 25 aprile 1945 vinse anche il Regno d’Italia

Forse è il caso di ricordare, anche “in alto”, che il 25 aprile 1945 per le Nazioni Unite (anglo-americani, Unione sovietica e loro alleati) l’Italia aveva una precisa identità: era il Regno d’Italia. Il capo dello Stato era Vittorio Emanuele III che il 5 maggio 1944 aveva trasmesso tutti i suoi poteri al principe ereditario, Umberto di Piemonte, Luogotenente del regno, ma aveva mantenuto la corona perché poteva guardare negli occhi, senza abbassarli, tutti i capi di Stato dei Paesi vincitori, a cominciare dagli inglesi. L’Italia intratteneva rapporti con la Comunità internazionale tramite gli ambasciatori del Re. Le sentenze venivano pronunciate “in nome del Re”. Altrettanto valeva per tutti gli atti pubblici e di valore legale. L’Italia era una monarchia, impegnata dal 25 giugno 1944 a sottoporre a “verifica” la forma dello Stato da parte dei cittadini: un’assemblea elettiva o un plebiscito, come proposto dal Comitato di Liberazione Nazionale sin dall’ottobre 1943. Il presidente del Consiglio, già alla guida del governo dal giugno 1921 al febbraio 1922, era stato incaricato dal Luogotenente, non dal CLN. Come Benedetto Croce ruvidamente ricordò in polemica con Ferruccio Parri, l’Italia pre-fascista era stata una democrazia. Va sottolineato anche oggi poiché troppi, a digiuno di storia, credono che l’Italia sia divenuta un Paese democratico solo il 25 aprile 1945 (data del tutto convenzionale, come il 2 giugno 1946). E se è vero che la libertà fu (ri)conquistata “con le armi”, non si deve dimenticare che la “liberazione” dell’Italia fu dovuta agli anglo-americani e ai Gruppi di Combattimento allestiti dal regio governo, che per bandiera avevano il tricolore con scudo sabaudo nel bianco.

Questi sono “fatti”. La narrazione di comodo, chiunque la proponga, è retorica spicciola, fastidiosa per quanti hanno ormai compreso che non gliela raccontano giusta e sono sempre meno disposta a berla.

 

Che cosa il contribuente si attende dallo Stato

Con buona pace dei “sondaggi”, alla stragrande maggioranza degli italiani pochissimo importa di chi venga eletto presidente della repubblica francese e di come vada a finire l’assedio dell’acciaieria nell’Ucraina meridionale. Non sono né populisti né sovranisti, etichette di comodo appiccicate per separare i cittadini in “buoni” (genuflessi al pulpito dei “narratori”) e “cattivi” (refrattari alla parola d’ordine “credere, obbedire, combattere”). Sono persone che si interrogano sul presente, riflettono in autonomia e sospettano che tanti racconti siano specchietto per le allodole.

Ai cittadini importa altro. Non hanno affatto bisogno di sentirsi dire come sono. Lo vedono. Qualche cosa sanno e la dicono: ma a persone fidate, non ai media, che divulgano solo le opinioni gradite ai propri mandanti. “Taci, il nemico ti ascolta” era la direttiva imposta quando ancora non si sapeva che tutto, ma proprio tutto, era (come è) intercettato, registrato, archiviato a futura memoria di chissà chi, chissà quando e chissà perché. L’Italia era il Paese nel quale anche un certo Benito Mussolini, da agitatore con gli occhi roteanti asceso a presidente del Consiglio, “duce del fascismo” e Primo Maresciallo dell’Impero, auscultava tutti ma, lo sapesse o meno, aveva il suo stesso telefono sotto controllo anche quando chiamava affannosamente la petulante Claretta Petacci o ne veniva chiamato: conversazioni da rotocalco rosa, se non fosse che avvenivano mentre l’Italia era nei guai e aveva urgenza di ben altro che dello zuccheroso “Ben mio”. A liberarla da quella gabbia non furono i “partiti” ma il Re.

Ordunque, i cittadini vorrebbero che le sempre più cavillose Poste e Telegrafi funzionassero, che i treni non fossero solo costosissime freccerosse e/o bianche ma servissero decentemente l’intero territorio nazionale, che le voraci autostrade, costruite coi quattrini degli italiani, non fossero esose quali sono e non sempre intasate da “lavori in corso” che i “cantieri” non chiudono mai. Si attenderebbero di non essere perseguitati dall’Agenzia delle entrate per inezie mentre l’evasione naviga maestosa come Bucintoro plaudito da popolo estasiato. I cittadini si aspettano parole chiare sulle epidemie antiche, nuove e venture, non da ventriloqui di ormai disciolti commissariati e comitati vari ma dal governo: cioè dal presidente del Consiglio, che ha la responsabilità della conferma in carica del lugubre ministro Roberto Speranza. Potremmo allungare all’infinito la litania delle legittime attese di cittadini oberati da un il prelievo fiscale che ha superato il 51%, dediti al risparmio ma sempre più impoveriti da ricorrenti ondate di inflazione annunciate con formule magiche, come fossero misteriose piaghe d’Egitto mentre derivano da incapacità di programmazione di lungo periodo (un miraggio, quest’ultima, in un Paese fondato sull’instabilità dei governi e quindi sulla inconsistenza dei “piani pluriennali”).

 

Ciò che ci si attende dal Presidente Mattarella

In sintesi, la stragrande maggioranza degli italiani chiede venga emanata una legge costituzionale di un articolo solo di poche parole: “Vivi e lascia vivere”. Lo Stato deve funzionare e rispettare i cittadini.

Lo chiede al presidente della repubblica Sergio Mattarella, confermato in carica dopo mesi di suoi fermi, ripetuti e apparentemente insuperabili rifiuti di rimanere dove è. Lo chiede alle due Camere, indecise a tutto se non a trascinarsi agonizzanti in attesa che chissà quale portento (manca solo un altro Diluvio universale) le conservi in vita, benché sia ormai chiaro che non sanno partorire né una legge elettorale a misura della riduzione dei loro “membri” (nome comune per indicarne i componenti maschi e femmine), né gli urgentissimi regolamenti che ne dovrebbero derivare. Sull’esito del voto prossimo venturo nessuno scommette un centesimo.

  In questa eclissi delle istituzioni, ormai inconsistenti, la chiacchiera quotidiana rimane inchiodata alla traduzione in vernacolo italiano di quanto accade nell’universo mondo. Sino alla scorsa estate faceva notizia l’Afghanistan. Chi più se ne occupa da quando l’“Occidente” se ne dileguò nottetempo, lasciando nelle mani dei talebani baracca e burattini (munizioni da fuoco, da bocca e da altro: a cominciare dalla tragica sorte riservata alle afgane) e perdendo ogni credibilità a cospetto della ormai obliata popolazione menata per il naso da quella che altro non fu se non una “operazione militare speciale”? Lo stesso vale per la miriade di conflitti armati o sotto traccia in corso nei sette continenti del pianeta e di quelli che si preparano con i più sofisticati artifizi della guerra cibernetica.

“The man in the street” non ha più voglia di farsi carico del “male che ci circonda” (parola d’ordine del sessantottismo che in Italia dura da mezzo secolo e ancora sopravvive in certi salotti televisivi ove s’affacciano cariatidi lottacontinuiste e loro succedanei e imitatori) e nemmeno di “pulire il mondo”. Il cittadino comune non solca l’oceano in catamarano e non viene accolto all’approdo in mondovisione. Non pretende di farsi ricevere dal papa, né di parlare alle Nazioni Unite: lì già bastano i rappresentanti di 193 “Stati”, in massima parte del tutto irrilevanti (anche dittature feroci ma “buone” se gas-disponibili), al pari delle sue “missioni di pace” (valide solo dove non vi sono conflitti veri) e del suo stesso Statuto. Il cittadino “normale” chiede solo di vivere in pace.

Nell’Italia politicamente sfarinata il primo partito è il PAI

Ma non è facile in un Paese come l’Italia, sospinta nella e dalla narrazione alla rissa quotidiana in nome di non si capisce bene quali ideali o principi o valori. Da decenni si ripete che destra e sinistra sono categorie e/o classificazioni “politico-partitiche” superate dai fatti. Però basta un nulla a far scattare il richiamo della foresta del manicheismo: la richiesta di esibizione di “patente e libretto” di virtù democratica. Ma chi ha titolo per vidimare e vagliare? Con argomenti settari si mette persino in discussione l’evento scelto dall’Associazione Nazionale Alpini per festeggiare se stessa. Ma chi ha diritto di interferire? I Bersaglieri festeggiano Porta Pia con cappellani al seguito e senza scandalo alcuno. Unicuique suum.

Poiché le “feste civili” (come è il 25 aprile) sono occasione non solo di fiaccolate, grigliate, pizze, cannoli e cassate varie ma anche per riflessioni sullo stato della democrazia parlamentare e sulle sue prospettive, vanno ricordati alcuni “fondamentali” del quadro politico. Innanzitutto, il primo partito italiano è il PAI: Partito degli Astenuti d’Italia. I “paisti” non sono cittadini disertori o fedifraghi. In maggior parte sono “apoti”: non la bevono più. Assistono sconcertati e disgustati alla gara tra capibastone di partiti medi, piccoli e minimi per piazzare loro esponenti nelle cariche che contano. E se ne tengono fuori. Non salgono sulla giostra. Già pagano involontariamente il biglietto perché essa continui a girare, ma almeno si astengono dall’applaudire. Non si fanno più abbindolare neppure dal motto di Indro Montanelli: turarsi il naso e votare diccì. All’epoca del bipolarismo la scelta era chiara: tra l’Italia e l’anti-Italia. Ma oggi? Oggi occorre più Italia. Ma la strada è scoscesa.

Secondo i sondaggi ormai da tempo ripetitivi e quindi abbastanza attendibili, a lunga distanza dal PAI si collocano un paio di partiti (FdI e PD) che contano circa il 20% dei consensi dei probabili votanti. Un paio di altri (Lega e M5S) pare abbiano circa il 15%. Segue un quinto partito (FI) che veleggia tra l’8 e il 10%. Poi si affolla la pletora di chi annaspa al di sotto del 4%, soglia di accesso alla spartizione dei seggi secondo i fautori del riparto proporzionale dei parlamentari sulla base dei voti ottenuti.

In concreto, anche il partito (o movimento) più votato è una debolezza. Deve fare i conti con l’altro 80% dei votanti: con cittadini in carne e ossa (come diceva Antonio Gramsci) sempre meno inclini a riconoscersi in parlamentari ondivaghi. In tale scenario, poiché la propensione alla rissa prevale su ogni ragionevolezza, alcuni da tempo accampano il diritto di essere incaricati di formare il governo se avranno un voto in più rispetto ad altre forze della stessa area. Ma al momento l’“area” è… aerea: non c’è. E più passa il tempo più diviene labile, perché, come insegnava Giulio Andreotti, il potere logora chi non ce l’ha. E la “destra” non l’ha dalla caduta del Governo Berlusconi, quando a Giorgia Meloni venne affidato il ministero delle politiche giovanili (più o meno quello dell’attuale pentastellata Fabiana Dadone).

Poiché per ora vige la Costituzione del 1°gennaio 1948 (baluardo contro rovinose derive) va ricordato che “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri”. Non è scritto da nessuna parte che debba nominare chi ha un voto più di un altro partito. Nel 1981 il dottor Alessandro (Sandro) Pertini, socialista, nominò presidente del Consiglio il professore senatore Giovanni Spadolini, segretario del Partito repubblicano italiano, che all’epoca contava 16 deputati su 630: meno dei socialdemocratici (20 seggi), un quarto dei socialisti (62) e un’inezia rispetto ai 263 democristiani. Un po’ più dei liberali (9 deputati e un paio di senatori), che entrarono nel governo di pentapartito. Non è in alcun libro del destino né della Carta costituzionale che un bel dì il capo dello Stato debba “investire” presidente del Consiglio il capo del partito che ottiene più voti. Anche per questo motivo hanno ragione di ritenersi in corsa i segretari o presidenti di partiti piccoli e minimi. Chissà mai che cosa riserva il futuro? La storia ha più fantasia di chi crede di dominarla o degli storiografi, profeti del passato remoto.

Sic stantibus rebus anziché perseverare diabolicamente nella ricerca di motivi di divisione in fazioni corrive a innalzare insegne straniere gioverebbe “vestire all’italiana”, recuperare i colori dell’identità nazionale. Ciò non significa essere populisti, sovranisti né, meno ancora, nazionalisti, bensì unicamente consci del significato autentico dell’unità d’Italia, nata appena 170 anni fa (o 100, se la datiamo dalla fine della prima guerra mondiale), delle sue radici profonde, della sua vocazione europea e, ricordiamolo, universale grazie alla romanità che venne assunta a fondamento della Terza Italia. Sconfitto nella guerra del 1940-1943 ma non disfatto, il Regno d’Italia intraprese la riscossa e avviò la ricostruzione: un’opera immane da ricordare non un giorno all’anno ma ogni giorno dell’anno per motivare i cittadini a confidare nelle istituzioni e a esprimere il proprio voto nelle urne, quando finalmente lo potranno fare. Se poi, come già è accaduto, essi voteranno a casaccio non potranno poi lamentarsi delle conseguenze (come tardivamente fanno). “Chi causa il suo mal pianga se stesso”. È quanto avvenne nel 1919, nel 1921, nel 1924… e nel 2018.

Non fu il Re a spingere l’Italia verso il regime fascista. Furono le Camere a votare le stupide leggi che anno dopo anno condussero il Paese dalla democrazia parlamentare al partito unico, anticamera della credulità popolare. Il sovrano costituzionale firmò ed emanò, come fa oggi il Presidente della Repubblica.

Perciò vi è motivo di riscoprire il ruolo della monarchia costituzionale nella storia d’Italia: di quel regno d’Italia che il 25 aprile 1945 aveva comandante del Corpo Volontari della Libertà il generale Raffaele Cadorna e Capo di stato maggiore generale il Maresciallo Giovanni Messe, in carica sino al 1° maggio 1945. Chissà se e come verranno ricordati nell’Anniversario della Liberazione?

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 24/04/2022