Il potere del Re

Dal libro di Aldo A. Mola, “Vittorio Emanuele III. Il Re discusso”

Sabato 14 maggio con “Il Giornale” sarà distribuito il libro di Aldo A. Mola, Vittorio Emanuele III. Il Re discusso, nella collana “I Protagonisti”. Frutto di ampie ricerche d’archivio è la storia dei 46 anni di Re Vittorio. Anticipiamo qui la “riduzione” parziale di uno dei capitoli iniziali.

I Poteri del Re costituzionale non erano molto diversi da quelli dell’attuale presidente della Repubblica.

Il libro di Mola evidenzia la continuità dello Stato d’Italia, giunto all’unità grazie alla Monarchia di Savoia. Non essa sola, ma non senza di essa. Il Re nominò i senatori e, fons honorum, conferì le onorificenze degli Ordini cavallereschi, come oggi fa il Presidente della Repubblica: temi che meritano approfondimento.

 

Quale petrolio olet di meno?

Chi e come comanda in Italia? Un paio di anni fa uscì Io sono il potere. Confessioni di un capogabinetto, raccolte da Giuseppe Salvaggiulo (Feltrinelli). Due edizioni in un mese. Mise a nudo l’onnipotenza dell’alta burocrazia, in specie i capigabinetto ministeriali. Ministri e sottosegretari passano. Essi restano. Indispensabili. Rievocò il leggendario Cencelli (“Max” per gli amici) e il suo celebre Manuale per la spartizione della torta del potere in correlazione al peso delle correnti di partito: proporzionale puro, caro a don Luigi Sturzo. Se ne avvantaggiarono i “pontieri” Taviani, detto Pet, Francesco Cossiga e Adolfo Sarti.  Quasi in controcanto al ritratto esilarante e tragico del funzionamento della “politica” degna delle Cronache bizantine, un mese dopo Sabino Cassese pubblicò Il buon governo. L’età dei doveri (Mondadori), affresco di un’“altra Italia”. Quella delle “belle speranze”, che, come noto, sono sempre le ultime a morire. Il covid-19 prima, l’operazione militare speciale russa in Ucraina poi, la scoperta, infine, che anche la pacifica Italia ha armi non solo da vendere ma anche da regalare (senza però dire quali) e che, in alternativa alla Sarmazia, la madrepatria di poeti, santi e navigatori può procacciarsi petrolio e gas dall’Iran e da altri paesi democratici come Algeria, Angola, Congo e via continuando hanno calato la saracinesca sull’esercizio del Potere in Italia. Chi lo detiene lo usa. Gli altri stanno a guardare. Al più parlano. Donde il “parlamento”: due Camere che aspettano il gong dello “sciogliete le file” anziché dell’ennesimo apericena. In attesa che un giorno o l’altro vengano indette nuove elezioni politiche, continua a circolare la bizzarra leggenda secondo cui il capo-partito che otterrà più voti verrà automaticamente incaricato di formare il governo: asserzione, questa, che non compare né nella Costituzione né nella prassi. La nomina del presidente del Consiglio è prerogativa del Capo dello Stato, senza vincolo alcuno (art. 93 comma 2), esattamente come lo era in età monarchica.

Motivo in più per domandarsi come funzionasse il Potere secondo lo Statuto concesso da Carlo Alberto di Sardegna il 4 marzo 1848 e rimasto in vigore sino al 31 dicembre 1947. Durato immutato per un secolo era la costituzione più bella del mondo? Merita una panoramica, che è anche rapida sintesi della storia di un’Italia che in pochi decenni dal nulla che era divenne quasi una grande potenza.

 

Un Capo di Stato golpista?

Più di settant’anni fa lo storico Luigi Salvatorelli affermò che la dichiarazione di guerra dell’Italia contro l’impero austro-ungarico (23 maggio 1915) fu il primo dei tre colpi di stato messi a segno da Vittorio Emanuele III. «Il potere monarchico nelle mani di Vittorio Emanuele III, egli scrisse, ha funzionato come potere determinante, in modo e misura tali che si può ben parlare di tre colpi di Stato; se non in un rigoroso senso giuridico della parola - senso che non è facilmente precisabile - per lo meno in riferimento alla prassi consuetudinaria e nel significato politico-morale, che è quello più importante». Secondo Salvatorelli il re abusò tre volte della potestà statutaria: con l’avallo del “patto di Londra” del 26 aprile 1915 e il conseguente intervento dell’Italia nella Grande Guerra; poi con l’incarico a Benito Mussolini di formare il governo (30 ottobre 1922); e infine il 25 luglio 1943, quando impose a Mussolini le dimissioni e nominò Pietro Badoglio capo del governo per salvare la monarchia anche a costo di affondare il Paese: tesi, quest’ultima, da diverso osservatorio condivisa da Elio Lodolini in La illegittimità del governo Badoglio (Milano Gastaldi, 1953).

Senza entrare nel merito delle motivazioni “politico-morali” evocate da Salvatorelli, estranee al metodo storiografico, per comprendere l’azione del re nell’arco dei mesi dall’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo all’ingresso in guerra (28 giugno 1914 - 23 maggio 1915), come nelle altre “date cruciali” da lui bollate come “colpi di stato”, occorre “tornare allo Statuto”, cioè ricordare quali fossero i poteri del sovrano e accertare quale uso Vittorio Emanuele III ne abbia fatto e per quali fini (suoi propri o del Paese?), fermi restando l’intreccio ma anche la distinzione (statutaria e normativa) tra monarchia, Casa reale e persona del sovrano.

La storiografia al riguardo ha oscillato tra l’imputazione al sovrano di abuso di potere nei confronti del governo e del Parlamento e la sottovalutazione del suo ruolo. Secondo Antonino Repaci il re fu il principale “colpevole” dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra e dell’avvento di Mussolini. Forse per attenuarne le supposte “responsabilità” alcuni hanno enfatizzato le “voci” di una “malattia” (raccolte da Angelo Gatti nel “Diario” pubblicato nel 1964 a cura di Alberto Monticone e condivise da biografi non documentati) che avrebbe reso il sovrano indeciso, abulico, preda persino di pulsioni suicide o deciso ad abdicare e partire per l’estero.

Per approfondimento e una corretta visione del liberalismo in Italia, messo alla prova dalla “settimana rossa” del giugno 1914 e, poco dopo, dalla conflagrazione europea, è necessario ripercorrere sinteticamente il contesto nel quale Vittorio Emanuele III operò durante i mesi di acuta tensione internazionale, presto precipitata nella sequenza di mobilitazioni (a cominciare da quella russa, che precedette ogni altra), ultimatum (l’Impero austro-ungarico alla Serbia) e dichiarazioni di guerra. Il 2 agosto 1914 il governo deliberò la neutralità dell’Italia, che il re annotò a pag 106 dell’Itinerario generale dopo il 1° giugno 1896: «Luglio, 28. Roma (minacce di guerra); 29 per St. Anna di Valdieri; Agosto 1° Roma (Quirinale) (Neutralità); 6, Roma (Villa Savoia)»: appunti seguiti da tre sole note sino a «Dicembre, 26 (nasce Maria)».

Esercitato in studi severi (storia, geografia, araldica, numismatica...), da depositario unico della memoria di quanto egli stesso e il governo avevano fatto dalla sua ascesa al trono a quel momento, il re sentì su di sé il “brut fardèl” dello Stato con un’intensità e una continuità di gran lunga superiore a quella di ogni presidente del Consiglio (Giolitti incluso), ministro degli Esteri e titolare di qualsivoglia dicastero.

Per comprenderlo occorre ricordare, sia pur brevemente, la cornice entro la quale agì il sovrano: i poteri della Corona.

 

I poteri statutari del re

La proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia con la legge istitutiva del regno approvata dalla Camera dei deputati il 14 marzo 1861 e pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” il 17 seguente confermò al sovrano quanto già era suo e non modificò le norme che regolavano la Casa, cioè le Regie patenti del 17 settembre 1780 e del 17 luglio 1782, concernenti anche i matrimoni dei principi del sangue.

Il Regio Decreto 2 luglio 1890, n. 6917, “Disposizioni sullo stato delle persone della Famiglia Reale”, a sua volta configurò con maggior chiarezza la potestà del sovrano, il quale è “capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune”, con la riserva fondamentale: «I trattati che importassero un onere alle finanze, o variazioni di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere.» Nella prassi la titolarità del comando delle forze armate non comportò il suo esercizio. Esso poté essere delegato a un comandante effettivo, incaricato della strategia e delle operazioni conseguenti (la “somma delle cose della guerra” addossate al gen. Chrzanowski nel marzo 1849), anche se la responsabilità istituzionale e politica ultima rimase in capo al sovrano, come certificò l’abdicazione di Carlo Alberto la sera della sconfitta a Novara il 23 marzo 1849. Del pari, la potestà di deliberare la guerra venne distinta da quella di dichiararla e proclamarla. Conscio del peso che esso avrebbe comportato per il regno, nel 1855 Cavour volle che il trattato comprendente la dichiarazione di guerra all’impero di Russia a fianco di Gran Bretagna, Francia e impero turco fosse approvato dal Parlamento e nel 1859 cercò di far sì che al re rimanesse solo “l’apparence du commandement”, senza pregiudicare la forma statutaria che, nel caso, era anche sostanza.

Dalla politica estera e, conseguentemente, da quella militare, derivavano gli impegni del Tesoro e delle Finanze e l’intera vita pubblica del Paese. Come ricordò Luigi Einaudi, per Vittorio Emanuele III Esteri e Guerra erano la “testa” dello Stato; il resto (Interni, Tesoro, Finanze, Istruzione, Lavori Pubblici, Agricoltura, industria e commercio, ecc.) erano i visceri. Elaboravano e fornivano le energie necessarie per alimentare l’attuazione delle decisioni vitali.

 

I “cugini del re”

Il re parlava attraverso atti di valore emblematico e di sua esclusiva potestà. Ne ricordiamo alcuni, per evidenziare lo spazio di suo riservato dominio. Fu il caso del conferimento del Collare dell’Ordine della Santissima Annunziata, classe unica a differenza degli altri Ordini dinastici, che comportava il rango di “cugino del re”. I cavalieri della SS. Annunziata nei ricevimenti di corte avanzavano subito dopo i principi della Casa e i cardinali della Chiesa cattolica.

Dall’ascesa al trono Vittorio Emanuele III impresse all’Ordine una valenza completamente nuova rispetto ai precedenti 39 anni del regno d’Italia. Con il conferimento dei collari fece trasparire le linee venture della politica estera. Il 10 aprile 1901, dopo soli otto mesi di regno, il re conferì il Collare al presidente della Repubblica francese, Emile Loubet, notoriamente anticlericale, nel quadro del riavvicinamento italo-francese scandito dagli “accordi Prinetti-Barrère” (1902) e dal suo viaggio di Stato a Parigi (13-18 ottobre), ricambiato dalla visita di Loubet a Roma nell’aprile 1904. Quel conferimento fu un passo di portata storica, perché conteneva politica estera e politica interna. Esso mostrò la duttilità della Monarchia. La direzione di marcia innovativa venne poi confermata con l’assegnazione del Collare al nuovo presidente della Repubblica francese, Armand Fallières (25 aprile 1909), pochi mesi prima della visita dello zar Nicola II al re a Racconigi (24 ottobre).

I collari conferiti da Vittorio Emanuele III nei primi quattordici anni di regno paiono dunque altrettanti lumini posti sui sentieri che l’Italia aveva seguito e, più vividi, su quelli che avrebbe deciso di percorrere in un’Europa le cui maggiori potenze (Germania, Austria-Ungheria, Russia, Gran Bretagna e Francia) stavano investendo immense risorse nelle armi di terra e di mare. Essi costituirono una sorta di ammiccamento allusivo alle intenzioni del re in una visione di lungo periodo. Valgano d’esempio il Collare conferito allo zar dei Bulgari e quello ad Alberto I del Belgio.

Per completezza, va aggiunto che il 23 giugno 1915, esattamente un mese dopo la dichiarazione di guerra contro l’impero austro-ungarico, Vittorio Emanuele III conferì il Collare ad Edoardo Alberto, principe di Galles, futuro Edoardo VIII, e scelse il 14 luglio, festa della Rivoluzione francese, per fregiarne Raymond Poincaré, terzo presidente della “sorella latina” che egli creò “cugino del re” nel corso di un quindicennio. In quello stesso arco di tempo il sovrano non conferì alcun Collare a presidenti di Stati con i quali l’Italia aveva relazioni anche intense. Fu il caso degli Stati Uniti e delle repubbliche dall’America centro-meridionale.

Il re suggellò il 1915 conferendo il Collare a Paolo Boselli, primo segretario dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro: una decisione lungimirante, quando si osservi che l’anziano deputato e ministro liguro-subalpino, successore di Salandra, a sua volta Collare dal 30 dicembre 1914, quando l’opzione a favore dell’Intesa anglo-franco-russa era ancora tra le ipotesi, mentre era una certezza che l’Italia non sarebbe scesa in guerra a fianco degli Imperi Centrali.

 

Il corpo diplomatico

Il corpo diplomatico e i vertici delle Forze Armate erano due altri pilastri della Corona. Lo Statuto, le leggi e i decreti legge al riguardo non ne intaccarono mai il nesso.

Le “Memorie” di Giuseppe Salvago Raggi, scritte con penna talora intinta in pregiudizi antimassonici, e il “Diario” di Guglielmo Imperiali di Altavilla offrono un panorama suggestivo del corpo diplomatico italiano. Esso era radicato nell’aristocrazia di alto censo, anche per la disparità fra il modesto trattamento economico del personale e il gravame dell’esercizio delle cariche di ambasciatore, ministro, console...: una “carriera” che veniva intrapresa con anni di volontariato senza stipendio alcuno e il dimostrato possesso di prerequisiti comportanti anni di studi e di esperienze all’estero. Anche se in misura meno gravosa, analoga fu la condizione dei prefetti nei primi decenni postunitari, quando molti rappresentanti del Governo nelle province provennero a loro volta da aristocrazia o alta borghesia, il cui stipendio era del tutto inferiore agli obblighi che derivavano dall’esercizio della carica.

 

I vertici delle Forze Armate

Ancora più rilevante fu la nomina del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.

Come accennato, l’esercizio del comando effettivo delle forze armate, attribuito al re dall’art. 5 dello Statuto del 4 marzo 1848, costituì una tra le questioni più spinose del regno.

Il 29 dicembre 1907 per la prima volta dal 1848 ministro della Guerra fu nominato un civile, Severino Casana, nobile e senatore. Il 27 giugno 1908 il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il sessantottenne generale Tancredi Saletta (Torino, 1840 - Roma, 1909) fu collocato in posizione ausiliaria per motivi di età. Per la tacita regola in forza della quale l’anzianità di servizio costituiva motivo di precedenza, candidato alla successione era il cinquantottenne Luigi Cadorna (1850-1928). Con la massima discrezione Giolitti gli fece domandare come si sarebbe condotto in caso di guerra. Studioso della terza guerra d’indipendenza (1866) Cadorna rispose che non avrebbe consentito interferenze nella decisione del piano strategico. Per lui valeva il principio dell’unità di comando e della connessa responsabilità. Si profilò il potenziale conflitto di competenze Corona-governo-ministro della Guerra-Capo di Stato Maggiore. Gli venne preferito il napoletano Alberto Pollio, di due anni più giovane, antico allievo del Collegio Militare “Nunziatella.

Mentre l’annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Francesco Giuseppe d’Asburgo (1908, formalizzata l’anno seguente) faceva soffiare più impetuosi i venti di guerra, il re non intendeva venisse intaccato il suo comando delle forze di terra e di mare. La politica estera e, di conseguenza, quella militare generarono frizioni tra il sovrano e il “suo” presidente del Consiglio, Giolitti, come per la destituzione del generale Asinari di Bernezzo, colpevole di un discorso “irredentista”.

L’equilibrio (statutario, politico e fattuale) tra il sovrano, il presidente del Consiglio, il ministro della Guerra e il capo di stato maggiore dell’esercito raggiunse la quasi perfezione nel 1911-1914 con il Quadrilatero Vittorio Emanuele III, Giovanni Giolitti (Collare dal 20 settembre 1904), Paolo Spingardi (a sua volta “cugino del re”) e Alberto Pollio. Esso si resse sull’armonia tra i titolari delle cariche apicali e conseguì il massimo successo nella politica internazionale proprio mentre, su impulso del presidente Giolitti, venne quasi triplicata la base elettorale della Camera dei deputati, a tutto vantaggio del consenso del Paese verso le istituzioni.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 01/05/2022