Cina, Taiwan e il difficile dialogo con l'Occidente

La tensione nel Pacifico sale a vista d'occhio. La situazione potrebbe precipitare definitivamente.

L’eccesso di illuminismo di noi occidentali molte volte ci impedisce di metterci nella testa degli altri. Vedendo solo noi stessi, neghiamo il principio di realtà e disperdiamo il senso del Tempo. Così aboliamo Storia e capacità di giudizio nel nome di una fantomatica quanto illusoria universalità dei diritti e del libero mercato.

Recenti votazioni all’Assemblea Generale dell’Onu hanno evidenziato una spaccatura culturale, prima ancora che geopolitica, fra occidentali e non occidentali. Sulla sospensione della Russia dal Consiglio per i diritti umani, ad esempio, non si sono espressi in senso favorevole Stati rilevanti come Brasile, Cina, Egitto, India, Pakistan, Sudafrica. Emerge una linea di faglia che l’Occidente sottovaluta e che conferma la sua difficoltà di mettersi nella testa dell’altro. E che porta a negoziare con sé stessi.

La distanza fra Occidente e diverse regioni del mondo è così ampia da far sorgere il sospetto di una profonda incomunicabilità, a dispetto dei commerci globalizzati. Vendersi merci non significa dialogare.

E questo sembra proprio essere il caso della Cina nei confronti dell’America.

A Singapore è andato in scena lo Shangri-La Dialogue, vertice internazionale dedicato alle questioni della sicurezza regionale del sud e dell'est asiatico, oltre che globale. Si è cercato appunto un dialogo tra le parti su temi molto delicati come il bullismo missilistico e nucleare della Corea del Nord e l'invasione russa dell'Ucraina; ma quando cinesi e americani s'incontrano direttamente è inevitabile che volino le scintille sul punto che più li divide: Taiwan.

I capi della Difesa di Stati Uniti e Cina si sono così incontrati e scontrati.

«Se qualcuno osa dividere Taiwan dalla Cina, l'esercito cinese non esiterà a avviare una guerra, a qualsiasi costo». È l'avvertimento che ha fatto il ministro della Difesa cinese, Wei Fenghe, al suo omologo americano, Lloyd Austin.

Secondo quanto riferiscono fonti ufficiali, nel colloquio fra i due esponenti di governo Wei ha sottolineato che «Taiwan è la Taiwan della Cina» e che Pechino non esiterà a «distruggere in mille pezzi qualsiasi complotto di Taiwan» e sosterrà «risolutamente l'unificazione da parte della madrepatria». Austin, da parte sua, secondo quanto riferito dal Pentagono avrebbe invitato Pechino ad «astenersi» da ogni ulteriore azione destabilizzante nella regione, ribadendo «l'importanza della pace e della stabilità e il rifiuto di modifiche unilaterali dello status quo».

Il linguaggio è volutamente intimidatorio, e riflette non solo l'altissimo livello di tensione tra le due superpotenze, ma anche il senso di sicurezza di una Cina in ascesa: tuttavia bisogna fare attenzione. Con queste parole, nonostante le apparenze, l'esponente del governo cinese non annuncia l'intenzione di scatenare presto una guerra per prendersi Taiwan. Xi Jinping è molto più sottile di Vladimir Putin, certamente il leader cinese punta ad annettere Taiwan con le buone o con le cattive, ma sa di non poterlo fare adesso. Per attuare la sua visione aggressiva, deve lasciar passare ancora qualche anno, rafforzare le sue armate e attendere un momento di debolezza degli americani per agire. Nel frattempo, quando minaccia una guerra per Taiwan, si riferisce all'ipotesi che essa proclami ufficialmente la propria indipendenza, cosa che a Taipei si guardano bene dal fare anche se Taiwan è da oltre settant'anni indipendente di fatto.

Insomma, quando tra Pechino e Washington volano minacce di guerra bisogna ricordarsi che in realtà né l'una né l'altra hanno intenzione di farsela.

 

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Articolo pubblicato il 24/06/2022