Il “golpe” di Facta
La copertina dell’“Almanacco Civile, 1923”

E l’avvento di Mussolini (di Aldo A. Mola)

Ma l’Italia fu ed è solo di meschini opportunisti?

Il Parlamento è sovrano. Ma Facta, benché sollecitato da Vittorio Emanuele III, non lo convocò. Così il re finì per incaricare Mussolini di formare il governo prima che le borse aprissero e colassero a picco l’Italia, più solida di quella odierna.

La crisi politica dell’ottobre 1922 fu e rimane soggetto di caccia ai “colpevoli”: lo sfarinamento dei “liberali”, l’inconsistenza politica delle sinistre, indifferenti alle sorti delle istituzioni, e soprattutto Vittorio Emanuele III, che affidò l’incarico di formare il governo all’esponente di un partito che contava appena 35 deputati e un paio di senatori ma conquistò il potere con la violenza. Sull’altro versante vengono deplorate le “vittime” dell’avvento del governo Mussolini: le sinistre, repubblicani intransigenti compresi, i sindacati, le libertà politiche, la compressione di quelle civili.

Le narrazioni prevalenti, ripetute in libri e articoli freschi di stampa, ricalcano gli antichi binari. I riflettori illuminano ancora una volta i presunti “responsabili” (= colpevoli) e lasciano in ombra altri attori. È il caso dell’articolo “A 100 anni dalla marcia su Roma” (“La Civiltà Cattolica”, 1-15 ottobre 2022, quaderno 4135) in cui p. Giovanni Sale SJ afferma che l’avvento di Mussolini al potere «non avvenne per una deterministica necessità storica, ma per responsabilità morali e politiche precise. Innanzitutto, per l’incapacità (ma anche l’opportunismo) della classe politica di allora di gestire la crisi politica e sociale di quegli anni agitati, per le ragioni, troppo spesso meschine e di basso profilo, che hanno portato al governo un movimento, o meglio un partito che si palesava violento e non pienamente rispettoso della prassi democratica.

Secondo lui avvenne per vie “semilegali” in quanto la prospettiva insurrezionale fu “subita” passivamente dallo Stato e immediatamente dopo “legalizzata” con l’incarico dato dal re a Mussolini di formare il nuovo governo». A p. Sala (e non solo a lui) va ricordato che di quella “classe politica” facevano parte non solo i pochi repubblicani dell’epoca, favorevoli alla “svolta” mussoliniana, e le sinistre, del tutto indifferenti al crollo delle istituzioni incardinate sulla monarchia (come Pietro Nenni dichiarò agli emissari del “duce delle camicie nere”), ma anche il cattolico Partito popolare italiano. Fondato da don Luigi Sturzo il 18 gennaio 1919, forte di un centinaio di deputati alla Camera, molto influente anche in Senato, esso era presente nel governo Facta con personalità di peso, come il monregalese Giovan Battista Bertone, come poi nel governo Mussolini con ministri autorevoli e con Giovanni Gronchi, sottosegretario all’Industria, futuro presidente della Repubblica.

Padre Sala deplora la meschinità e l’opportunismo della “classe politica di allora”, che da secoli ammorbavano tutti gli Stati europei (e non solo) e accompagnarono il regno d’Italia dalla fondazione, come in libelli famosi scrissero Pietro Sbarbaro, Titta Madia e lamentò il radicale Felice Cavallotti, fautore di un improbabile Partito degli Onesti (ne abbiamo conosciuti decenni addietro ed altri se ne affacciano). Le loro polemiche riecheggiavano le delusioni della sinistra democratica, tardomazziniana e garibaldina, ma non ostile all’unità nazionale, a differenza del rifiuto categorico clericale del “Risorgimento scomunicato” (titolo di un bel libro di Vittorio Gorresio) e del regno nato dalla spoliazione dello stato pontificio.

La pochezza di alcuni (o tanti) notabili costituzionali (o “liberali”) emerge dal carteggio tra i protagonisti diretti e indiretti della crisi politica del 1922. Ne è esempio proprio Facta. Tornato a capo del governo nel giugno 1920 Giolitti non gli conferì alcun incarico. In una piagnucolosa lettera del 6 giugno, inedita sino al 2009, Facta se ne lamentò con lo statista: «La crisi si svolse senza una tua parola (…) Non te ne faccio colpa, per carità (…) Ma certo questo silenzio di a poco a poco si convertì per me in una vera tortura». Era certo di essere eletto presidente della Camera. Il saggio Giolitti gli preferì il napoletano Enrico De Nicola. Di lì il sospetto «che sia accaduto qualche cosa che abbia creato verso di me una tua avversione». Alla morte dell’ottimo ministro delle Finanze Francesco Tedesco, Giolitti lo chiamò al governo ma conservò la lettera in una carpetta (oggi all’Archivio Centrale dello Stato) e lo sentì sempre più lontano. Il 20 settembre 1922 non andò a festeggiarlo a Pinerolo, ove accorsero quattrocento parlamentari e oltre duemila invitati per un banchetto che non fermò l’Italia dalla china lungo la quale scivolava da tempo. Come noto e già ricordato, nelle settimane seguenti Giolitti venne ripagato da Facta, che fece di tutto per non averlo a Roma, convinto qual era di superare da solo ogni ostacolo con un suo terzo governo, succedendo quindi a se stesso.

 

Il triangolo scaleno

Messe tra parentesi le schermaglie tra notabili, le piccole gare tra partiti, gruppi parlamentari (spesso indipendenti dai partiti: era il caso dei socialisti) e agitatori di vario calibro, è possibile proporre una diversa lettura della crisi dell’ottobre 1922 e della decisione del re di incaricare Mussolini della formazione del governo.

Il regime monarchico rappresentativo era un triangolo scaleno: il re, il governo del re, il Parlamento. Gli altri corpi dello Stato (i diplomatici, le forze armate, l’ordine giudiziario...) e gli enti locali derivavano la loro identità e le loro funzioni dal “sistema”. Sin dall’esordio di Camillo Cavour alla presidenza del Consiglio nel regno di Sardegna l’esecutivo aveva retto sull’armonizzazione tra la nomina da parte del sovrano e la fiducia votata dal Parlamento, più precisamente dalla Camera dei deputati, espressione del corpo elettorale. La cornice venne fissata il 17 aprile 1861 quando fu stabilito che leggi e decreti sarebbero stati firmati dal Capo dello Stato quale “Re per grazia di Dio e volontà della nazione”. Dopo la proclamazione del regno i governi ressero sempre sulla ricerca del consenso delle Camere. Per assicurarselo presidenti del Consiglio dei ministri come Urbano Rattazzi e Bettino Ricasoli non esitarono a chiamare al governo esponenti del “terzo partito”, ex cospiratori e garibaldini come Angelo Bargoni e Antonio Mordini. Il dualismo Destra/Sinistra narrato nei manuali era già superato nei fatti. Lo fu dopo le elezioni del 1874, che prelusero alla sconfitta del governo presieduto da Marco Minghetti messo in minoranza alla Camera dei deputati il 18 marzo 1876, proprio quando raggiunse orgogliosamente la parità del bilancio d’esercizio dello Stato. A conferma che per rimanere al potere non basta “governare bene” ma occorre il Parlamento.

Vittorio Emanuele II non esitò a conferire la formazione del governo ad Agostino Depretis già più volte ministro in posizioni rilevanti nei governi dai manuali catalogati “di Destra”. Dunque, l’avvento della Sinistra storica non fu un salto nel buio, ma una normale evoluzione politica. Unico a sfidare con irruenza la Camera fu il siciliano Francesco Crispi, che però si vide costretto alle dimissioni: una prima volta perché asserì che, a differenza del passato, l’Italia non era più servile (verso la Francia); una seconda per l’accusa di bigamia: imputazione giuridicamente fondata da cui uscì assolto con sentenza compiacente che non gli impedì di essere chiamato nuovamente alla presidenza del Consiglio da Umberto I, che lo definiva “un porco” ma lo riteneva statista migliore di molti altri. Gli ulteriori tentativi di comprimere diritti e consuetudini della Camera finirono con la sconfitta dei loro fautori da parte dei costituzionali.

Però nel tempo la Camera divenne teatro di sortite antistatutarie. Nel 1917 il gruppo socialista si spinse a proporvi l’abolizione della monarchia mentre il Paese stava affrontando la fase più difficile della guerra, come Luigi Cadorna invano scriveva al governo Boselli, pusillanime. Nel febbraio 1921, quando Giolitti ritenne necessari scioglimento della Camera e nuove elezioni, anche per far votare gli elettori delle “terre liberate”, dopo un accalorato intervento del socialista Filippo Turati il suo compagno Emanuele Modigliani si spinse a dire che se il re avesse firmato il decreto “noi grideremo abbasso la Corona”. Seguito dall’intero governo, Giolitti si alzò indignato e uscì dall’aula.

Qual era il clima del Paese? Lo sintetizzò appunto lo statista cuneese quando presentò il governo all’indomani delle elezioni del 15 maggio 1921: sino al 31 maggio si erano verificati 1889 “conflitti” tra opposte fazioni politiche (fascisti da un canto, “rossi” dall’altro), 1698 dei quali denunciati formalmente all’autorità giudiziaria. Dal 30 giugno 1920 al 1° maggio 1921 erano state effettuate 50.500 perquisizioni, sequestrati 52 tonnellate di cheddite, 40 tonnellate di altri esplosivi, 31.750 fucili, 5.000 rivoltelle, 60.000 cartucce, 7.500 capsule detonanti, 2.250 cartucce di dinamite. «Gli esplosivi – aggiunse Giolitti – non hanno colore politico. La polizia li sequestra dove li trova.» Lo squadrismo, osservò di seguito, non era più un problema di polizia ma politico, perché i fasci contavano ormai 187.000 iscritti. La condotta del governo rimase quella adottata dinnanzi all’occupazione delle fabbriche. Per sgomberare circa 500.000 occupanti non sarebbero bastate le forze armate e di sicurezza disponibili. Occorreva la smobilitazione dai vertici dei partiti. Alla questione di fiducia posta dal governo, Turati rispose con un secco “no” alla politica estera, interna, economica e sociale. Ottenne 200 voti contro i 234 andati al governo. La maggioranza c’era, ma ormai stretta.

 

Il “golpe”: ignorare il Parlamento

Nell’autunno 1922, dopo due governi (Ivanoe Bonomi dal giugno 1921 al febbraio 1922 e il primo ministero Facta da febbraio a fine luglio 1921) la bufera continuava: clima insurrezionale secondo alcuni, rivoluzionario per altri. Come rispondeva il governo? L’Ufficio Cifra del ministero dell’Interno, retto da Paolino Taddei, già prefetto di Torino su designazione di Giolitti, offre documentazione puntuale e abbondante. Le direttive erano chiare: reprimere i facinorosi con tutti i mezzi, all’occorrenza facendo uso di armi. Lo Stato doveva prevalere sulle fazioni. Ma non era affatto facile mantenere l’ordine pubblico mentre le sinistre sognavano di “fare come in Russia” e altri, in assenza di tutele, si difendevano ricorrendo a “squadre” alimentate dalla risacca della lunga partecipazione alla Grande Guerra. Nell’ultimo anno del conflitto nell’immensa “città militare”, dai Comandi alla prima linea, lo spettacolo quotidiano della morte aveva obnubilato la percezione della vita insegnata e praticata dagli italiani nella lunga pausa bellica durata dall’unificazione al 1914, la prima dopo secoli turbinosi. Le tre guerre per l’indipendenza italiana (soleva ricordarlo Gaetano Salvemini che nel 1919 venne eletto deputato in una lista comprendente i “Combattenti”) erano costate meno vite di una giornata di battaglia “alla fronte”. Il Guerrone (paventato da Pio X come ricorda il suo biografo Gianpaolo Romanato) lasciò dietro di sé l’onda lunga di chi era stato “educato” a uccidere e a conflitto concluso si trovò disoccupato e pronto a tutto.

La voragine però divenne sempre più ampia non per i conflitti faziosi in corso ma perché il governo Facta non convocò le Camere. I verbali del Consiglio dei ministri mettono a nudo la sua debolezza effettiva. Il 6 ottobre 1922 Marcello Soleri, segretario perché era il ministro più giovane, verbalizzò una sola riga: «Si discute la situazione interna e parlamentare.» L’indomani in poche altre linee annotò l’approvazione del francobollo commemorativo del cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini (le Regie Poste non dimenticavano chi aveva combattuto per l’unità nazionale anche da sponda opposta a Carlo Alberto e a suo figlio), la prosecuzione della «discussione sulla situazione politica» e un paio di provvedimenti su affari correnti. Poco di più venne verbalizzato per le sedute del 10, 13, 14 e 17 ottobre. Il 20 ottobre il Consiglio deliberò «che alla riapertura della Camera (fissata per il 9 novembre) il governo deve fare le sue comunicazioni alla Camera, da iscriversi all’ordine del giorno prima del bilancio del Tesoro». Poi si disperse in quisquilie. Su proposta del ministro delle Finanze approvò lo «schema di decreto legge contenente il regolamento del decreto legge 2 febbraio 1922, n. 281 relativo al regime degli accenditori e delle pietrine focaie». Quattro giorni dopo i fascisti si radunarono a Napoli e misero a punto il piano di assalto al potere.

Rientrato il 14 dalla visita di Stato in Belgio, da San Rossore (Pisa) Vittorio Emanuele III incalzò Facta e il 18 lo esortò: «Sarò molto lieto di rivederla dove lei crederà di venire. Parleremo insieme della situazione, la quale, anche per le notizie che mi raggiungono (aveva informatori fededegni, NdA), sembra richiedere la sollecita convocazione del Parlamento.» Sollecita voleva dire subito. A Parlamento aperto non ci sarebbe stata storia né per insurrezioni né per rivoluzioni, né per squadristi né per guardie rosse. Con i piani di difesa di Roma approntati dal generale Emanuele Pugliese nessuna camicia nera si sarebbe incamminata verso Roma.

La svolta vera avvenne il pomeriggio del 27 ottobre. In un verbale prolisso e zeppo di quisquilie irrilevanti, in una riga e mezzo verso la fine della riunione il minutante verbalizzò: «Il Consiglio dei Ministri prende in esame la situazione politica e delibera di rassegnare a Sua Maestà le sue dimissioni.» Poi tornò a occuparsi di pagamento a diurnisti e di altre cosucce.

Il triangolo scaleno andò in frantumi. Il re rimase solo. Senza un esecutivo nella pienezza dei poteri, senza statisti disposti ad accollarsi la responsabilità dell’emergenza, senza le Camere che (lo ripeté più volte negli anni seguenti) erano i suoi occhi e i suoi orecchi. E da solo fronteggiò la crisi.

Che fu extraparlamentare non per volontà sua né per tracotanza di Mussolini ma per insipienza di Facta. Con le dimissioni il governo scoprì le spalle del re proprio quando la Corona doveva essere tenuta al sicuro da colpi di mano sui quali nel tempo si inanellarono tante dicerie e leggende. Il “golpe” contro la tradizione e le consuetudini del governo parlamentare da Cavour a Giolitti non venne attuato da Mussolini ma proprio da Facta e dai ministri che lo assecondarono e ad unanimità si lavarono le mani della loro responsabilità, deliberando di proporre al re la proclamazione dello stato d’assedio, ovvero il conferimento dei pieni poteri alle forze armate. Ma non erano quelle la cui fedeltà, secondo una tardiva insinuazione, non andava messa alla prova?

Quanto a opportunismi e altri spettri evocati da padre Sale SJ va ricordato che, a garanzia del successo e della lunga permanenza al governo, Mussolini mise tempestivamente le mani avanti assicurando il salvataggio del vaticanesco Banco di Roma sull’orlo del fallimento. Ma in tanti ritennero che Benito avrebbe fatto onore al nome impostogli dal padre, il “fabbro” che credeva nella rivoluzione socialista-repubblicana. Non per caso l’Almanacco Civile del foglio anticlericale “La Ragione” nel 1923 rese omaggio al 28 ottobre quale giorno della liberazione dell’Italia dall’oscurantismo pretesco e in copertina pubblicò il fascio littorio sormontante la cupola di San Pietro. “Quos deus vult perdere dementat prius.”

Aldo A. Mola

La copertina dell’“Almanacco Civile, 1923” pubblicato a cura della redazione di “La Ragione”, espressione dell’anticlericalismo intransigente (ed. Veritas, Roma, via di Porta Angelica 2), ristampato dall’Editore Bastogi (Foggia) nel 1986.

Contiene un’ampia rassegna sull’Associazione “Giordano Bruno”. Altre riviste (“Atanor”, “Ignis”) celebrarono il fascismo come avvento del neo-paganesimo contrapposto alla Chiesa di Roma. Sei anni dopo Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri firmarono i Patti Lateranensi che composero il conflitto tra Stato d’Italia e Chiesa cattolica e vennero poi recepiti nella Costituzione vigente con il “patto” tra Democrazia cristiana e Partito comunista italiano, antenato del Partito democratico. Nel convegno di Vicoforte sulla crisi politica del 1922 (sabato 1° ottobre) molte relazioni hanno proposto nuovi documenti e interpretazioni delle radici e delle conseguenze dell’avvento del governo di coalizione costituzionale presieduto dal 31 ottobre 1922 dal “duce delle camicie nere”, meno durevoli degli abiti talari.

Raffaella Canovi ha chiarito che Gabriele d’Annunzio non fu mai iniziato alle comunità massoniche italiane, i cui travagli sono stati descritti da Luca G. Manenti. Gianpaolo Romanato ha perlustrato i cattolici tra due crisi (quella politica e quella interna alle loro file nel passaggio da papa Benedetto XV a Pio XI). Aldo G. Ricci ha percorso il suicidio delle sinistre, che poco o nulla per fermare l’avanzata del fascismo: profezia delle loro successive sconfitte elettorali (dal 1948 al 2022). All’estero (come hanno documentato GianPaolo Ferraioli e Massimo Nardini) il governo Mussolini (composto con il “manuale Cencelli” che risale al 1848) ottenne sostegni e plausi perché garantì stabilità, ordine pubblico e pagamento dei debiti di guerra. Il col. Carlo Cadorna e il gen. Antonio Zerrillo hanno evocato il mondo militare, fondamentale nella “metamorfosi di un regime”, sapientemente ripercorsa da Tito Lucrezio Rizzo, all’indomani del “golpe” attuato da Luigi Facta. governo si dimise a Parlamento chiuso e scaricò sulle spalle di Vittorio Emanuele III la ricerca della soluzione istituzionale della crisi. Un fatto senza precedenti. Il re incaricò Mussolini che aveva ormai il sostegno delle forze più rappresentative del Paese, compresa la chiesa e quasi tutti i quotidiani, come documentato da Dario Fertilio e si vede dai filmati d’epoca, presentati al convegno da Giorgio Sangiorgi. La videoripresa dei lavori sarà presto in rete a cura dell’Associazione di studi storici G. Giolitti (Presidente onorario Alessandro Mella, pres. Gianni Rabbia).

AAM

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Articolo pubblicato il 02/10/2022