Realismo
Emilio Colombo, Allegoria dell’Italia Turrita (1911).

Meno retorica, più fatti (di Aldo A. Mola)

Nazione o Stato?

Anche in “politica” non c’è niente di peggio che trasfigurare la realtà in narrazioni fantasiose. Prima o poi i fatti si impongono nella loro cruda verità e chi si è arrampicato sugli specchi immaginando e descrivendo un mondo fittizio scivola a terra. Nel governo degli Stati, come a teatro, gli equilibrismi durano solo se tutti gli attori sono concordi. Ma basta uno che da fuori gridi “il Re è nudo” e la scena crolla.

Questo rischio è destinato a divenire un incubo dove e quando l’immagine narrata non calza più con la realtà. Il richiamo al realismo non significa pessimismo preconcetto. Viene considerato una sorta di disfattismo solo da chi spera di sanare col gesso la distanza abissale tra il Paese reale, le sue rappresentazioni e le pretese di avere un “mandato” di gran lunga superiore a quello effettivamente conferito dalle urne.

Non porta lontano insistere nel sostituire termini retorici alla realtà nella quale i cittadini si riconoscono. E il caso dell’abuso costante del sostantivo “Nazione” in alternativa a “Stato”. Lo Stato è certezza, è la Legge. La “nazione” rinvia a una supposta unità a base etnica. In Italia fu prospettata da storici e scrittori due secoli fa, all’alba del Risorgimento, ma presto venne posposta a vantaggio di termini molto più rispondenti alla realtà fattuale di un Paese, come l’Italia, nel quale occorreva in via preliminare dare corpo allo Stato quale pilastro portante della formazione dei “regnicoli”, cioè delle persone che lo abitavano.

Questa fu la grande sfida intrapresa e vinta con successo dagli artefici del Regno d’Italia (bene divenga festa nazionale, come proposto dal presidente del Senato Ignazio La Russa), proclamato il 14 marzo 1861 dalla VIII legislatura del Parlamento subalpino, che così divenne la I^ dello Stato d’Italia. Il Regno, una monarchia costituzionale incarnata dalla dinastia dei Savoia lentamente ottenne credito dalle potenze straniere. Il nuovo Stato fu riconosciuto in poche settimane da Svizzera, Stati Uniti d’America, regni di Grecia, Portogallo, Olanda e impero Turco-Ottomano. La Francia di Napoleone III si decise solo dopo la morte di Cavour, nel timore che in Italia prevalessero mazziniani e garibaldini. Lo zar di Russia e il regno di Prussia lo riconobbero solo nel luglio del 1862. Tre anni dopo seguirono la Spagna dei Borbone e altri. Per ultimo s’aggiunse l’impero d’Austria, sconfitto nella guerra del 1866, e solo nel 1867 la Nuova Italia sedette a Londra in una conferenza diplomatica internazionale, alla pari con quelle degli altri Stati lì presenti, di gran lunga più antichi e pertanto autorevoli perché anche nella Comunità internazionale “l’anzianità fa grado”. Quello “stato di grazia” accompagnò l’Italia sino alla resa senza condizione del 3-29 settembre 1943 e alla imposizione del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947. Nei mesi seguenti l’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946 discusse la “bozza” di Costituzione approntata dalla Commissione dei Settantacinque presieduta da Meuccio Ruini e ne approvò larga parte, a cominciare dagli articoli più impegnativi, ove ricorrono i termini fondamentali del Paese Italia.

 

Italia: Repubblica, Nazione

Il primo, come noto, recita che “l’Italia è una Repubblica, fondata sul lavoro”. Nel suo enunciato l’Italia compare come soggetto. Il riferimento al “lavoro” risentì dei dibattiti tra i partiti della Concentrazione antifascista in Francia all’inizio degli Anni Trenta, quando (come narra Alberto Giannini in “Le Memorie di un fesso”, ed. Forni) si prospettò la formula “L’Italia è una repubblica ‘di lavoratori’”. Poi i lavoratori vennero cancellati perché ad alcuni parve che per tali si potessero intendere solo gli operai e i braccianti, a scapito degli impiegati e a danno delle “classi medie”, sempre sospettate di inclinazioni conservatrici o peggio.

Dall’articolo 2 della Carta il soggetto “Repubblica” sostituì “Italia”, che da sostantivo declinò ad aggettivo (“Repubblica italiana”). Sin da Napoleone I Oltralpe era prevalsa la esplicitazione del titolare della sovranità: “impero dei francesi”, con riferimento alla radice “etnica”. Diversa è l’enunciazione della sovranità nella Repubblica italiana: essa “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

E la Nazione?

I padri costituenti fecero uso estremamente parco del sostantivo Nazione. Esso compare nell’articolo 9, secondo il quale “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione”. L’articolo 16 recita che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” (come accadde due anni orsono con farraginosi decreti del presidente del Consiglio)”, ma subito dopo aggiunge che “ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientravi salvo gli obblighi di legge”.

“Nazione” non viene ripetuto come sinonimo di Repubblica, ovvero di Stato. Non per caso non esistono “confini della Repubblica” o “della nazione” ma “di Stato”. La nazione ricompare nell’art. 67: i parlamentari non rappresentano chi li ha eletti (ignoti, dal momento che il voto è segreto) né il partito nelle cui file si sono candidati ma, appunto, “la Nazione”, lì sinonimo di “popolo italiano”.

Nulla di nuovo rispetto allo Statuto albertino il cui articolo 41, scritto per il regno di Sardegna ma di portata universale, recitava: “I deputati rappresentano la Nazione in generale e non solo le province in cui furono eletti: nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori”. Il termine torna nell’articolo 98: i pubblici impiegati sono “al servizio esclusivo della Nazione”, una tantum sinonimo dei cittadini o più correttamente dello Stato.

Infine (un passo all’indietro) esso affiora nell’art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” e consente “limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”: eco della Carta fondativa dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che in realtà è di “Stati” plurinazionali, come i grandi “imperi” di India, Cina, Federazione russa e, se si vuole, di USA, Brasile, ecc..

 

E la Patria? Lo Stato

 “Patria” è soggetto pressoché eluso dalla Carta repubblicana. Vi ricorre solo due volte. La prima per dichiarare che la sua difesa è “sacro dovere del cittadino” (comma 1 dell’art. 52, sul quale si astennero i costituenti democristiani Giulio Pastore, Aldo Moro e Benigno Zaccagnini, per i quali era “dovere” ma non “sacro”: così venne aperta la strada all’obiezione di coscienza). La seconda nell’art.59 che riconosce al Presidente della Repubblica la facoltà di nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per (sic! meglio suonerebbe “con”) altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” in linea con il sintetico comma 28 dell’art. 33 dello Statuto albertino (che ne prevedeva la nomina “con servizio o meriti eminenti”).

Pressoché assente è altresì “popolo”. Riaffiora solo nell’art.101, ove si dice che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, il quale però talvolta esprime indignazione per sentenze percepite come stravaganti.

Dunque, a ben vedere, il soggetto primario evocato dalla Carta non è la Nazione ma lo Stato. Esso ricorre tutto dove necessario (e meglio suonerebbe ovunque i Costituenti scrissero “Nazione”). Così nell’art. 7 sui rapporti tra Stato e Chiesa, nell’art.33 su arte, scienza istruzione, in cui figura tre volte, nel 38 (che fa carico allo Stato del mantenimento e all’assistenza sociale di cittadini inabili al lavoro o sprovvisti dei mezzi necessari per vivere: altra cosa dal discusso “reddito di cittadinanza”). Ma soprattutto è lapidario nell’art.87: “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”, che sta nello Stato come il meno sta nel più. Anche quell’articolo ricalca lo Statuto (art.5): il Re “è il capo supremo dello Stato”. Torna nell’art. 117 (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni”, con specifica delle materie di competenza esclusiva dello Stato) e infine nella XVIII disposizione transitoria e finale: “La Costituzione, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica. La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato”, forse persino pleonastica nelle ultime parole, tanto più che l’art. 54 prescrive che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”: obbligo previsto, ma poi abolito, per tutto il personale scolastico che è (o dovrebbe essere) a servizio esclusivo dello Stato, “super partes” anziché di ideologie e men che meno di se stesso.

Per tutti questi motivi, pare improprio il martellante richiamo alla Nazione da parte dell’on. Giorgia Meloni, probabile presidente del Consiglio dei ministri. Secondo tutti i dizionari della lingua italiana “Nazione” (ne citiamo uno per tutti: ma si veda anche il Dizionario Treccani) sta per “collettività etnica di individui coscienti di essere legati da una comune tradizione sociale, storica, linguistica, culturale, religiosa che li distingue da altri gruppi etnici”.

Lo Stato moderno però è altra cosa da quello “nazionale”. E “Stato dei cittadini” come enunciato dallo Statuto albertino, il cui Capo si dichiarò tale “per Grazia di Dio”, ma statuì: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”. (art.24). Inoltre, a integrazione, la legge 19 giugno 1848 emanata dal Luogotenente Eugenio di Savoia (Carlo Alberto era “al campo” contro l’impero d’Austria) sancì: “La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed all’ammessibilità alle cariche civili e militari”. Nessun riferimento “etnico”. Del resto il regno di Sardegna era ufficialmente bilingue.

Dunque: meno “Nazione”, più Stato, più “cittadini”.

Mandato? Dal 14% del corpo elettorale

Nel lungo “intervallo” tra l’enunciazione dei risultati elettorali dello scorso 25 settembre e l’elezione dei presidenti delle Camere la già citata presidente del Consiglio in pectore ha spesso ripetuto di sentirsi investita da un “mandato della Nazione”. Non v’è dubbio che il centro-destra abbia beneficiato della sua compattezza nei collegi uninominali, nei quali prevale la coalizione che ottiene il maggior numero dei suffragi. Per fermarci agli esiti relativi alla Camera dei deputati, esso ha ottenuto il 43,79% dei voti validi surclassando nettamente l’alleanza tra PD-Verdi e Sinistra. Arrotondando le cifre per chiarezza, con 7.300.000 suffragi Fratelli d’Italia ha sì sfiorato il 26% dei voti validi, contro l’8,77% della Lega e l’8,11% di Forza Italia e lo 0,91% dei Moderati, che sommati si sono fermati a circa 5.000.000 voti, cioè meno dei 5.355.000 andati al Partito democratico. Però, per avvalorare il preteso “mandato della Nazione”, i consensi conseguiti da Fratelli d’Italia, come dagli altri partiti scesi in lizza, vanno rapportati all’insieme del corpo elettorale. In tale contesto la portata politica effettiva dei voti ottenuti assume ben altra valenza.

Gli aventi diritto a votare il 25 settembre 2022 erano più di 46 milioni. Alle urne si sono recati 29.355.592 elettori, pari al 63,79% contro il 72,94% del 2018: un calo di oltre il 9%. In molti collegi l’afflusso ai seggi è rimasto intorno al 50%. Anche “La Civiltà cattolica”, sempre prudente, non esita a parlare in termini preoccupati di disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni.

Quello è il primo dato sul quale riflettere. Sarebbe errato imputare l’astensione all’ esercizio del “dovere civico” di votare allo scioglimento anticipato delle Camere e alla brevità della campagna elettorale, in pieno corso ancor prima che Mario Draghi si insediasse alla guida del governo di quasi unità nazionale, ovvero di emergenza, e già ripresa con toni assai vivaci dopo la per molti sconcertante elezione dei presidenti delle due Camere. La così ampia astensione è palesemente segno di stanchezza e di divaricazione tra cittadini e istituzioni e, in specie, di minor fiducia nei partiti che per mesi hanno ripetuto in coro appelli ripetitivi a tutelare “famiglie e imprese...”. Se le Camere fossero durate in vita sino alla scadenza “naturale”, cioè nella primavera del 2023 (dopo un autunno-inverno che si annuncia pesante), l’astensione avrebbe rischiato di essere ancora maggiore. Questo andrà tenuto presente dai partiti e movimenti ma anche dall’esecutivo, il cui primo compito sarà di interpretare non solo gli elettori dei partiti che lo formeranno e di quanti hanno votato per l’opposizione, ma soprattutto il 36% di elettori che hanno disertato le urne. Di più. Essi dovranno tenere conto anche di un altro dato scivolato via (o tenuto sotto traccia) dalla maggior parte dei computi riassuntivi delle votazioni e dai commenti che si sono susseguiti per giorni nei “media” e continuano a imperversare.

Agli astenuti occorre infatti aggiungere 817.251 schede nulle, 492.650 bianche e oltre 2500 contestate, per un insieme di oltre 1.310.000 voti di cittadini che si sono recati ai seggi, hanno ritirato la scheda e l’hanno restituita senza segnarvi alcunché o l’hanno annullata, benché l’indicazione delle preferenze non presentasse particolari difficoltà. Il “no” delle schede nulle e bianche va oltre la mera disaffezione verso i “ludi cartacei” (come diceva un tale che, giunto al potere, introdusse l’obbligo del voto) e si sostanzia in un giudizio negativo sull’intero arco dei partiti e movimenti e in un severo monito agli eletti a darsi una mossa e a mettersi al lavoro per rialzare le sorti di un Paese in profondo affanno. I cittadini si sentono indifesi dinnanzi all’inflazione galoppante che in breve tempo ha eroso di un decimo il potere d’acquisto e il valore dei risparmi, al timore di rimanere al freddo in città sempre più buie, tristi e al connesso calo della sicurezza di persone e abitazioni. Dal governo da tempo dimissionario e prossimo a passare la mano è stata deplorata l’ingiustificabile speculazione che ha fatto impennare i prezzi dei prodotti energetici da molti mesi prima che iniziasse l’“operazione militare speciale” della Federazione russa contro l’Ucraina il 24 febbraio 2022. Ma che cosa ha fatto per individuare, denunciare alla pubblica opinione e sanzionare gli speculatori? Nel frattempo incombe la drastica retrocessione della fiducia nell’Italia da parte del Fondo Monetario Internazionale, dalla stessa Banca d’Italia e da chi ritiene che i titoli di Stato potrebbero essere ridotti a “spazzatura”, come accade all’indomani di una guerra perduta. 

Il 14% del corpo elettorale non prefigura un “mandato”.

In conclusione, con i suoi 7.300.000 voti Fratelli d’Italia ha ottenuto poco più di un quarto degli oltre 28 milioni di suffragi espressi dal corpo elettorale e un modesto 14% dei 46.000.000 di aventi diritto al voto. Anziché rivendicare il privilegio di un “mandato della Nazione” è tempo di consolidare lo Stato dei cittadini italiani.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 16/10/2022