Troppi, mal distribuiti o ancora refrattari alla coesistenza pacifica?
Inaugurazione del Canale di Suez

Di Aldo A. Mola

Ma quanti siamo!

Drin, drin! Lo speciale osservatorio dell’ONU, organizzazione di discussa utilità anche per ammissione di chi ne detiene le chiavi come membro del suo Consiglio di sicurezza, ha suonato il campanello d’allarme: gli “umani” viventi sul pianeta hanno superato gli otto miliardi. Il 31 ottobre di undici anni addietro se ne contavano 7. L’incremento di un miliardo di persone in un decennio preoccupa. Anzi, mentre normalmente una nuova nascita viene festeggiata, questo traguardo suona invece come annuncio di sventura. Parafrasando Salvatore Quasimodo massone e premio Nobel per la letteratura, siamo in troppi “sul cuor della terra (…)  E presto verrà sera”. Anzi, per dirla con un altro poeta di spiccato ottimismo, “verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

Ma davvero siamo sempre più stretti su questa aiuola che ci fa tanto feroci o siamo feroci perché ognuno vuole l’aiuola tutta per sé?

Stiamo ai dati.

In primo luogo va detto che prima dell’Ottocento circa la popolazione dei diversi continenti abbiamo solo “stime” per i paesi europei mentre per gli altri si va “a spanne”, anche perché i confini degli “Stati” erano più che labili e l’ultima preoccupazione dei loro governi era contare i sudditi se non per tassarli. I “poveri” e i loro numerosi figli non facevano statistica. Semmai fornivano “soldati”. I demografi valutano che due secoli fa la popolazione mondiale si avvicinava a un miliardo. Gli abitanti dell’Europa erano poco più di 200 milioni; quelli dell’Africa forse 100 milioni. L’America latina ne contava 24 e quella settentrionale, Groenlandia compresa, appena 7.

E prima? A parte l’antichità (di cui si sa solo approssimativamente) verso il 1340 l’Europa arrivò a circa 70 milioni di abitanti. Su di essi si abbatté la falce della “peste nera”. Ci vollero 150 anni perché recuperasse le perdite. In quel secolo e mezzo, però, gli abitanti non si abbandonarono affatto allo sconforto. Impararono a “convivere” con la peste, a circoscriverne i focolai e a frenare i contagi con strategie dagli esiti infine vittoriosi. Quella Minieuropa conobbe lo splendore del Rinascimento e pietrificò immensi capitali: palazzi e castelli ammirevoli, ornati di splendidi affreschi, dipinti, quadri e sculture. I minieuropei continuarono a guerreggiare e uccidersi come prima della peste. Continuarono a farlo con fervore anche dopo la “scoperta” dell’America, la circumnavigazione del mondo e lo sfruttamento delle miniere d’argento e di oro del Nuovo Mondo. Anzi. Più soldi, più armi. Più spazi, più eresie. Più cielo, più guerre di religione. Più scienza, più roghi.

Nei secoli seguenti, tra Cinque e Seicento, la peste continuò a visitare quasi tutti gli Stati europei. Poi, come era venuta, disparve. Gli studiosi non hanno certezze su come sia accaduto. Di sicuro le misure di contenimento rimasero in vigore e vennero inasprite a ogni segnale di nuove epidemie, come il colera, che di quando in quando picchiavano duro nelle città più che nelle campagne e di volta in volta ne frenavano la crescita.

 

Dalle rivoluzioni industriali a quella “verde”

Le guerre franco-napoleoniche (1792-1815) causarono in Europa più o meno cinque milioni di morti, in massima parte giovani. Si accompagnarono ai primi segnali dell’onda lunga iniziata con la prima rivoluzione industriale, inizialmente circoscritta alla sola Inghilterra. La seconda fase dell’industrializzazione è in parte descritta nei romanzi di Honoré Balzac e di Victor Hugo e in altre parte studiata da Karl Marx, che, uomo di pensiero e di azione, dette il suo piccolo contributo alla crescita demografica. Quanti costatano esterrefatti il balzo demografico dell’Europa dei due secoli seguenti e di quello anche maggiore degli altri continenti e in specie della Cin-India si domandano se non avesse dunque ragione Thomas Malthus che sin dal 1798 predisse che le risorse alimentari non avrebbero tenuto il passo con l’incremento della popolazione. Il “mondo”, soprattutto quello che più gli premeva, precipitava verso spaventose rivolte di massa dettate dalla fame, sempre pessima consigliera. Un anno dopo la profezia di Malthus nella guerra tra le compagnie di Santa Fede e i giacobini a Napoli e nei suoi dintorni si verificarono molteplici casi di cannibalismo, non per motivi “rituali” ma per la fame che attanagliava la popolazione. Occorreva dunque intervenire drasticamente per scongiurare le carestie e le sue devastanti conseguenze sociali e politiche. Unica soluzione era la riduzione delle nascite. In tempi recenti neo-malthusiani hanno riproposto il divario inesorabile tra impennata demografica e disponibilità di cibo.

Le previsioni apocalittiche, di quando in quando affacciate da demografi sconfortati, lasciano quasi sempre tra parentesi gli immensi progressi nel frattempo compiuti da scienze e tecnologia. Molte malattie sino a pochi decenni addietro pressoché incurabili oggi costituiscono di rado causa diretta di morte. Grazie alla “rivoluzione verde”, non meno importante di quella industriale, pur con molte evidenti disparità il Pianeta è in grado di produrre alimenti in misura sufficiente per le necessità primarie della popolazione mondiale. L’esportazione di granaglie dall’Ucraina dall’inizio della “operazione militare speciale” ha aperto gli occhi anche del cittadino “comune”. Di lì il prolungamento della vita, con tutti i problemi connessi all’invecchiamento della popolazione e all’attenzione per la terza, quarta, quinta età, un tempo considerate “fatali” anche nelle aree più progredite. La mortalità infantile è pressoché scomparsa nella maggior parte dei Paesi. Eppure un secolo addietro aveva dimensioni raccapriccianti. Per stare al solo “caso Italia” a fine Ottocento si contavano circa un milione nati all’anno. Ma solo il 50% di essi raggiungeva il 15° anno di vita. Gli ultrasessantenni costituivano una quota modesta. Gli ultraottantenni erano rari. Oggi papa Francesco deplora quotidianamente la cultura dello scarto. 

Un paio di guerre mondiali, di fatto combattute solo in Europa e a scapito della sua popolazione per una somma di circa 70 milioni di morti in mezzo secolo, non hanno mutato l’indice di crescita demografica del pianeta. Anzi, hanno avuto e avranno per contraccolpo l’onda di ritorno della decolonizzazione a tutto vantaggio specialmente degli abitanti dell’Africa. Sulla fine dell’Ottocento l’Europa si spartì Africa e Asia ma nel volgere di meno di cent’anni i suoi imperi crollarono. Vero è che al dominio diretto si sostituì il capitale finanziario e quello indiretto, tramite una dirigenza “locale” quasi sempre eterodiretta e corrotta, ma la carta politica del mondo mutò rapidamente colori negli atlanti e nelle carte affisse nelle aule scolastiche. In quelle italiane per decenni insegnanti e studenti continuarono a contemplare l’Europa “dei sei” (Francia, Italia, mezza Germania e Benelux) mentre il mondo galoppava e sfuggiva all’ottica ormai provinciale della dirigenza italiana.

 

Dall’ambientalismo alla bonifica delle “filosofie”

Oggi dunque siamo otto miliardi.

È un campanello d’allarme? L’umanità precipita verso la catastrofe? 

Si può osservare che il problema non è il numero in sé, né la sua prevedibile ulteriore espansione (la cui curva, però, secondo tutte le previsioni  è destinata a declinare), ma il rapporto tra la popolazione con il pianeta che abita. Da qualche decennio sono stati messi sotto accusa lo sfruttamento selvaggio di risorse (a cominciare dall’acqua) e di materie prime (anzitutto petrolio e gas, ancora abbondanti ma non illimitati) e la prolungata indifferenza nei riguardi delle ripercussioni dell’“industrializzazione” sull’“ambiente”. Nessuno dubita che occorrano riflessione e provvedimenti, come si ripete in tante (forse troppe) conferenze internazionali sul clima e sull’ambiente. Nel frattempo, però, molti Paesi additati quali responsabili dell’inquinamento non sono affatto rimasti con le mani in mano, come provano le centrali nucleari di nuova generazione e un ampio ventaglio di sistemi produzione di energia anche con l’utilizzo di risorse a costo zero, come le maree.   

Minor attenzione invece è stata e viene posta su altri fattori non meno decisivi del balzo demografico registrato a livello planetario tra il 1975, quando la popolazione mondiale era stimata intorno ai 4 miliardi, e l’oggi, che ne conta 8. Non se ne parla per il “pregiudizio” che è alla base di tutte le Carte delle istituzioni internazionali e sovranazionali, a cominciare dall’ONU: la presunzione dell’uguaglianza delle “filosofie” che connotano popoli e ne ispirano la condotta, collettive e individuali. Eppure queste fanno la differenza. Fingere che non esistano è generoso ma ingenuo e rende impossibile l’opera delle Agenzie internazionali istituite proprio per imprimere coordinamento agli sforzi volti ad aumentare il benessere dell’umanità, dalla Fao (che ha sede a Roma, anche se pochi lo sanno e lo ricordano) all’Organizzazione mondiale della sanità, la cui esistenza è stata scoperta dai più solo per le polemiche che hanno investito l’opera del suo segretario generale a cospetto dell’epidemia detta covid-19.

Le “filosofie” o concezioni del mondo o comunque le si voglia chiamare (possiamo anche dire “religioni”?) che rifiutano il controllo delle nascite non sono prive di conseguenze sia sulla demografia sia sulla produzione e distribuzione dei beni di consumo. Prescindono dal concetto di programmazione sorta con la rivoluzione industriale e con il progresso delle scienze dei due ultimi secoli, costituiscono una variante incontrollabile e rendono quindi impossibile qualsiasi previsione attendibile sul futuro. Da un canto il fatalismo, dall’altro la responsabilità. Quest’ultima non significa pianificazione coatta delle persone (cosa del tutto diversa dalla programmazione) ma assunzione di coscienza delle conseguenze generali di ogni gesto individuale.

 

Il numero non è potenza; lo spazio c’è

Forse, ma solo forse, sono alle spalle due antichi motti: “Il numero è potenza”; “Siamo troppi in poco spazio”.

Il primo è finito come sappiamo. Otto milioni di baionette erano e si rivelarono una colossale smargiassata. Con i pugnali puoi assassinare Cesare nella Curia, ma non vinci una guerra nell’età della industrializzazione. Il capolavoro di un ottenebrato al governo fu la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti d’America. Il numero degli abitanti di un territorio costituisce la somma dei loro problemi. Se non hanno da mangiare, da bere, da dormire in luoghi confortevoli sono condannati a rimanere il fotogramma scattato da un turista “di passo” anziché ergersi a Persone.

Alla seconda pessimistica previsione dell’esaurimento degli spazi abitabili da oltre mezzo secolo vennero cercate risposte e proposti rimedi da parte di cenacoli di studiosi lungimiranti, come componenti del Club di Roma, allarmati dalla necessità di intervenire per precorrere movimenti scomposti di masse riluttanti a fare i conti con il “progresso”. I risultati dei loro sforzi è rimasto lontano dal successo. Negli stessi anni, anzi, dilagarono movimenti ispirati dall’irrazionalismo, votati alla “sfida”, al rifiuto del dialogo e inclini a trasformare la protesta in violenza.

A cospetto del ritardo della “politica” si registra la novità degli anni in corso. Le statistiche documentano che proprio nei Paesi più progrediti una quota significativa e crescente della popolazione lascia le “città” e si trasferisce (o ritorna) dalle megalopoli a cittadine e borghi. “Da casa” si può lavorare. E a casa si può oziare in attesa della Grande Visitatrice. Lontani dai rumori, dalle ordinanze che ogni giorno condizionano la vita quotidiana delle aree affollate come fossero zona di guerra. Anche questa mutazione non è affatto indolore: richiede una vasta e lungimirante riorganizzazione dei servizi, per un numero non illimitato di utenti.

 

Andare oltre la paura dell’Apocalisse

Nei due giorni trascorsi da quando queste righe sono state scritte a quando vengono lette, secondo stime attendibili nel mondo si sono registrate circa 500.000 nascite e poco più di 250.000 morti. Il saldo attivo dei viventi è sotto gli occhi. Ma non vale per tutti gli “spazi” del pianeta. Le nascite sono più numerose nei paesi tradizionalmente prolifici; meno altrove. L’Europa registra un deficit demografico netto. Ma i suoi abitanti per chilometro quadrato continuano a essere fra i più alti del mondo, a parte il Giappone. Se si scorrono le statistiche degli abitanti, a parte il preoccupante miliardo e mezzo circa di cinesi e altrettanto di “indiani”, che da soli sommano il 40% degli abitanti del pianeta, si constata che la Germania, con poco più di 82 milioni di abitanti, figura al 15° posto tra gli Stati più popolosi della terra ed è preceduta da Etiopia, Vietnam, Filippine, Messico, Giappone... Gli altri Paesi dell’Europa centro-occidentale arrancano seguono: con la Francia (65 milioni), l’Italia (circa 60) e poi via via gli altri. Tanti. L’Unione Europea, se davvero si decidesse a essere qualcosa di serio, ha una consistenza superiore agli Stati Uniti d’America, per non parlare dei “Brics”, che (come anche gli USA) hanno crescenti problemi interni per la coabitazione di etnie non sempre conciliate. Ma al di là del numero netto degli abitanti dei singoli Stati maggiore attenzione merita la loro densità. Paesi già sovrappopolati possono farsi carico di migrazioni incontrollate? Palesemente no.   

La riflessione sull’andamento della crescita demografica planetaria non può fermarsi alla conta della diffusione e uso dei contraccettivi, degli ospedali e delle sempre più minacciose deplorazioni dei matrimoni senza figli (riecheggiante la “tassa sui celibi” introdotta da un non rimpianto regime). Va commisurata con altri parametri. Oggigiorno un miliardo di persone non dispone di acqua potabile e quasi 800.000 muoiono per malattie contratte da acque infette. I denutriti sono circa 850 milioni; i sovrappeso il doppio. Gli obesi 800 milioni. Almeno 22.000 esseri umani muoiono ogni giorno di fame mentre per dimagrire gli statunitensi nelle stesse ore spendono una somma iperbolica.

Che fare? Riflettere sui dati disponibili. La spesa per la sanità pubblica è superiore a quella per l’istruzione. E quella per la “difesa” (ovvero per la produzione di armi: l’unica che “tira” sempre e ha mercati in crescita) supera tutte le altre. La domanda è: siamo certi che essa renda più serena e sicura la vita dei singoli, dei popoli, del pianeta?

Nel dubbio merita rileggere il “De Rerum natura” di Tito Lucrezio Caro (98?-55? a. Cr.) e quel che rimane di Epicuro (Samo, 341 – Atene, 270 a. Cr.) e coglierne il messaggio di sempre più stringente attualità: “vivere appartati”, liberi dal “timore” degli dei e della vita ultraterrena, della morte, dei dolori e della ricerca di piaceri futili, da sostituire con il piacere catastematico (o statico), fondato sul pacato appagamento di quanto si ha e di come si è. Un pensiero non troppo diverso dall’“Ecclesiaste”. In un mondo segnato dal frastuono, dalla confusione, dalla quotidiana precipitosa corsa verso il nulla il tetrafarmaco epicureo mette al riparo dallo sgomento e dal castrofismo, pessimo consigliere in un’epoca contrassegnata dal timore della guerra nucleare. Meglio lasciarsi alle spalle le vanità e vivere in solitudine”, anche se gravati da responsabilità apicali, a cospetto ma non succubi della “folla”.

A quel punto, con quei canoni si scopre che sulla faccia della Terra c’è spazio per tutti, se ognuno fa la sua parte: vive e lascia vivere.

Aldo A. Mola

Inaugurazione del Canale di Suez. Un’opera faraonica. Diminuì drasticamente la percorrenza tra l’Europa, l’Africa occidentale e l’Asia. L’umanità ne trasse immensi benefici. Ma fu anche acceleratore della fase apicale della colonizzazione e poi teatro di conflitti ancor in corso.   

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 20/11/2022