di Alessandra Gasparini
“Expo hyperrealisme, ceci n’est pas un corps”, Museo Maillol, Parigi. (www.muséè maillol.com).
L’arte che ci turba perché ci rappresenta troppo. Così definirei l’iperrealismo, una corrente artistica apparsa per la prima volta negli Stati Uniti nel corso degli anni ‘60. Ricordo solo alcuni dei numerosi esponenti presenti in questa mostra: John Deandrea, Duane Hanson, Gerge Segal, Robert Grahm… Le adesioni alla corrente artistica si sono poi rapidamente diffuse anche in Europa. Alla mostra itinerante (è già stata a Bilbao, Canberra, Rotterdam, Liegi, Bruxelles e Lione, suscitando enormi consensi) partecipano anche due italiani, Fabio Vitale e Maurizio Cattelan.
L’arte iperrealista si muove prevalentemente nell’ambito della scultura, con cui cerca di rappresentare minuziosamente la realtà, soffermandosi in particolare sul corpo umano. Tanto da far chiedere allo spettatore se ciò che sta osservando sia un corpo vivente o solo una sua perfetta imitazione.
Il bel museo Maillol, ottocentesco, si trova nella parte della lunga Rue de Grenelle occupata dalle ambasciate straniere, e raccoglie come collezione permanente le opere del pittore e scultore di fine ottocento Aristide Maillol.
Entrando nella prima stanza del percorso espositivo iperrealista provo un’immediata sensazione di straniamento. Mi ritrovo infatti immersa in un contesto abitato da tre tipi diversi di corpi umani, molto ravvicinati tra di loro: i corpi dei visitatori, silenziosi e concentrati osservatori; quelli delle statue in bronzo e in marmo dell’artista Maillol; quelli sconcertanti di sculture variamente posizionate e dagli sguardi espressivi, davvero troppo simili a noi, a cui manca però il respiro vitale. Devo riflettere un istante per capire se sto urtando leggermente il mio vicino, e quindi devo chiedergli “pardon”, oppure rischio di toccare una scultura in esposizione.
Non sono convinta che questo davvero mi piaccia, mi sembra quasi di trovarmi nel famoso museo delle cere di Parigi, il Grevin, che ho sempre rifiutato di visitare, e non in presenza di opere artistiche.
Eppure il leggero turbamento non mi abbandona, anzi, cresce man mano che esploro le stanze. La ragazza dai lunghi fluenti capelli mori che si appoggia nascondendo il volto alla parete nera avrebbe forse bisogno di rassicurazione. Tuttavia non devo consolarla, è per finta. O meglio, lei è finta. Ma forse non è finto il suo dolore.
Per questo sono turbata, perché assomiglia al mio, quando lascio che mi attraversi. Sulla parete, una frase del grande scultore Auguste Rodin mi ricorda che “l’artista degno di questo nome deve esprimere tutta la verità della Natura, non solamente la verità dell’esterno ma soprattutto quella dell’interno”. Ci siamo, questo è il senso da dare ai corpi così simili ai nostri. Il discrimine sarà per me tra corpi che parlano e corpi che non riescono a dirmi se non se stessi. Mi concentrerò sui primi. Sulla testa di un uomo di bronzo si posa un’aquila e lui si lascia afferrare. Vorrebbe essere forse trasportato in volo? Un nano in abiti sgargianti mi mostra il suo ghigno beffardo, che mi allontana.
Quattro visitatori immobili davanti a uno schermo ancora una volta mi traggono in inganno. Vero o falso? Uno si alza ed esce dalla stanza. Vero! Entro in una bella sala luminosa, abitata dai corpi femminili in bronzo scolpiti da Maillol. Un insieme armonioso ed elegante. Che ci fa un corpo plasticoso e color carne in mezzo a loro? Dovrebbe destare curiosità, ma il contrasto resta superficiale, non mi parla.
Entro nella quarta sala, dove i corpi assumono proporzioni differenti da quelle reali. Come l’Alice di Lewis Carroll ora sono grandissimi, ora molto piccoli, ma così precisi nei particolari che di nuovo mi prende l’incertezza.
La superficie della pelle, le unghie, i capelli, le rughe, le piccole o grandi pieghe ombreggiate delle articolazioni, della muscolatura, dovute alle pose molteplici in cui l’artista ha voluto rappresentarli, sono le stesse mie, nostre. Perfette. Solo la dimensione cambia, a rivelare il falso. Mi avvicino a un’anziana donna dalla bella capigliatura bianca e fine che, teneramente assorta, ad occhi chiusi, stringe a sé un neonato pelosetto e bruttino. L’insieme è così profondamente umano che mi commuovo, perché sento che la piccola donna canuta invecchia per rinascere, è questo che vuole comunicarmi, tanto che la esamino da ogni lato per paura di perdere una qualche sfumatura del suo messaggio.
Un moto dell’animo lo suscitano anche un uomo a una donna posati su un cubo, i loro corpi nudi intrecciati in un abbraccio struggente, non belli ma molto più che belli, non reali ma molto più che reali. Il mio desiderio di quel medesimo abbraccio è potente.
Passo, molto incuriosita, alla stanza dei ‘mostri’ (Realités Difformes). Un volto di donna che pare specchiarsi in un baraccone da fiera si moltiplica in smorfie inquietanti, dentro a un’unica massa scultorea.
Così un viso di uomo deformato, enorme, vuole spaventarmi, ma fotografandolo lo ammansisco, perché ne entro in possesso. Quei mostri siamo noi quando ci permettiamo di esserlo. Sono i nostri incubi su noi stessi, sulla nostra misteriosa e a volte impenetrabile identità di umani.
Da una vetrina appaiono le belle sculture in marmo di Maillot, a rompere l’incanto mostruoso con luminose presenze.
Cosa ci fa in un angolo quella bambina così pelosa e assorta? Culla devotamente un mostriciattolo, una specie di enorme tortello con piedini da bimbo, dotato di bocca e con un ombelico al posto del naso. Lei ha bei capelli, lunghi e castani. Lui è senza peli. Sembra che, al di là delle loro forme, amandosi si diano senso l’un l’altro.
Ed ecco, al piano sotterraneo, la parte che preferirò. S’intitola “Frontières mouvant”. Stiamo entrando in un ambito performativo, concettuale, quello che più amo nell’arte contemporanea.
Due opere mi colpiscono particolarmente: la prima è quella dell’artista francese Mathilde Ter Heine. Una donna-scultura bionda, che rappresenta l’artista, assiste seduta alla scena su schermo televisivo in cui lei stessa viene lanciata nelle acque di un canale da una donna reale. Probabilmente sempre l’artista. La scultura contempla ogni attimo di quella caduta rallentata, non può fermarla.
L’opera dei due artisti svizzeri Glaser e Kunz crea più di tutte l’illusione di trovarsi di fronte ad una presenza animata.
Il povero Jonathan ha subito un grave incidente e si trova in pessime condizioni su una sedia a rotelle. Si tratta di un ologramma, il volto e gli abiti sono proiettati. Lui risponde al cellulare, dichiarando la sua condizione. Sono certa che è vivo. Mi avvicino a lui, di fianco, ed ecco che non parla più, mi guarda, uno sguardo inquieto, circospetto, forse anche una richiesta di aiuto. Come vorrei aiutarti, e che tu aiutassi me. In un’epoca così poco solidale l’appello doloroso di un ologramma mi sembra qualcosa di amichevolmente inquietante e al tempo stesso attraente.
Mi avvio all’uscita. Quello a cui ho assistito mi ha parlato di noi, della nostra società, in cui la mistificazione di vero e falso è la regola, atta a creare confusione, sgomento, spesso perdita di riferimenti sicuri.
Queste “bambole”, fatte di plastica, di resine, di materiali chimici assemblati o semplici ologrammi, preludono ai robot, i nostri futuri (ma non troppo!) antagonisti.
L’intenzione che leggo in molti di questi artisti è però provocatoria, un invito a riflettere su ciò che ancora ci rende e ci renderà diversi da loro: possiamo farci un’opinione su ciò che esiste attorno e dentro di noi, cambiarlo, correggerlo, cercare di migliorare le nostre condizioni di vita, immaginare un futuro, lottare e attraverso le nostre azioni orientare gli eventi.
Le nostre effigi senza anima, seppure perfette nella forma, seppure riflesso di aspetti nostri, restano e resteranno forme, simulacri, corpi senza spirito, contenitori di dati.
Senza sfumature, senza capacità di scegliere, di provare passioni, senza la speranza di un significato da potere dare al proprio esistere.
Disegno di Alessandra Gasparini
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Articolo pubblicato il 12/01/2023