Il Tricolore Italiano
La straziante impiccagione del ventiduenne “Giò” De Rolandis alla Montagnola di Bologna (23 aprile 1796).

230 anni di storia (di Aldo A. Mola)

L'Italia ha tante “feste”, civili e religiose. Forse troppe. Non sempre le “sente”. Poco importa avere una festa in più ma capire a chi, a che cosa e perché rendere omaggio con dispensa retribuita dal lavoro. Il 7 gennaio di ogni anno viene celebrato il Tricolore. È una “ricorrenza” nazionale, con epicentro a Reggio nell'Emilia perché, si dice, lì per la prima volta il verde il bianco e il rosso furono adottati per il vessillo di uno Stato, precisamente la minuscola Repubblica Cispadana nata su impulso dei francesi capitanati da Napoleone Buonaparte, comandante dell'Armata d'Italia mandata dal Direttorio di Parigi a sconfiggere gli Asburgici e i suoi alleati, a cominciare dal re di Sardegna.

Come ogni anno anche nel 2023 è stato ripetuto che il tricolore, simbolo di unità e di indivisibilità dell'Italia, è stato voluto dalla Costituente quale vessillo della Repubblica. La quale, dunque, adottò la bandiera esistente, ma ne cancellò lo scudo sabaudo che vi campeggiava dal 1848. Quel tricolore aveva un secolo. L'attuale ne ha 75. Norme successive vietarono l'esposizione del tricolore originario che (ha ricordato il messaggio del presidente Sergio Mattarella) era stato innalzato dagli avi per dar vita all'unità italiana. Insomma, si festeggia un “prima” (una “repubblica” vassalla della Francia) e un “poi”, quella attuale, ma non si ricorda in debite forme che il Tricolore è nato come bandiera del Regno di Sardegna e poi di quello d'Italia.   

L’eliminazione dell'emblema della Casa che dal 23 marzo 1848 si fece carico delle guerre per l'indipendenza, l'unità e la libertà degli italiani non cambia la verità dei fatti. Perciò quel passato merita di essere sinteticamente ricordato. Si scopre così che nel 1848 Carlo Alberto di Savoia Carignano non inventò il tricolore ma lo ricevette “per li rami” da due studenti universitari che lo avevano ideato e ne erano morti più di mezzo secolo prima. Il Tricolore dunque nacque e dovrebbe rimanere insegna della gioventù, dell'Italia che è Nuova se riconosce l'Antica, le sue radici.

 

La «Bandiera dei tre colori/ è sempre stata la più bella/ noi vogliamo sempre quella/noi vogliam la libertà…». Canti del Risorgimento. Come la “Bella Gigogin” che oggi verrebbe vietata per oltraggio al pudore. Chiusi per sempre nel baule dei ricordi perduti? La bandiera italiana garrisce nell'Italia delle “cento città” se il suo passato viene recuperato senza cesure né censure. Vent'anni fa l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi restituì smalto al Tricolore e incitò con l’esempio personale a intonare il “Canto nazionale”, la cui “storia” merita di essere ripercorsa, tanto più che qualcuno vorrebbe addirittura inserirlo nella Costituzione. È un inno neoguelfo. Cade bene.

Dopo la prima guerra mondiale uomini saggi al governo della cosa pubblica, come Giovanni Giolitti e Benedetto Croce, d'intesa con Vittorio Emanuele III puntarono diritto all’obiettivo vero: la Festa delle Bandiere (celebrata all'Altare della Patria il 4 novembre 1920) era tutt'uno con la legge sulla cittadinanza e l’obbligo dell’istruzione (altra cosa dall’istruzione obbligatoria). Da lì bisogna ripartire. Intorno alla genesi del Tricolore molto è stato scritto, ma con lacune vistose e per obiettivi spesso di parte. Se davvero si vuole che esso unisca, tempo è venuto di ricordarne almeno per sommi capi la lunga storia, dire chi per primo lo ideò, che cosa forse volle esprimere, quali ne furono le molteplici vicissitudini.

Una prima certezza è che il variegato “tricolore” adottato dalla Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797 ha poco a che vedere con quello del 1848-2023. Esso era a bande orizzontali. Quattro punte di freccia convergenti indicavano l'unione delle sue “terre”: Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, alle quali poi si aggiunsero un po' di Romagna, la Garfagnana, Massa e Carrara, accorpate in una “repubblica” del tutto artificiosa, dai confini improbabili e dalla brevissima durata. Alle spalle esso aveva stendardi reggimentali, modellati sull'esempio di quelli della francese Armata d'Italia e ornati da cifre e da simboli esoterici.

Nel corso della caotica assemblea che il 7 gennaio 1797 ne decise l'adozione, il tricolore della Cispadana ebbe un fautore curiosissimo: Giuseppe Compagnoni (Lugo, 1754-Milano, 1833). Ordinato prete per volontà della famiglia, letterato di qualche nomea, questi era stato tra gli inquirenti del processo a carico di Giuseppe Balsamo, sedicente Alessandro conte di Cagliostro, condannato a morte con pena commutata nel carcere a vita, da scontare nel “pozzetto” della fortezza di San Leo ove morì poco prima dell’arrivo dei francesi liberatori. Compagnoni apprese che nel rito egizio Cagliostro usava nastri verdi bianchi e rossi. Nessuno sa dire perché. E nessuno ha mai spiegato perché, deposto l'abito talare e passato nelle file dei rivoluzionari, per lo stendardo della repubblica cispadana Compagnoni abbia suggerito proprio quei colori. Sappiamo invece per certo che né lui né Cagliostro furono gli inventori del Tricolore. Lo scrisse il “Messaggere Torinese” del 19 febbraio 1848 che per editoriale pubblicò il necrologio di Giuseppe De Rolandis.

Tricolore (su modello francese) fu la bandiera del Regno italico, retto dal figlio adottivo di Napoleone I, Eugenio di Beauharnais, sotto tutela dell'imperatore. Iniziato alla Carboneria (la cui bandiera era azzurra, rossa e nera), Giuseppe Mazzini, fondatore della “Giovine Italia” nel 1831, tornò a innalzare il tricolore verde, bianco e rosso, ma nuovamente a bande orizzontali.

In “Le bandiere dell'Esercito”, sontuoso volume pubblicato nel 1985 dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'esercito, di cui fu a lungo operoso e lungimirante capo, il generale Oreste Bovio documenta che fu Re Carlo Alberto di Sardegna ad adottare il tricolore, che sventolò per un secolo quale vessillo nazionale. L’articolo 77 dello Statuto promulgato il 4 marzo 1848 recitava: «Lo Stato conserva la sua bandiera: e la coccarda azzurra è la sola nazionale.» Ma neppure tre settimane dopo, il 23 marzo, quando dichiarò guerra all’Impero d’Austria convinto di avere a fianco gli altri Stati dell’Italia d’allora (Regno delle Due Sicilie, Stato della Chiesa, Granducato di Toscana..., che invece via via si defilarono), Carlo Alberto lanciò un proclama «ai popoli della Lombardia e della Venezia» per annunciare che correva in loro aiuto. «Per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana – aggiunse – vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana.» Proprio “italiana”, si badi bene: non “del Regno di Sardegna”. Come anni prima in un gelido colloquio mattutino aveva promesso a Massimo d’Azeglio, venuta l’ora, Carlo Alberto scelse l’Italia. Lo seguì suo figlio, Vittorio Emanuele II, che distribuì personalmente i tricolori di combattimento ai reggimenti in partenza per la Crimea: una guerra decisiva per imporre all’Europa la questione italiana. Da allora il tricolore e l’Italia furono tutt’uno. Il 25 marzo 1860, dieci giorni dopo la proclamazione del Regno d'Italia da parte del parlamento, un apposito decreto stabilì misure e caratteri della «bandiera di cui deve far uso il Regio Esercito»: col verde all’asta, il bianco e il rosso, scudo sabaudo e stemma sormontato dalla corona per le navi da guerra.

A quel vessillo guardarono generazioni di italiani, sino alla svolta del 1946-1947.

 

Il Museo degli Studenti voluto in Bologna, la Dotta, dal Rettore dell’Università, Fabio Roversi Monaco, conserva il primo tricolore italiano: la coccarda disegnata da Giovanni Battista De Rolandis (1774-1796), nativo di Castell’Alfero, ora in provincia di Asti. Iscritto alla facoltà di teologia dell’Università di Bologna e ospitato al collegio Piemontese “La Viola”, ove era docente Giuseppe Compagnoni, “Giò” De Rolandis conobbe Luigi Zamboni, di qualche anno più anziano, studente nella facoltà di legge. Insieme cospirarono per l’idea d’Italia. La coccarda sommò i colori comunali (di Asti, Milano, Cuneo e tante altre città...) con il verde. Nessuno sa esattamente perché. Forse il verde (poi distintivo della massoneria in Italia) era il colore della speranza o della giustizia, il colore della Pentecoste (cantata da Alessandro Manzoni, forse “iniziato” in gioventù) e di altre solennità della chiesa cattolica? Di sicuro sappiamo che i loro sogni vennero presto stroncati. Su delazione di un altro studente inizialmente loro compagno di cospirazione i due furono indagati, ma con esito favorevole. Continuarono nel loro disegno e per segno distintivo fecero cucire coccarde grandi “il doppio di un baiocco di rame” con i colori della città, bianco e rosso, e “del cavadino verde”.

La cospirazione venne dispersa. Zamboni e De Rolandis fuggirono, ma furono arrestati sul confine col granducato di Toscana. Consegnati alla polizia bolognese vennero processati, con i metodi del tempo, dal tribunale presieduto da Federico Pistrucci noto come “la mano sinistra del Maligno” e più volte sottoposti a torture efferate, comprese le pinze infuocate in parti delicate e nella schiena. Antonio Aldini, illustre giureconsulto, apprezzato da Napoleone che lo elevò a cariche apicali, in loro difesa escluse che la coccarda fosse segnacolo di rivoluzione e di subordinazione dei giovani a progetti di “agenti” francesi, come Aurelio Saliceti. Lo fece per scagionarli e sottrarli alla tragica sorte che li attendeva. Il 18 agosto 1795 Zamboni venne rinvenuto impiccato in una celletta ove non poteva neppure stare in piedi. Strozzato? De Rolandis subì sevizie orrende affinché confessasse chi erano i suoi ispiratori, mandanti e complici. Dopo estenuanti interrogatori che lo sfinirono fu condannato a morte. Attese il supplizio stringendo tra le mani il Vangelo. Prima di essere portato alla forca, gli vennero “recise le forze”, cioè fu evirato. Condotto esangue alla Montagnola di Bologna, venne appiccato. Per inettitudine del boia, il cappio non funzionò “a dovere”. Contro le regole, l'esecuzione fu ripetuta. Lo sciagurato gli balzò sulle spalle per affrettarne la morte. Una incisione ricorda la sua tragica fine. Chi si indigna delle infamie praticate da integralisti odierni dovrebbe deplorare quelli che venivano usate in Italia dopo la Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del cittadino. Ne scrisse Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore, ove vengono ricostruite le vicende di altri due componenti della sua famiglia, Giuseppe, medico di fiducia di Carlo Alberto, e Secondo, che si occupò di egittologia, incluso lo studio della stele di Rosetta.

Il Tricolore dunque è simbolo universale. Come scrisse Angelo Brofferio nel “Messaggere Torinese”, in punto di morte Giuseppe De Rolandis «voleva un’ultima volta rallegrarsi colla vista dell’italiana coccarda che, agonizzando, salutava ancora». Nel 1862 Augusto Aglebert pubblicò “I primi martiri della libertà italiana e l'origine della bandiera tricolore o congiura e morte di Luigi Zamboni di Bologna e Gio. Battista De Rolandis di Castel d'Alfero presso Asti tratta da documenti autentici”. Altri seguirono sulla sua traccia sino alle iniziative promosse da Ito (Ippolito) De Rolandis, giornalista d'assalto e saggista indomito (al liceo era soprannominato “Tritolo”) di concerto con il rettore dell'Università di Bologna, Fabio Roversi Monaco e un amico di fiducia.

Con l’avvento della Repubblica, dal tricolore venne tolto lo scudo sabaudo, che vi aveva campeggiato per un secolo. Quando se ne celebra la festa sarebbe dunque doveroso esporre anche una delle bandiere “storiche”, di quelle in uso da Carlo Alberto a Umberto II, proprio per ricordare chi siamo e da dove veniamo (dove si vada nessun lo sa): dalla Repubblica cisalpina del 1796, anche un po’ da Cagliostro e dall'ambiguo Compagnoni, dai moti costituzionali del 1820-21, del 1831, dalle guerre per l'indipendenza e per l'unione degli italiani, nel 1848, nel 1859-1860, nel 1866, nel 1870 e nel 1915-1918 e anzitutto da due studenti antesignani della patria italiana. È una storia lunga e sofferta. Va ripercorsa e ricordata nella sua complessità.

Il Tricolore, a conclusione, non è nato nel 1946 o con la Costituzione del 1° gennaio 1948. Ha quasi 230 anni di vita vissuta. È giusto innalzarlo, non solo per eventi sportivi, e indossarlo quale coccarda, come avvenne nell'ormai lontano 2011 quando su iniziativa dell'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano venne festeggiato il 150° dell'“unità nazionale”, ovvero della proclamazione del regno d'Italia. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, propone che il giorno della venga elevata a festa civile. Quell'Italia era l'unica in quel momento possibile: ancora senza Venezia, Trento, Trieste. Roma sembrava inarrivabile perché il papa-re, Pio IX, era tutelato da Napoleone III, anticamente carbonaro, cospiratore, “fosco figlio di Ortensia”, favorevole all'“unione” degli italiani ma non alla loro “unità”. La festa del tricolore sarebbe finalmente occasione di una riflessione corale sullo Stato d'Italia, sulla “cittadinanza” e sulle loro radici in una civiltà millenaria, patrimonio fondamentale per l’Europa ventura.

Aldo A. Mola

La straziante impiccagione del ventiduenne “Giò” De Rolandis alla Montagnola di Bologna (23 aprile 1796).

La storia del Tricolore italiano è stata appassionatamente narrata da Ito De Rolandis in Orgoglio tricolore. L’avventurosa nascita della nostra bandiera (Lorenzo Fornaca Ed. - L’Artistica, Savigliano, 2008), con prefazioni dei sindaci di Asti e di Castell’Alfero, Angelo Marengo, di Mercedes Bresso, Aldo Mola e scritti di altri autori: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, Marco Bortolotti, Fausto Carpani, Sabina Fornaca, Corrado Testa e Guido Peila, che ripercorre le gesta di Giuseppe De Rolandis in “L'Ussaro sul Tetto” di Jean Jono, dal quale venne tratto il film diretto da Jean-Paul Rappenau e interpretato da “Fernandel” (Fernando Contandin, nativo di Perosa Argentina, il celebre “don Camillo”).

Il volume di Ito De Rolandis è suggellato dalla fotografia di Carla Bruni Tedeschi (poi moglie di Sarkozy) recante il tricolore italiano nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Torino (2006).

Quello approvato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 è solo uno dei tricolori ideati per la Nuova Italia. La loro molteplicità esprime un sentimento diffuso dei cittadini italiani di ieri e di oggi: di varie confessioni religiose ed etnie, accomunati dall’orgoglio dei propri diritti e dal senso dei doveri verso lo Stato. A beneficio della memoria del “défroqué” Giuseppe Compagnoni va ricordato che nell'Assemblea della Repubblica Cispadana proprio lui si dichiarò contrario all'elevazione del cattolicesimo a “religione dello Stato”.

Dopo la Restaurazione non riprese l'abito talare; visse a Milano campando della propria prodigiosa attività di studioso. Scrisse anche una storia degli Stati Uniti d’America in 29 volumi. Era la “Terra promessa” ...

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 15/01/2023