San Giulio d’Orta (NO) e la Badessa Anna Maria Cànopi
Anna Maria Cànopi, Il silenzio e la preghiera

In un luogo magico una donna ha ricostruito il monastero

Ancorato come una nave a circa 400 metri da Orta, uno scoglio emerge dal lago di origine glaciale: è l’Isola di San Giulio, che affascina subito per la sua bellezza: natura e costruzioni si armonizzano in un paesaggio unico, a testimonianza di un lungo e intricato alternarsi di vicende storiche.

Placida

come piccola nave

ancorata al largo

della cusiana riva,

l’Isola del silenzio

sorride al Cielo

che la bacia in fronte.

Ed è sera,

ed è mattina:

un continuo risveglio

alla vita, al canto,

nell’estasiata luce

dell’Amore.

(Anna Maria Cànopi)

Luogo di culto fin dai tempi pagani, l’Isola riceve il suo nome da San Giulio, prete di origine greca, che con il fratello Giuliano, diacono, porta il Vangelo e la fede cristiana in queste terre.

All’opera di San Giulio si deve la fondazione della Basilica sull’Isola, più volte in seguito rimaneggiata e ampliata. Dopo l’invasione dei Longobardi (568), l’Isola diventa sede di una residenza ducale fortificata.

Nei secoli successivi, l’Isola si trova coinvolta nella lotta tra l’Impero Sassone e il Regno Italico, che mirava alla sua autonomia. Nel maggio 962 l’imperatore Ottone attacca l’Isola dove si era rifugiata Willa, moglie del Re d’Italia Berengario, con i suoi fedeli. La regina Willa e i suoi reggono all’assedio per circa due mesi, poi sono costretti alla resa. In questo contesto verrà battezzato il piccolo Guglielmo da Volpiano (figlio di una dama di corte della regina Willa e del nobile Roberto da Volpiano). Che diventerà un protagonista della vita religiosa e un riformatore innovativo nella Chiesa dell’Anno Mille.

Come detto, nella storia del luogo emerge la figura di San Giulio, con il fratello San Giuliano, che meriteranno un radicato culto, che ha il suo fulcro nella giornata del 31 gennaio, che vede accorrere fedeli anche da lontano.

L’antica Vita dei due santi riferisce dei miracoli loro attribuiti: l’episodio del finto morto (cioè di quell’uomo che per non aiutare il Santo si finse morto e fu ritrovato veramente morto), del dito riattaccato a un artigiano, dell’aggiogamento di un lupo al posto di un bue sbranato… miracoli che ricorrono anche in altre tradizioni agiografiche, e che sono raffigurati nelle opere d’arte nella Basilica. Questi episodi sono alla base della venerazione di San Giulio come protettore degli edili, degli ortopedici, o – in tempi passati – contro le incursioni dei lupi negli allevamenti.

A Gozzano San Giulio e San Giuliano costruiscono la loro novantanovesima chiesa; San Giulio si mise quindi in cammino per cercare il luogo in cui edificare la centesima: un’isoletta disabitata vista da lontano parve essere il luogo ideale. Dopo aver attraversato miracolosamente il lago navigando sul suo mantello, episodio ripreso frequentemente nell’iconografia del Santo, questi giunse all’Isola, abitata da “serpenti” – immagine usata per designare i culti pagani – e, scacciati con il segno della croce, iniziò a costruire la sua centesima chiesa, dove San Giulio riposa da più di sedici secoli. Sotto l’altar maggiore, nel 1697 è scavato uno scurolo in cui vengono collocati il corpo di San Giulio – successivamente inserito in un’urna di cristallo e argento cesellato – e le reliquie degli altri santi venerati nella Basilica: Sant’Elia di Sion (ritenuto il successore di San Giulio), Sant’Audenzio, benefattore del Santo, San Demetrio di Tessalonica martire, l’abate San Filiberto di Jumièges.

Nel locale attiguo allo scurolo con l’urna di San Giulio è allestito un piccolo locale museale in cui sono esposti alcuni reperti antichi e un pannello che illustra le varie fasi di costruzione della chiesa dell’Isola.

All’interno, l’attenzione è catturata dall’ambone romanico, del XII secolo, realizzato con il serpentino d’Oira, una pietra grigio-verdastra che assume suggestivi riflessi cangianti a seconda dell’illuminazione ricevuta. L’opera si ispira ai modelli della scuola lombarda (maestri comacini) e tedesca, e testimonia un comune substrato carolingio e ottoniano.

Le immagini scolpite sul parapetto raffigurano i simboli dei quattro evangelisti (il bue, l’uomo e il leone alati, l’aquila che funge da sostegno del leggio) alternati ad altre figure che rappresentano la lotta tra il bene e il male, vinta da Cristo simboleggiato dal grifone. Spicca la scultura di un personaggio misterioso, che è stato identificato da alcuni storici nell’abate San Guglielmo da Volpiano (mentre altri vi leggono soltanto l’immagine di un pellegrino in transito sulle vie della fede medievale).

L’11 ottobre 1973 sull’Isola succede qualcosa di nuovo e di antico allo stesso tempo.

«Il viaggio che ci ha condotte fino a qui ebbe inizio l’11 ottobre 1973, quando dicemmo il nostro sì alla richiesta dell’allora vescovo di Novara, Monsignor Aldo del Monte, a dar vita ad una fondazione monastica sull’Isola di San Giulio per custodirne il patrimonio storico e religioso».

Così Madre Anna Maria Cànopi, fondatrice e Madre Abbadessa fino al 2018, ricorda l’inizio di questa grande avventura. Sei monache, provenienti dall’Abbazia dei Santi Pietro e Paolo di Viboldone (MI), in rappresentanza delle età e delle tappe della vita monastica: quattro professe di voti solenni, una professa di voti semplici, una novizia, con una postulante ad aspettarle sulle sponde del lago. I primi frutti non tardarono ad arrivare: già nel mese di maggio 1974 un nuovo “germoglio” chiede di essere ammesso alla Comunità.

Le condizioni di indigenza e la mancanza, non solo di agi, ma anche dei normali mezzi di sussistenza (come l’acqua potabile, che mancherà fino al 1975) non scoraggiano le religiose, alle quali non manca il lavoro (la maggior parte degli edifici erano da restaurare, gli spazi da organizzare, i mobili presenti da rimettere a nuovo). L’edificio adiacente alla Basilica, la “Casa Antica” si rivela ben presto insufficiente e arriva il consenso a stabilirsi anche nei locali dell’ex seminario. All’inizio questo edificio, anch’esso in condizioni di grande degrado, sembrava troppo grande e spazioso, e invece «non si faceva in tempo a finire i lavori e a sistemarsi un po’ agevolmente, che già ci si trovava allo stretto non solo per la mancanza di celle, ma anche di ambienti per i laboratori e l’ospitalità» scriverà Anna Maria Cànopi.  Con il passare degli anni, l’annessione coinvolse anche altri edifici presenti sull’Isola, che vengono collegati a quello principale grazie a stradine e ponticelli, per consentire alle monache di spostarsi senza violare la clausura. In un crescendo di fervore ed attività nascono anche altre attività, sia di stampo culturale (traduzioni di libri e articoli, collaborazione con riviste e periodici, collaborazioni con la CEI), sia laboratoriali (restauro di tessuti, ricamo e confezione paramenti liturgici, tessitura, iconografia, produzione di ceri e pergamene). Viene creata anche una piccola stamperia per la produzione di opuscoli e materiale liturgico e per la diffusione del periodico trimestrale di informazione e scambio di notizie, significativamente denominato “Casa sulla Roccia”.

A guidare le religiose è l’ideale monastico benedettino: “Nihil Deus anteponetur – Nulla assolutamente i monaci antepongano a Dio”. Un tratto peculiare, pur in una vera comunità claustrale, è stata l’accoglienza aperta e sempre disponibile verso gli ospiti che accorrono al monastero in cerca di silenzio, preghiera e aiuto spirituale.

La comunità continua ad arricchirsi di nuove vocazioni, fino ad arrivare a settanta, in una varietà di lingue, nazioni di provenienza, età e storie personali. Oggi la Madre Badessa e loro guida è Maria Grazia Girolimetto.

Ora che non c’è più, è ancor più difficile parlare di madre Anna Maria Cànopi, «la Madre», che per tanti anni è stata il cuore pulsante dell’Abbazia, da lei fondata l’11 ottobre del 1973. Ha finito la sua vita terrena proprio nel giorno del transito di san Benedetto. Nata e cresciuta in una famiglia numerosa, fra le colline dell’Appennino piacentino prima e dell’Oltrepò pavese poi, ha sempre mantenuto il suo legame con la cultura contadina, portato con sé il senso forte di essere “famiglia” e luogo di accoglienza in cui ciascuno poteva e doveva trovare posto, sentirsi a casa. L’immagine di un albero, con la sua serenità e longevità, aiuta a ricordarla, con i versi che sapeva creare dalla sua profonda spiritualità.

Nel folto ammanto

sulla collina

in festa di vento

e d’uccelli

l’albero canta.

Ma quando sarà spoglio

e si vedranno vuoti

i piccoli nidi,

si scoprirà

l’amore

della sua vita,

il dono

del suo restare

povero

solo

in grande silenzio.

(Anna Maria Cànopi)

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Articolo pubblicato il 01/02/2023