I lavandai di Bertolla, alla periferia di Torino
Bertolla d’altri tempi

Fra città e campagna, nella descrizione di Pietro Abate Daga

Il primo capitolo del libro Alle porte di Torino (1926), di Pietro Abate Daga, è dedicato a loro: i lavandai di Bertolla. Un mestiere scomparso che si esercitava in un sobborgo del capoluogo piemontese, che a fine Ottocento era ancora chiamato Bertoulla (pressoché “isolato dalla città, fino alla costruzione del ponte ferroviario Amedeo VIII sul fiume Stura di Lanzo nel 1884, poi ricostruito nel 1933 su progetto di Mario Dezzutti per la viabilità automobilistica di Strada Settimo”, come spiega oggi Milo Julini ricordando un fatto di cronaca nera qui avvenuto,il 3 novembre 1879, verso le ore 10 pom. alla frazione di Bertoulla”, per il quale sarà accusato il giovane lavandaio Rocco Necco: Civico20News - La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Abate Daga scriveva: “Questa estrema propaggine del territorio di Torino, presenta certamente caratteristiche speciali, che la separano, come un profondo abisso, dalla città, che pure le è così vicina. Non è un solo agglomerato di abitazioni: è composta di altrettante piccole frazioni sparse in mezzo ai campi, quasi isolate dal consorzio umano – la Verna, la Falconera, Cascinotto, Ronchi, Biasoni, Biasonetti, ecc. –“.

Davanti ai nostri occhi scorrono immagini di un primo Novecento che il passare del tempo e l’espansione della urbanizzazione hanno cancellato. Oggi quel che rimane di quelle cascine è soffocato da condomini di varia altitudine, da distributori di benzina e edifici commerciali, da una costruenda residenza per anziani che ha provocato molte polemiche sul territorio e in città.

Abate Daga ci descrive l’ambiente abitativo dell’epoca: “Corre fra la strada e le mura delle case un canale d’acqua, sul quale si protendono numerosi lavatoi di una semplicità primordiale, rustici, protetti da piccole tettoie”.

Il lavoro del lavandaio è un capitolo della sua descrizione, che inizia dall’ambiente umano: “Complessivamente Bertolla conta circa 5000 abitanti, non tutti lavandai, perché circa quattro quinti della popolazione sono composti di agricoltori e più ancora di operai, in parte venuti da Torino o da altri paesi a cercarvi un modesto asilo, quale è consentito dai loro non lauti guadagni”.

Entriamo nel merito del loro lavoro e della loro esistenza: “La categoria dei lavandai è costituita da due centinaia di famiglie con circa un migliaio di persone. A queste spetta veramente il merito della tradizione che caratterizza il paese. Esse ne sono quasi gelose. Difficilmente i giovani contraggono matrimoni fuori del loro ambiente. Parecchi sono i capi di famiglia ultrasettantenni, quali Martinengo Vincenzo, Bertinetti Antonio, Bongiovanni Domenico, vegeti e robusti malgrado il logorio fisico del lungo lavoro, non certo regolato dalla prescrizione delle otto ore”. Il borgo viene definito “paese”, e questa doveva essere la sua caratteristica locale, all’interno del quale i giovani vivono le loro storie, fino al matrimonio. Possiamo immaginare la messa domenicale, le osterie qui e là e il gioco delle bocce pomeridiano sotto le “tòpie”. E poi arriviamo alla descrizione del duro lavoro del lavandaio!

“Alle 3, alle 4 del mattino, mentre a Torino si dorme placidamente, a Bertolla già si inizia il lavoro febbrile. E poco dopo partono i carri carichi, che sfilano come tanti fantasmi nelle ultime tenebre notturne”.

Un’immagine poetica e verista allo stesso tempo; oggi siamo abituati a veder sfrecciare furgoni e camioncini per la consegna e il ritiro del bucato da alberghi e ristoranti o strutture sanitarie, a quel tempo una colonna di carri si metteva in movimento prima dell’alba per consegnare il lavoro concluso e ritirare quello per la nuova settimana. Già, perché questa operazione avveniva una sola volta la settimana, proprio il lunedì.

“Vi è una difficoltà da superare: la barriera daziaria. Qui ogni carro è visitato dagli agenti: in mezzo alla biancheria potrebbero esservi generi soggetti a dazio! (…) La colonna dei carri in attesa, certe volte, occupava tutto lo stradale dalla cinta daziaria alla borgata Barca. (…) Oltrepassata la barriera, la lunga teoria di carri si rompe. I lavandai sciamano verso i diversi punti della città, consegnano a ciascuna famiglia la biancheria pulita e ricevono quella sporca”.

Percorrendo la strada San Mauro di oggi, che unisce Torino all’omonimo grande comune della cintura, chi immaginerebbe una lunga fila di carri in attesa di passare il controllo degli agenti del dazio? Dentro la stessa città, poi! Quanto siamo lontani dal mondo globalizzato di oggi, nel quale con la carta di identità si può viaggiare in tutta l’Unione Europea?

Come si svolgeva la vita lavorativa di un lavandaio? Diamo ancora la parola a Pietro Abate Daga: “Donne e uomini marcano la biancheria, e questa operazione dura magari tutta la notte”. La marcatura della biancheria era una operazione preparatoria per distinguere e non disperdere i capi che sarebbero successivamente stati lavati.

“Al mattino del martedì si prepara il bucato, si mette la biancheria a bagno, si insapona, di diluisce in liscivia nella caldaia, si dispongono gli oggetti nelle apposite tinozze in miniatura. (…) All’una dopo mezzanotte del mercoledì già si inizia la lavatura degli oggetti nel lavatoio esterno. (…) Giunge il giovedì e si deve provvedere a sciorinare al sole la biancheria lavata. È questo il momento più pittoresco della nostra regione. Migliaia di lenzuoli, di camicie, di fazzoletti, di oggetti di biancheria intima, dai più ricchi merletti, trine, ricami, lini finissimi, alla più rozza tela, ai più miseri stracci, sparsi in una libera promiscuità, sfoggiano il loro candore all’aria, al sole, mandando un grido non contraddetto di uguaglianza sociale”.

C’era tempo per lo svago e il divertimento in questo contesto sociale? Sorge la Società lavandai, contadini ed operai di Bertolla, per esercitare anche il mutuo soccorso e offrire agevolazioni ai propri soci. La banda musicale di Bertolla, composta di 34 membri, è intitolata alla regina Elena di Montenegro, moglie del Re Vittorio Emanuele III.

Quali strade e servizi si offrivano agli abitanti?  In un recente passato, l’unica comunicazione era la strada di Settimo, per la quale si raggiungeva la città di Torino. Il ponte Vittorio Emanuele III, ai tempi del libro che ci ha guidati, era ancora una giovane costruzione. Su di esso, colpisce una affermazione antesignana: “Il progetto adottato è forse stato un errore, perché il ponte è risultato troppo stretto e con eccessivo numero di arcate, il che è sempre un pericolo in caso di piene” (!). Il problema della viabilità in zona sarebbe presto migliorato, in quanto “l’impresa Fratelli Ghigo, che ha ottenuto la concessione dell’elettrificazione della tranvia Torino – Settimo, eseguirà l’impianto di un ramo della tranvia fino al nostro centro (di Bertolla, N.d.A.) ed anche fino al ponte di San Mauro”.

A quei tempi i torinesi usavano una frase di rito, in dialetto “Ma va ‘n Bertola”, che era un garbato modo di dire riferito ad un interlocutore non gradito. Proprio su questo motto Abate daga chiude la sua sapiente esplorazione: “(…) riflettei ancora al motto sopra ricordato. Sì, andate, ma non crediate di trovarvi di fronte la gente che vi fanno supporre. Andate in Bertolla e se potrete fare l’augurio di un maggior progresso edilizio della regione, certamente dovrete imparare come e quanto colà si lavora”.

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Articolo pubblicato il 10/02/2023