Il Senato del Regno, per esempio
Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re di Sardegna. Busto in marmo.

Per una nuova Costituente (di Aldo A. Mola)

All'outlet del costituzionalismo imperfetto? 

Nuovamente molto si parla di riforma dello Stato. Vengono presi a prestito istituti di terre lontane, diversissimi, come presidenzialismo, semipresidenzialismo, primierato e simili, e proposti alla rinfusa, come capi di vestiario in svendita all' Outlet del costituzionalismo imperfetto. Con le solite condizioni allettanti: soddisfatti o rimborsati, oppure “si accettato resi”. Se dopo la prima sommaria prova “nel camerino”, il “popolo” constata che la giacca risulta di manica troppo larga o troppo lunga e il pantalone cade male può restituire e indossare un altro abito...costituzionale? Ogni quante stagioni? Così non funzionano le forme dello Stato. Due considerazioni s'impongono: in primo luogo, come mai altrove gli Stati hanno una forma che dura nei secoli? Si vedano la monarchia britannica, gli Stati Uniti d'America e, dopo vari esprimenti, la repubblica francese, punto di arrivo di un processo millenario che fa di Macron il successore di De Gaulle, Napoleone, Luigi XIV, sino alla unzione davidica dei re. Qual è il segreto della lunga durata delle Istituzioni? Semplice: durano quando calzano ai popoli, i cui caratteri – come ricorda il generale Claudio Graziano in “Missione” - sono frutto di secoli e secoli. Lo stesso vale per l'Italia, uno stato giovane, che somma circa cent'anni di monarchia rappresentativa e settantacinque di repubblica parlamentare: un sistema il cui pregio principale sta nella continuità, come ognuno capisce se confronta lo Statuto albertino del 4 marzo 1848 con la Costituzione del 1 gennaio 1948. Chi voglia approfondire può leggere con profitto il libro di Tito Lucrezio Rizzo, per decenni Consigliere del Quirinale, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, 1848 al 2022 (ed.Herald).

 

La riforma costituzionale anni addietro proposta da Matteo Renzi puntava al riassetto armonico dei tre poteri apicali dello Stato, con opportune modiche di competenze, ma nella piena salvaguardia della loro identità, necessaria all'equilibrio della democrazia, garantita dalla sovranità dei cittadini. Non cedeva alla chimera dell’uomo unico (e “forte”) al comando né alle sirene del monocameralismo, tipica dei giacobini e dei sovietici e realizzata dalla non rimpianta Repubblica sociale italiana. Anni di impossibile diarchia di partito unico e monarchia rappresentativa si risolsero nella prevalenza logico-cronologica della monarchia costituzionale, che ispirò i costituenti quando scrissero la Carta della repubblica parlamentare.

Merita dunque ripercorrere per sommi capi genesi e vita del Senato del Regno, che dal 1848 dette corpo al regime parlamentare in Italia e propiziò lo sviluppo civile, sociale, economico e culturale del Paese sorto dall'accorpamento dei popoli d'Italia raccolti attorno al tricolore sabaudo. Senza indulgere a sterili accenti nostalgici, stiamo ai fatti. Lo Statuto albertino nacque in un mese di  “Consigli di conferenza” presieduti personalmente da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sovrano di un regno che usava ufficialmente due lingue  e, caso unico  in Italia, rispettava tre confessioni religiose: la cattolica (di Stato), la valdese e l'israelita e riconobbe i cittadini uguali dinanzi alle legge, osservassero o meno un culto. L'importate era che rispettassero le leggi e fossero fedeli al re e a suoi reali successori per il  bene indivisibile del patria.

Vediamo dunque il primo mezzo secolo del Senato del Regno, dall'origine a fine Ottocento. In altri articoli parleremo delle sue vicende successive. E' il modo pacato di offrire un contributo costruttivo al confronto sulle riforme costituzionali che ricorrentemente si affaccia sull'orizzonte della politica non inquinata da urla scomposte.

 

Quando Carlo Alberto istituì il Senato

Fra il 3 aprile 1848, Carlo Alberto di Sardegna nominò i primi 58 senatori e le ultime nomine decretate da Vittorio Emanuele III il 6 febbraio 1943, il Senato del Regno contò in tutto 2404 membri designati. Però solo 2362 furono convalidati e prestarono giuramento divenendo a tutti gli effetti componenti della Prima Camera o, come si disse, Camera Alta per distinguerla da quella elettiva. I senatori erano di nomina regia, vitalizi e in numero aperto. Le differenze tra natura, composizione, poteri e scopi dei due rami del Parlamento furono profonde. Lo divennero ancor più quando, per effetto della “legge Alfredo Rocco” del 17 maggio 1928 n. 1079, la Camera elettiva cessò di essere frutto di libero confronto-scontro tra partiti e candidati e risultò preconfezionata dal Gran consiglio del fascismo ertosi a “partito unico”.

Il Senato assunse dignità anche maggiore quando, con la legge 19 gennaio 1939 n. 129, la Camera votata nel 1934 approvò la propria sostituzione con quella “dei fasci e delle corporazioni”, infarcita di “eletti di secondo grado”.

Quest’ultima evocò per contrasto il ruolo che la Camera Alta era chiamata a esercitare in presenza di reiterati assalti di Mussolini allo Statuto, orgoglio per Casa Savoia molto prima che Vittorio Emanuele II fosse proclamato re d’Italia.

La Camera dei fasci e delle corporazioni fu formata da componenti del consiglio nazionale del Partito Nazionale Fascista, dal profilo culturale e professionale generalmente modesto, e in parte dal Consiglio nazionale delle corporazioni. Quei deputati, o “consiglieri”, come ordinariamente furono detti, erano almeno venticinquenni e ricevettero indennità annua fissata dalla legge. Parecchi di essi avevano un impiego negli enti fascistizzati o parafascisti e non avrebbero avuto altrimenti di che vivere. Con votazioni sempre palesi essa doveva deliberare entro un mese i disegni di legge che riceveva dal duce.

Invertendo la pena etrusca, il nuovo contaminò il vecchio. La legge recitò che il Senato e la Camera avrebbero “collaborato col Governo per la formazione delle leggi”. Vennero subordinate al governo.

“D’altronde”, affermò Mussolini in La dottrina del fascismo nel 1938 posto a preambolo del nuovo statuto del PNF, “ammesso che il secolo XIX sia stato il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia”, non era detto lo fosse anche il seguente. “Le dottrine politiche passano, i popoli restano. Il fascismo vuole lo Stato forte, organico e al tempo stesso poggiato su una larga base popolare. Non crea un suo “Dio”, né cerca vanamente di cancellarlo dagli animi come fa il bolscevismo. Il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così com’è visto e pregato nel cuore ingenuo e primitivo del popolo.”

In 37 articoli lo statuto del PNF non fece alcun cenno al re né alla monarchia. I tesserandi declamavano: “Nel nome di Dio e dell’Italia, giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista”. Quanto quel giuramento fosse vincolante si vide il 26 luglio 1943. Benché il partito avesse raggiunto il massimo degli iscritti ma non si registrò alcuna manifestazione di massa contro la revoca di Mussolini da capo del governo. Solo un labile cenno ricordava che dalla direzione del partito dipendeva l’“Unione Nazionale Fascista del Senato. Alcuni “storici”, come Emilio Gentile, ne hanno dedotto che il PNF avesse prono ai suoi ordini il Senato del Regno. Così però non era. Infatti l’Unione raccoglieva solo una parte dei patres conscripti, come i senatori eran detti nell’antica Roma. Il capo del governo esigeva dai dipendenti pubblici il giuramento di fedeltà al duce in aggiunta a quello al re e ai suoi reali successori ma non ricambiava chiedendo ai suoi iscritti analogo impegno verso il re, benché il Gran consiglio fosse da un decennio “organo costituzionale”: un guazzabuglio di contraddizioni creato apposta per isolare sempre più il sovrano. La Camera Alta era e rimase un osso duro da rodere da parte del Duce, perché, pur con percorso segmentato, dalla promulgazione dello Statuto esso fu l’unico fulcro di un possibile “partito dello Stato”.

 

Il Senato, “partito del Re”

Dagli esordi, nel 1848, il Senato del Regno si trovò tra due fuochi. Da un canto doveva assumere la funzione di “partito del re”, dall’altro acquistare rappresentatività della nazione. Le nomine di patres talora precorsero l’annessione di nuove terre alla Corona sabauda e le elezioni della Camera dei deputati, come quelle indette a distanza ravvicinata nel 1860-1861 proprio per suggellare il conseguimento dell’unità nazionale nei confini in quel momento possibili. Gli elettori furono convocati il 25 marzo 1860 per eleggere i deputati di un Regno comprendente Lombardia, ducati padani, legazioni pontificie e Toscana da poco annessi al Regno di Sardegna, previo plebiscito. Il 29 febbraio Vittorio Emanuele II conferì 33 laticlavi senatoriali a personalità di spicco delle nuove terre. Tra il 18 e il 23 marzo seguirono due piccole “infornate” (com’eran dette le nomine di parecchi senatori in uno stesso giorno), per un insieme di altri 33 membri. Il 29 febbraio era stato il turno soprattutto di lombardi; poi fu la volta di tosco-emiliani. Tutte designazioni di alto prestigio. Rispondevano allo scopo: conservare al Senato il rango di “legione sacra” della monarchia e farne la “vetrina del Regno”, il consesso delle figure più illustri nei campi indicati dalle ventuno categorie dalle quali eran tratte: politici, militari, magistrati, alti burocrati, docenti, con speciale riguardo per gli esponenti della cultura intesa quale sintesi suprema di otium e negotium, pensiero e azione, sapere scientifico e partecipazione alla vita politica nazionale.

Altrettanto avvenne sull'inizio del 1861, dopo l’annessione di Marche, Umbria e delle Due Sicilie. I comizi elettorali furono convocati per il 27 gennaio. Una settimana prima, il 20, il re nominò 57 patres. Aperta dallo storico, arabista e patriota siciliano Michele Amari e chiusa dal giurista napoletano Giuseppe Vacca (1810-1876), poi ministro di Grazia, giustizia e culti nel governo La Marmora (1864-65), l'“infornata” comprese una carrellata di celebrità, i cui nomi riassumevano decenni di storia e talora congiungevano l’età franco-napoleonica e i moti liberali del 1820-1831 con il regno d'Italia poco dopo proclamato dalle Camere (14 marzo 1861).

 

Rendere parzialmente elettivo il Senato per rivitalizzarlo?

Ancor prima di essere nominato presidente del Consiglio Camillo Cavour aveva auspicato che il Senato divenisse almeno parzialmente elettivo, proprio per levargli di dosso la patina di accolta di “camelots du Roi”. Però la svolta sanguigna assunta dalla Rivoluzione in Francia e la chiassosa inconcludenza della Camera dei deputati presto lo convinsero che non era prudente insistere su propositi innovatori proprio mentre occorreva far quadrato attorno alla Corona. La sconfitta militare a Novara, l’abdicazione di Carlo Alberto, il proclama di Moncalieri, il conflitto con gli ecclesiastici fecero il resto anche se proprio in Senato il programma di modernizzazione di Azeglio e di Cavour incontrò resistenze accentuate e se Vittorio Emanuele II tentò di sostituire il primo ministro con il presidente della Prima Camera, il sardo Giuseppe Manno.

Nel 1852 il barone Domenico Carutti di Cantogno (1821-1909, nominato senatore nel 1889) osservò che il Senato doveva rappresentare “specialmente lo spirito di conservazione”, ma rilevò che “la facoltà della Corona, assoggettando soverchiamente la podestà esecutiva, diminui(va) la considerazione e la corsa dell’intera assemblea, qualunque sia l’autorità personale dei singoli suoi membri. Tale sistema impertanto o presto o poi dovrà cedere il luogo alla elezione, verso la quale inclinano sensibilmente le società moderne”. La sua opinione non nasceva solo dal fatto che tanti suoi sodali erano stati nominati senatori ma lui no.

A chiedere che il Senato venisse abolito rimasero i sempre più rari nostalgici della Convenzione repubblicana francese del 1792, l’assemblea che dapprima votò il regicidio e poi fu teatro dell’aggressione al suo tiranno Massimiliano Robespierre e segnò il passaggio dal Terrore al Termidoro. Più ampio e articolato rimase il ventaglio di quanti insistevano per l’elettività almeno parziale della Camera Alta. Argomentato e tenace fu il siciliano Francesco Crispi. Le vicende del Regno però rimasero troppo incalzanti perché si potessero modificare a cuor leggero natura e funzioni di un pilastro portante dello Stato qual era il Senato. La spedizione garibaldina per “Roma o morte”, intrecciata al brigantaggio infestante le regioni che essa avrebbe dovuto attraversare, il trasferimento della capitale a Firenze, abbrunato dalla sanguinosa repressione della protesta torinese, la guerra del 1866 e la rivolta repubblicana di Palermo, la sfortunata campagna garibaldina nell'Agro Romano spenta a Mentana nel novembre 1867, le insorgenze contro la tassa sulla macinazione delle farine, indispensabile per avviare al pareggio il bilancio d'esercizio, l'annessione di Roma e una geremiade di guai, compresa la devastante epidemie di colera del 1867 e da un canto indussero a lasciare lo Statuto qual era, dall’altro spinsero molti esponenti della Sinistra ad accostarsi alla Corona nella forma più esplicita: l'ingresso nella Camera Alta.

Il 23 marzo 1876 Vittorio Emanuele II nominò senatore Isacco Artom (Asti, 1829-1900). Ebreo osservante, come Costantino Nigra “apprendista diplomatico” a fianco di Cavour, all'avvento della Sinistra (18 marzo) fu rimosso da segretario generale del ministero degli Affari Esteri e subito risarcito con l'inclusione tra gli “uomini del re”. Nel triennio seguente il Senato fu approdo di altri esponenti della Destra, preziosi per la continuità delle istituzioni nel cambio tra le due maggioranze, e di rappresentanti della Sinistra, a conferma che, al di sopra dei rispettivi retaggi, vi erano le “fortune indivisibili” dell’Italia e di Casa Savoia, come si sentiva ripetere nei banchetti politici e nelle rievocazioni patriottiche.

Era davvero difficile pensare che un italiano famoso per merito non fosse anche senatore, posto che non preferisse essere eletto alla Camera dei deputati. Qualcosa però appunto mancava alla Camera Alta: il conforto esplicito della “volontà della nazione”. Si vedrà se e come venne rimediato.

Aldo A. Mola

Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re di Sardegna. Busto in marmo. Un tempo orgoglio del Palazzo civico di Saluzzo, da lui donato al Comune.

Tra i primi 58 patres nominati da Carlo Alberto il 3 aprile 1848 per costituire il Senato del regno di Sardegna spiccano Cesare Alfieri di Sostegno, Gaspare Coller, nominato presidente del consesso, Alessandro e Annibale di Saluzzo, Alberto Ferrero della Marmora, Carlo Ignazio Giulio, Giuseppe Manno, Giovanni Nigra, Emanuele Pes di Villamarina, Luigi e Giacinto Provana di Collegno, Vittorio Amedeo Sallier de la Tour, Lodovico Sauli d'Igliano, Roberto Tapparelli d'Azeglio, Girolamo Tornielli, Cesare Trabucco di Castagnetto. Con decreti successivi nominò senatori, fra altri, Ettore Gerbaix de Sonnaz, l'arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana, Agostino Chiodo, Ferdinando Prat, Luigi Cibrario, Gabriele De Launay e don Ferrante Aporti.

Nei primi tempi di regno Vittorio Emanuele II creò senatori Luigi Des Ambrois de Nevache, Federigo Sclopis, l'archiatra Alessandro Riberi (al quale, spirando, il garbatissimo Carlo Alberto disse “Vi voglio bene, Riberi; ma muoio”), Luigi Provana del Sabbione, Cesare Della Chiesa di Benevello, Ferdinando Arborio Gattinara di Breme e Giuseppe Siccardi, che legò il nome all'abolizione di privilegi ecclesiastici.

Per una rassega delle costituzioni vigenti in Italia dal Settecento a oggi v. “Le Costituzioni italiane” a cura di A. Aquarone, M. D'Addio e G. Negri, Milano, Comunità, 1958, ricalcato in parte da “Le Costituzioni Italiane, 1786-1948” a cura di E. Fimiani e M. Togna, con prefazione di Maria Elena Boschi e prefazione di Giovanni Legnini, L’Aquila, Textus, 2015.

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Articolo pubblicato il 05/02/2023