Il partito dello Stato
uigi Girolamo Pelloux (La Roche en Savoie, 1839-Bordighera, 1924)

I Senatori del Regno, non eletti ma votati (di Aldo A. Mola)

La Costituzione è “rigida”? Allora va ripensata

I costituzionalisti insegnano che lo Statuto Albertino del 1848 era flessibile mentre la Costituzione della Repubblica è rigida. Ma non è affatto immutabile. Quando lo ha voluto, il legislatore l'ha modificata, talvolta in modo opportunistico e maldestro. L'intero Titolo V (Regioni, province, comuni) è stato messo a soqquadro da una maggioranza risicata. Fatto il danno, diviene difficile riparare. Vittime illustri delle Camere sono stati gli articoli 56 e 57 della Carta, con il drastico “taglio” di deputati e senatori, senza significativo risparmio per lo Stato né miglioramento apprezzabile della qualità dei “rappresentati della Nazione”. Mentre occorre la diversificazione di formazione e competenze delle due Camere, il Parlamento ha conferito l'elezione del Senato ai diciottenni (qualcuno proponeva i sedicenni) nella fatua illusione di ampliare la partecipazione al voto. E allora? L'astensione aumenta sia nelle “amministrative”, sia nelle “politiche”. Le “verità” sono “scomode”, ma vanno dette. La Carta vigente fu pensata e approvata con l'occhio rivolto a un passato che nel gennaio 1948 era già remoto. Quando già esisteva l'ONU e, a fronte della “guerra fredda”, l'Italia stava per aderire alla Nato (1949), la Costituzione non affrontò il “problema dei problemi” di uno Stato sia pure a sovranità limitata, cioè la politica estera, fugacemente accennata nell'articolo 11 (“L'Italia ripudia la guerra...”), destinato a rimanere una petizione di principio. Perciò, al netto di elogi d'occasione, bisogna prendere che venne scritta mentre incombeva l'imposizione del punitivo “Trattato di pace”, quando non esisteva neppure l'ombra dell'Unione Europea, del G7, del G20 e dei rapporti globali odierni economici e, purtroppo, militari. In quel “mondo” Africa e Asia erano ancora “colonie”. La Carta va “ripensata” nel suo insieme. Il “corpo” dello Stato d'Italia è cresciuto. Per dargli una veste istituzionale non bastano “rattoppi” occasionali. Come da decenni si ripete, occorre una stagione costituente.

Analogo interrogativo si pose sul finire dell'Ottocento a proposito del Senato del regno.

 

Una Camera “ringiovanita”. Un Senato immobile

Il 29 giugno 1881 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta dalla “Sinistra storica” guidata da Agostino Depretis. Il diritto di voto fu conferito ai maschi che sapessero leggere e pagassero 19,80 lire di imposte dirette, una somma modesta. Gli elettori crebbero da seicentomila 600.000 a poco più di due milioni, il 20 per cento dei maschi ventunenni. Nel maggio 1882 fu introdotto lo scrutinio di lista in collegi circoscrizionali, per garantire l'elezione di candidati di minoranza: un sistema arzigogolato. Nel 1892 si tornò al collegio uninominale, ancor oggi rimpianto, nel quale l'elettore può essere ingannato una volta sola e diffida di candidati paracadutati “dall'alto”. Secondo Giuseppe Galasso, storico sommo, nel 1882 vennero eletti deputati competenti e assidui ai lavori.

Risultò quindi urgente “ammodernare” anche il Senato, che era di nomina regia e vitalizio. Ma come? A intuire che la sua immobilità poteva essere pericolosa per il futuro delle istituzioni fu  Ruggiero Bonghi (Napoli, 1826-Torre de Greco, 1895), deputato dal 1860, già ministro della Pubblica istruzione. Nel 1884 denunziò nella “Nuova Antologia” il decadimento del “regime parlamentare”: “L’uno o l’altro partito diventa governo. Ebbene, quantunque il partito che occupa il governo abbia una maggioranza in suo sostegno, non è punto certo che la rappresenti, anzi è assai probabile, e in più casi è più che probabile, che non la rappresenti. Se è così, che cosa resta di rappresentativo al regime parlamentare? Gli eletti non rappresentano i collegi; i partiti dividono la Camera, nessun d’essi la rappresenta, non che tutta, neanche in maggioranza. Non v’ha dubbio, il regime parlamentare si è sviluppato dal rappresentativo; ma è un figliuolo che ha soffocato il padre. Quando io penso al regime stesso, così come vige tuttora, mi ricorre a mente quel verso - cattivo, sì, ma non peggio di quanto va diventando la cosa -: Questi è un uomo che morra.”

Lo pensava anche Marco Minghetti, ultimo presidente del Consiglio della “Destra storica” (1873-1876). “Per mio avviso”, questi scrisse nel subito celebre saggio su “L'ingerenza dei partiti nella pubblica amministrazione”, “la Corona deve accuratamente serbare le prerogative che le accorda lo Statuto e mai lasciare che altri le usurpi, imperocché quelle prerogative, ben usate sia nella scelta di ministri sia negli scioglimenti della Camera, possono in talune circostanze salvare il Paese.” Tra di esse spiccava la scelta dei senatori, che non poteva essere lasciata in balìa del presidente del Consiglio di turno, come Depretis, giunto a farne nominare 220 in otto anni e nove mesi di governo. Riempiendo il Senato di ex deputati ligi al governo impoveriva la dignità della nomina regia, spogliava la Camera Alta della sua superiore indipendenza dalle passioni partitiche contingenti e recideva alla radice il suo requisito di Istituto super partes.

Decenni prima, nel saggio sulla Monarchia rappresentativa in Italia Cesare Balbo aveva configurato il Senato quale vera e propria élite. “Soffiando su tutta Europa continentale il vento democratico del Quarantotto, tutti gli statuti italiani dati al principio di quell’anno fecero senati non ereditari ma a vita. Se invece di gennaio, febbraio e marzo, fossero nati nei mesi successivi, è poco dubbio che non sarebbero rimaste nemmeno quelle due ultime reliquie aristocratiche dell’elezione dei senatori fatti a vita e da principi: ché i senatori si sarebbero fatti eleggere a tempo dal popolo. Un senato per rimaner senato, per fare effetto diverso in qualche parte dalla Camera dei deputati, debb’essere diverso da questa, diverso nella durata e nell’elezione. Se vogliamo istituzioni repubblicane, facciamo una repubblica; ma se vogliamo monarchia, facciamo istituzioni monarchiche; verità sempre da per tutto; in tutto verità.”

Determinante per la continuità del Senato fu il passaggio di Francesco Crispi dai fautori dell’elettività di entrambe le Camere (propugnata dal cattolico Fedele Lampertico e, ai suoi esordi, da Domenico Farini, componente del Consiglio dell'Ordine del Grande Oriente d'Italia) a quella della esclusiva nomina regia dei patres conscripti. Ebbe il conforto dalle amare riflessioni di Gaetano Mosca sulla nuova classe dirigente: “Il tempo farebbe pure dimenticare la prima origine impura di molte fortune e molte influenze; ai figli nati in elevata fortuna sarebbero risparmiate le bassezze e le contraddizioni che, per arrivarvi, furono necessarie ai padri...”. 

Materia prima della “teoria delle élites” elaborata da Mosca fu proprio il Senato del Regno.

Per una fortunata congiunzione astrale tra calcoli di potere e invenzioni della “buona stella” che costituiscono caratteristica della storia d’Italia, a conferma dell’eterogenesi dei fini anche nella vita politica, proprio Crispi e il suo emulo Giolitti di infornata in infornata gonfiarono a dismisura il corpo del Senato ma al tempo stesso ne serbarono elevato il rango, riscattandosi dall’insinuazione che la quantità dovesse necessariamente comportare lo scadimento della qualità. Ogni nuovo senatore recò alla Camera Alta un capitolo della storia d’Italia, che affondava radici nelle cospirazioni liberali e nelle patrie battaglie del Risorgimento.

In quegli anni entrarono in Senato Giosue Carducci, maestro e vate della Nuova Italia e Costantino Nigra, decano della diplomazia. Sarebbe stato umiliante che per concorrere alla vita parlamentare italiana quelle personalità dovessero assoggettarsi a notabili locali, talora più forti persino del potere corruttivo di prefetti e viceprefetti, come narrò Amedeo Nasalli Rocca nelle sue gustosissime Memorie di un prefetto. Accadeva, per esempio, che, non essendo riuscito a convincere gli elettori a votare per il candidato che gli era stato raccomandato, il sindaco di un piccolo borgo scolasse da solo tutto il vino acquistato coi fondi neri governativi per propiziarne il successo e venisse rinvenuto ubriaco in un fosso: sconfitto, alle urne e senza speranza di essere premiato con l’ambita croce di cavaliere.

Nominato presidente del Consiglio, Giolitti camminò nel solco tracciato da Depretis e Crispi. Nelle due infornate del 10 ottobre e 21 novembre 1892, prima e dopo il rinnovo della Camera, tra parecchi patres di fama non imperitura inserì quanti bastavano a conservare lustro alla nomina regia e vitalizia.

Nel 1892 il Senato riservò a Giolitti un’accoglienza gelida. Il suo governo contava un solo pater, il savoiardo ammiraglio Antonio Pacoret de Saint-Bon, che morì pochi mesi dopo la nomina. Un affronto alla Camera Alta? Il precedente ministero, però, presieduto da Antonio di Rudinì, ne aveva avuti appena due. La ragione era dunque altra. In Giolitti la Camera Alta intravvide chi avrebbe chiesto ai patres che non si contentassero del laticlavio come fosse una onorificenza, ma concorressero con maggiore partecipazione al grigio travaglio di elaborazione delle leggi. Alla proclamazione del Regno, nel 1861, i senatori erano 211. Dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze risultavano 276. Divennero 308 con l’annessione di Roma. Nel passaggio dalla Destra alla Sinistra (marzo 1876) se ne contavano 328. Depretis li portò a una media di circa 330 durante il suo decennio di governo. Crispi li fece balzare a 411 nel 1890 e a 416 nel 1891. Giolitti, fece di più. Li accrebbe a 464. Poche decine meno dei 508 deputati. Come prevedibile, venne chiamato a darne conto in Assemblea. Andrea Guarneri lo accusò di mettere a repentaglio l’intero edificio “alla cui sommità v’ha, o signori, la Maestà del Trono di Italia”. Come al solito, Giolitti eluse le questioni di principio, terreno lubrico d’interminabili dispute bizantine, e andò al punto che gli premeva. Da anni la Camera Alta faceva registrare un grave e non edificante assenteismo. Nelle due votazioni più importanti della precedente legislatura (1890-1892), sull'abolizione dello scrutinio di lista e ritorno al collegio uninominale e sull’esercizio provvisorio del bilancio per sei mesi, dei 375 senatori in carica in aula se ne contarono appena 83 per la prima legge e 116 per la seconda. Quello fu anche il numero di presenze più elevato fatto registrare dai patres nell’arco dell’intera legislatura: meno di un terzo dei componenti. Non era dunque il governo a mancare di rispetto al Senato immettendovi energie nuove, in gran parte provenienti dalla Camera e quindi aduse alla dialettica parlamentare. Erano i senatori, a volte presuntuosi e assenteisti, ad aver trascurato il loro dovere. La Camera Alta non era un’Assemblea di congerrones, cioè di compagnoni, come avrebbe lamentato a suo tempo Marco Tullio Cicerone, che in Aula si trovavano di quando in quando quasi per divertimento. Il Senato del Regno era la Prima Camera. Tenuta, come l’antica, a far sì che sempre si dicesse “Senatus populusque romanus” e mai “Populus et senatus”. La differenza non era poca. Il Senato doveva comprovare con la propria condotta che il re tale era “per grazia di Dio” prima che “per volontà della nazione”. Giolitti era conscio che non tutte le assenze potevano essere addebitate a negligenza, giacché molti senatori erano anziani, cagionevoli di salute, residenti in lande remote dalla capitale, difficile da raggiungere per chi abitava nelle grandi isole o nelle province periferiche del Regno. Ammise che gli ex deputati costituivano il gruppo più numeroso dei nuovi senatori. Ma se il Senato voleva non solo una “vetrina” di celebrità ma un'assemblea politica, poiché non ci si poteva attendere partecipazione assidua di diplomatici, militari, magistrati, scienziati, cattedratici e accademici in missione e dediti alle loro discipline, era bene che la Camera Alta venisse rinvigorita con ex deputati, molti dei quali avevano titoli anche per altre categorie.

 

Come veniva preparata una “infornata”?

In pagine scritte col pennino intinto nell’amaro inchiostro di chi temeva l'avvento dei clericali, nel Diario di fine secolo Domenico Farini lasciò resoconto minuzioso di come fossero decisi i laticlavi da proporre al Re, Umberto I. Narrò il colloquio avuto all'Hotel “Suisse” di Torino con il presidente del Consiglio generale Luigi Pelloux. Scorrendo le liste trasmessegli dal precedente presidente del Consiglio e quelle da più parti pervenute i due passarono in rassegna vizi e virtù degli aspiranti senatori. Poiché la Camera Alta contava un solo ammiraglio, che a detta del ministro Benedetto Brin non sapeva né leggere né scrivere, s’imbatterono nella candidatura di un suo pari grado che secondo il re era “un grande intrigante”. A Pelloux risultava anzi che mentre era imbarcato sul “Colombo” aveva persino rubato. Occorreva bilanciare nomi di sinistra con altri di destra. I due si scambiarono battute feroci. Miceli era “un rammollito”. La candidatura dell’ex deputato di Milano Luigi Rossi pareva sostenuta dalla duchessa Litta (vale a dire dal re, di cui era notoriamente intrinseca) benché fosse mezzo radicale, mezzo socialista, dotato di ingegno e cultura e quindi “un uomo che può riuscire in Assemblea molesto”. Ulderico Levi, in aggiunta a Ugo Pisa, avrebbe portato gl’israeliti a due su trenta in una sola tornata. Troppi. “E di Parpaglia che dici?” domandò Pelloux. Farini di rimando: “mi pare una brava persona, ma bada, in Sardegna che ora ha un solo senatore, vi ha un vecchio parlamentare che non si può trascurare: il Salaris”. Pelloux replicò: “Sì... il Salaris... ma è vecchio e non verrà mai. Parpaglia è ottimo”. Farini: “Ma Salaris, ufficiale fino dal 1848 nei cacciatori sardi, è un liberale, ha undici legislature”. “E del Piaggio, ex deputato, che diresti?” domandò Pelloux. Rispose Farini: “Non credo si debba nominare chi è direttore d’una società come quella di navigazione, tanto legata al Governo”. Pelloux: “Così pare anche a me. Ma dicono che il Piaggio è amministratore delegato e non direttore generale... ”. “Questa è ipocrisia da curiali, quasi che il titolo muti la sostanza...”. Infine i due concordarono nel deplorare “il pettegolezzo giornalistico intorno alle nomine senatorie, le autocandidature, le sfacciate pretese, le impudenze inaudite”. A un certo punto Pelloux esclamò che “in mezzo a tanto putiferio, il meglio sarebbe di non far nulla di nulla”. Fu incoraggiato da Farini che gli osservò come i patres già fossero 326, oltre a tre che ancora non avevano prestato giuramento e a cinque principi del sangue, uno dei quali gli era inviso per legami con gli Orléans. Era il 13 ottobre 1898.

Il 17 novembre avvenne l’infornata di trenta senatori, aperta proprio dall’uomo del “Colombo”. Comprese Giuseppe Carle, Antonio Cefaly, diadoco di Giolitti nel Mezzogiorno e massone, il garibaldino Abele Damiani, che Pelloux aveva detto a Farini di non volere “assolutamente”, i due ebrei Ulderico Levi e Ugo Pisa, Luigi Miceli, Salvatore Parpaglia (ma non Salaris), Erasmo Piaggio e il giolittiano e proprietario della “Stampa” di Torino, Luigi Roux, perché in fondo, pettegolezzi per pettegolezzi, era bene avere amico almeno uno dei giornali più influenti.

 

Malgrado tutto...

Il Senato mostrò di essere il luogo istituzionale più propizio per lanciare messaggi politici a futura memoria, come il conferimento dei collari della SS. Annunziata a sovrani, presidenti di repubbliche e principi esteri lo era per le linee che lo Stato si apprestava a percorrere nelle relazioni internazionali. Se n’ebbe la conferma il 14 giugno 1900. Nel 1870, l’anno di Porta Pia, alla Camera Alta venne chiamato il laniere di Schio Alessandro Rossi, clericale e massonofago. Nell’anno del Giubileo il laticlavio fu conferito ad Antonio Fogazzaro, il più prestigioso scrittore cattolico italiano tra Otto e Novecento, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura come documentato da Enrico Tiozzo. La Corona non precludeva l'Aula senatoria ai talenti acclarati e non badava alle contese in corso tra clericali e anticlericali. Lo scrittore era “un nome”.

Va ricordato infine che l’ingresso in Senato non comportava alcuna remunerazione e neppure alcuna “quota” da parte dei suoi componenti: una un “patto” alla pari tra Monarchia e Patres, come spiegò Luigi Einaudi, monarchico e liberale “a schiena dritta”.

Il regio Senato, in sintesi, era e rimase un “élite”, con tutte le contraddizioni interne del nome, che indica una classe dirigente esistente “di per sé, non “eletta” (élite derivi da eligere) e tuttavia “votata”: non dal suffragio popolare, però, ma dalla propria vocazione. Un groviglio che merita un'apposita trattazione.

Aldo A. Mola

 

Luigi Girolamo Pelloux (La Roche en Savoie, 1839-Bordighera, 1924).

Figlio di un medico eletto al Parlamento subalpino (1857-1860), allievo dell'Accademia militare di Torino, alla cessione della Savoia alla Francia (1869) optò per la cittadinanza italiana, come già aveva fatto suo fratello Leone nel 1860. Comandò l'artiglieria che il 20 settembre 1870 aprì la breccia a Porta Pia. Eletto deputato a Livorno nel 1881 e confermato alla Camera sino al 1892, ministro della guerra nei governi Rudinì, Giolitti e ancora Rudinì (1891-1896), fu presidente del Consiglio nel 1898-1900. Lasciato il servizio militare (1902) si stabilì a Bordighera, ove morì. Venne nominato senatore nel 1896, come suo fratello. Lo storico Oreste Bovio, autore di “Pagine di storia” (Chiaramonte Ed., 2023), in “Sacerdoti di Marte” (Ed. Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito) ha giustamente scritto che “La patente di reazionario che ancora oggi alcuni studiosi attribuiscono a Pelloux è del tutto ingiustificata”. Ma i “luoghi comuni” e i “manuali” scolastici sono rigidi: “rigor mortis”.

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Articolo pubblicato il 12/02/2023