La chiesa di Santa Giulia, nel quartiere Vanchiglia, a Torino
Chiesa di Santa Giulia (1880)

Dove la Marchesa di Barolo e don Giovanni Cocchi hanno lasciato segni di carità

Via Santa Giulia, nel quartiere Vanchiglia di Torino, è una strada assai lunga, che inizia da corso San Maurizio e si conclude sul fiume, all’angolo con Lungopo Machiavelli. Un inizio aulico, di fronte ai Giardini Reali, e una conclusione signorile, tra palazzi riservati e di altissimo pregio e valore commerciale. In mezzo, tanta vita e storia del quartiere Vanchiglia.

Oggi, all’incrocio con via degli Artisti, sorge la chiesa parrocchiale di Santa Giulia (1), in stile neogotico, costruita grazie all’intervento della Marchesa Giulia Colbert de Maleuvrier, sposata Falletti di Barolo (1786 – 1864). Vicenda urbanistica, architettonica e opera sociale devono essere lette congiuntamente, per la comprensione della chiesa di cui parleremo. La sua nascita risulta alquanto travagliata.

La zona su cui sorge la chiesa è esterna alla cinta muraria che circonda Torino sino alla metà del XIX secolo quando, per la necessità di ampliamento del perimetro urbano, viene approvato il piano d'ampliamento in Vanchiglia (1852). Già dal 1844 la Società Anonima Costruttori in Vanchiglia, capeggiata da Alessandro Antonelli, aveva dato inizio a un’operazione di lottizzazione che intendeva riorganizzare e riqualificare economicamente l'intera area. Il quartiere è acquitrinoso per la vicinanza a due fiumi, Po e Dora Riparia; è insalubre a causa della presenza di alcune fogne a cielo aperto; è densamente popolato da poveri e malviventi provenienti dal vicino borgo del Moschino (2); in buona sostanza, pescatori e lavandaie di giorno, ladri e contrabbandieri e prostitute di notte. Sono questi alcuni dei motivi che rallentano il processo di urbanizzazione, attraverso un continuo altalenarsi di proposte da parte della citata Società Costruttori e del Comune. Sarà quest’ultimo a dare le coordinate dello sviluppo edilizio della zona. Negli stessi anni si rende evidente la necessità di costruirvi una chiesa; l'intera zona gravita infatti sulla chiesa della SS. Annunziata, in via Po, che ha difficoltà a gestire una parte di città così ampia e problematica. I primi progetti per un edificio religioso sono a opera di Alessandro Antonelli, ma la carenza di fondi non ne permette la realizzazione.

Si deve attendere il 1855 perché si costituisca un comitato promotore per la raccolta dei fondi. Nonostante il contributo degli abitanti e del Re Carlo Alberto (1798-1849), anche questo progetto non decolla. Nel 1863 la Marchesa di Barolo offre il suo aiuto finanziario per la costruzione della nuova chiesa, chiedendone la dedicazione a santa Giulia e affidando il progetto a un giovane architetto, Giovan Battista Ferrante (1834 – 1913).

La Marchesa, nota nel quartiere per l’attività filantropica che pratica in città, è uno dei personaggi più interessanti della Torino preunitaria: se il suo salotto è frequentato dall'élite della Torino liberale, lei non perde occasione per estrinsecare la sua fede cattolica e la sua carità cristiana. Alla Marchesa e al marito Tancredi Falletti di Barolo si devono l'inizio della riforma delle carceri (con l'introduzione in queste di istruzione, catechismo, lavoro e solidarietà), la creazione di scuole ed istituti religiosi per l'educazione e la correzione dei poveri (le Maddalenine) e delle ragazze della borghesia (l'Istituto delle Suore di S. Anna).

La cospicua offerta della benefattrice per il nuovo edificio di culto (mezzo milione di lire) viene da lei vincolata a precise condizioni: che la chiesa si intitoli a Santa Giulia; che il disegno per un tempio in stile gotico a tre navate venisse affidato al citato ingegnere Giovanni Battista Ferrante; che il comitato di Vanchiglia e il municipio di Torino concorrano per una somma non inferiore a 50 mila lire ciascuno.

La prima pietra venne posta il 22 maggio 1863, festa di Santa Giulia. La nobildonna non potrà vedere la conclusione dell’opera: si spegne il 19 gennaio 1864, sarà il suo lascito testamentario a far sì che la chiesa venga compiuta; verrà aperta al culto il 23 giugno 1866. La salma della Marchesa, dal cimitero monumentale di Torino, è traslata a Santa Giulia il 19 gennaio 1899. Le spoglie del marito, Carlo Tancredi Falletti di Barolo, giungeranno in questa chiesa nel 2013. Due anni dopo la Marchesa viene dichiarata Beata.

E don Cocchi? Cosa c’entra con tutto questo? Don Eugenio Reffo (3) scrive di lui: “Tenne, per quanto gli fu dato, la maggior parte delle sue azioni e tutte le sue virtù gelosamente nascoste agli occhi degli uomini, solo contento di essere conosciuto da Dio”.

Giovanni Cocchi nasce a Druento, figlio di contadini, il 2 luglio 1813. Maturata la vocazione religiosa, diventa sacerdote, nel 1837 è viceparroco alla citata Annunziata di Torino, coadiutore di don Luigi Fantini. Il famigerato Moschino è nella loro giurisdizione, a qualche centinaio di metri dalla chiesa. Colpito da tanta povertà, è in quello spicchio urbano senza regole che nel 1840 don Cocchi apre il primo Oratorio torinese, nei pressi di un’osteria, nella casa Ballesio, per i giovani e i bambini; lo pone sotto la protezione dell’Angelo Custode, e questo sarà il suo nome. Quei ragazzi erano in gran parte immigrati, provenienti da campagne e vallate e non frequentavano la chiesa. Nel 1841 vi costruisce accanto un ricovero con sedici letti e un ritiro per orfane (che non avranno vita lunga). Nel 1847 sposta in Borgo Vanchiglia il primitivo Oratorio, presso una tettoia in cui sistema come può anche una cappella. Le attività erano festive e pensate per gli adolescenti: dopo la Messa e il catechismo, iniziavano i giochi e gli esercizi di ginnastica. L’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni (4), il 4 aprile 1847 approva il regolamento provvisorio che don Cocchi aveva predisposto, mentre nel mese di ottobre il parroco dell’Annunziata visita e benedice la cappella. Don Cocchi ha l’intuizione di far praticare la ginnastica ai suoi ragazzi, a quel tempo inusuale, per un loro più armonioso sviluppo fisico. In breve tempo, nasce il nome di “gioco del salto”, il passaparola fra i giovani diceva “andiamo ai salti di don Cocchi”.

Quando don Bosco, nel 1844, fonda il suo primo Oratorio (sotto la protezione di San Francesco di Sales), in città i giovani si dividono fra “ragazzi di don Bosco” e “ragazzi di don Cocchi”.

Ecco come il quartiere Vanchiglia ha calamitato le attenzioni di due grandi figure del bene: la Marchesa di Barolo e don Giovanni Cocchi (fondatore, fra tanto altro, del Collegio degli Artigianelli in Torino). La prima è giustamente ricordata sugli altari e con gli onori della storia; il secondo è meritevole di una ampia riscoperta.

Note

(1) Santa Giulia, vergine e martire cartaginese del V secolo, morta in Corsica, alla quale la Marchesa era devota (anche in onore al suo nome di battesimo).

(2) Il Moschino era costituito da un gruppo di casette fatiscenti abitato da poveri, lavoratori (per lo più lavandai e barcaioli per i quali era necessario abitare a ridosso del fiume) e soggetti emarginati, demolito al fine di eliminare una delle principali cause dell’insalubrità cittadina, lasciando posto al prolungamento dei Murazzi e all’apertura dell’attuale via Napione. Solcato da una via maestra nota con il nome di ‘contrà ‘d le pules’ (contrada delle pulci), questo insieme di costruzioni degradate primeggiava fra le cause che rendevano insalubre la zona di Vanchiglia. A disporre l’abbattimento del Moschino, nel 1872, sarà il Consiglio Comunale presieduto dal sindaco Felice Rignon (1829-1914).

(3) Don Eugenio Reffo (Torino, 2 gennaio 1843 – Torino, 9 maggio 1925). Collaboratore di San Leonardo Murialdo, fratello del pittore di arte sacra Enrico Reffo. Con Murialdo e con altre tre persone dà inizio alla Congregazione di San Giuseppe (poi detti Giuseppini del Murialdo).

(4) Luigi Fransoni (Genova, 29 marzo 1789 – Lione, 26 marzo 1862). Arcivescovo di Torino, contro le Leggi Siccardi diventa il capofila dei vescovi intransigenti piemontesi nel Regno di Sardegna. Per questo motivo viene rinchiuso nelle prigioni del forte di Fenestrelle e poi tradotto in esilio a Lione, dove morirà. Fedele ai suoi principii, rifiuta di rinunciare alla sua sede episcopale torinese.

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Articolo pubblicato il 03/03/2023