De Gasperi l'Onnipotente
Alcide De Gasperi (Ritratto di Attilio Melo, 1954)

Di Aldo A. Mola

Dall'età monarchica alla Repubblica

Non vi sono sondaggi recenti su chi sia stato l'uomo più “potente” in Italia dall'Unità a oggi. Possiamo però immaginare le risposte. Probabilmente a nessuno vengono in mente i nomi dei re. Sovrano di un'Italia ancora tutta da fare, Vittorio Emanuele II ebbe un sacco di guai con ministri taccagni, corrivi a ridurne la “lista civile”, cioè gli spiccioli a disposizione di chi aveva fatto l'Italia. Lo stesso accadde per Umberto II e Vittorio Emanuele III. In tutti i momenti critici anche quest'ultimo, talora a torto dipinto come reazionario, non decise mai la formazione di un governo se non dopo aver consultato i presidenti delle Camere e i maggiorenti dei partiti. Anche meno imperioso fu Umberto II. Rispettosissimo dello statuto, da Luogotenente del regno (5 giugno 1944-9 maggio 1946) il Principe di Piemonte rimase impigliato nella rete del Comitato centrale di liberazione nazionale, che gli impose la firma di decreti i cui contenuti e i cui obiettivi non condivideva affatto. Ma non aveva alternative. Può sembrare allora scontato concludere che l'uomo più “potente” sia stato Benito Mussolini, mascella volitiva, pupille mobili e minacciose e gesto marziale sino alla parodia di se stesso. Quando il 30 ottobre 1922 egli fu incaricato di formare il governo di coalizione costituzionale un quotidiano di provincia lo salutò “Erculeo scopatore”, non per involontario accenno a sue “intemperanze” ma auspicando che spazzasse via la putredine dei partiti borghesi: un progetto che accomunava fascisti, estrema sinistra, nonché partiti e correnti anti-sistema, come i repubblicani e clericali anti-sabaudi perché anti-unitari. Però, come sappiamo, allo scoccare dell'ora fatale, il 25 luglio 1943 a Vittorio Emanuele III bastarono venti minuti per revocarlo da primo ministro e sostituirlo con Pietro Badoglio.

Nelle prime settimane il maresciallo d'Italia e duca di Addis Abeba apparentemente governò con pugno di ferro. Da un canto si concesse anche alcuni eccessi, dall'altro si mosse a passi felpati su terreni più impervi. Non esitò a sciogliere il Partito nazionale fascista, il Gran consiglio, popolato da gerarchi per i quali provava ricambiata antipatia, e persino la Camera dei fasci e delle corporazioni: un azzardo statutariamente sconsiderato, perché paralizzò il Senato, di cui era componente, ma poco assiduo anche per via dei suoi impegni diplomatici e militari. Lasciò invece qual era la Milizia volontaria di sicurezza nazionale. Si limitò a cambiarne i vertici e a imporre che sostituissero i fasci con le stellette del regio esercito. D'altronde nei giorni fatidici essa non aveva mosso paglia in difesa del “duce”. Non che la Milizia fosse un puro e semplice “dopolavoro partitico”, però poteva impensierire. Il suo scioglimento fu decretato nel dicembre 1943, quando era in corso la riorganizzazione delle regie forze armate e quindi, se anche gli anglo-americani non avessero insistito per fare chiarezza, la sua sopravvivenza risultava ormai inammissibile. Poteva costituire, o almeno sembrare, una sorta di potenziale quinta colonna del neonato Partito fascista repubblicano. Tanto più che il 27 ottobre 1943 in veste di Capo dello Stato nazionale repubblicano (una delle tante denominazioni che precorsero la Repubblica sociale italiana) Mussolini aveva decretato lo scioglimento delle Forze armate regie e la costituzione di quelle repubblicane.

La fantasiosa caccia all'uomo più potente nella storia d'Italia può quindi spingersi a passare rassegna i presidenti del Consiglio e/o segretari dei partiti susseguitisi al governo dopo l'avvento della repubblica, sino, per esempio ad Aldo Moro (ma sappiamo quale fu la sua tragica fine), Giulio Andreotti (che però subì un processo devastante e mancò l'elezione al Quirinale, considerata naturale approdo di una lunga e prestigiosa carriera) e Bettino Craxi, che morì esule ad Hammamet... Di quelli seguenti sono note ascesa e caduta, fortune e sventure, quasi la mitologica “invidia degli dèi” si accanisca sui vertici del governo italiano senza distinzione tra “politici” e “tecnici” incaricati di reggere la barra del governo in mari sempre più tempestosi: da Lamberto Dini a Mario Monti e Mario Draghi. A lungo venerato quale salvatore della patria, contro tutte le più scontate previsioni anche “SuperMario” si vide sbarrata l'elezione alla presidenza della Repubblica e, dopo aver condotto al voto un Paese litigioso, è divenuto bersaglio della peggiore tra le critiche possibili: il silenzio.

 

De Gasperi: il borghese Onnipotente assoluto

Eppure l'Italia ebbe per qualche settimana al vertice un Onnipotente assoluto: Alcide Degasperi o, come nell'uso prevalente, De Gasperi (Pieve Tesino, Trento, 3 aprile 1881-Sella di Valsugana, Borgo Valsugana, 19 agosto 1954). Il  suo “caso” fu talmente anomalo che di rado viene evocato, quasi un brutto ricordo, un precedente scomodo. Anche chi scrive scordò di menzionarlo nel novero dei presidenti della Repubblica, scritto a commento del libro di Tito Lucrezio Rizzo su “I Capi dello Stato dalla monarchia alla repubblica, 1848-1922 (ed. Herald).

Non solo per ammenda, merita ricordare come il tutto accadde nei giorni convulsi seguiti al referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946.

In un articolo pubblicato nel glorioso mensile fiorentino “Il Ponte” ne scrisse Mario Bracci, uno dei protagonisti di quei giorni:“Storia di una settimana, 7-12 giugno 1946”. Giurista di valore, militante del Partito d'azione Bracci vergò di suo pugno la bozza di una legge di due soli articoli per segnare la svolta: “art. 1: Dalle ore 0 del giorno 11 giugno le funzioni (cancellato: i poteri) del Capo dello Stato sono (cancellato: saranno) esercitati dall'on. Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio in carica nel giorno (cancellato: il gior) delle elezioni 2 giu. 1946; art. 2: L'esercizio delle funzioni di Capo dello Stato (cancellato: spetta) da parte del Presidente del Consiglio de Gasperi cesserà all'atto dell'elezione del Capo provvisorio dello Stato che sarà fatta dall'Assemblea Costituente secondo la norma dell'art. 2 del D.leg. Lgt (decreto legge luogotenenziale) 16 marzo 1946, n. 98”, ovvero una “legge” emanata da Umberto II.

Il documento non figura nei “Verbali del Consiglio dei ministri” curati da Aldo G. Ricci (ed. Poligrafico dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo de Gasperi, vol. VI, 2) comprendente la trascrizione dei verbali con formidabile apparato critico: opera di riferimento indispensabile. Prima di arrivare al punto, va annotato che, a volte dettagliati su specifiche dichiarazioni dei partecipanti, i Verbali non ricalcano esattamente lo svolgimento dei lavori ma ne offrono ampia sintesi. Ma non deve stupire. A volte Francesco Crispi e Giovanni Giolitti sintetizzarono in poche righe di proprio pugno i lunghissimi lavori dei Consigli da loro presieduti. Al confronto, quelli del governo De Gasperi pubblicati da Ricci sono molto più ricchi. Vale per la seduta del 23 maggio 1946, l'ultima prima delle votazioni del 2-3 giugno sulla forma dello Stato e per l'elezione della Costituente. Essa iniziò alle 10.30, venne sospesa alle 14.30, riprese alle 18 e terminò alle 22.30. Ma il verbale conta appena sedici pagine a stampa. Nel suo corso De Gasperi dovette assentarsi e, non si sa con quale criterio, fu sostituito una tantum da Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano e ministro di Grazia e giustizia. In tale veste “il Migliore” (come Togliatti venne detto lasciando tra parentesi le sue “imprese” a Mosca, in Spagna e non solo) aveva illustrato poco prima lo schema di un decreto legge sull'indipendenza della magistratura mirante a “mantenere una distinzione fra Magistrato requirente e Magistrato giudicante”. Un tema sempre attuale.

 

La disputa sul Referendum e il… salto nel buio

Il Consiglio dei ministri tornò a riunirsi l'8 giugno. Prese atto delle contestazioni sui dati del referendum. Il liberale Giovanni Cassandro di concerto con giuristi dell'Università di Padova (Agostino Padoan e altri) chiedeva che il governo desse conto anche dei voti nulli e che l'esito finale venisse calcolato sulla base dei votanti, non dei soli voti validi, come invece stava facendo il ministro dell'Interno Giuseppe Romita. Di passaggio questi ammise che a quel momento, cinque giorni dopo la chiusura delle urne, mancavano ancora i verbali di 22 delle 32 circoscrizioni elettorali. Molti dei presenti, però, avevano fretta di arrivare alle conclusioni: diroccare la monarchia. Togliatti propose di intestare subito i decreti “Repubblica italiana” e che le sentenze venissero pronunciate “in nome del popolo italiano” anziché “del Re”. Ma il liberale Leone Cattani obiettò che il governo non aveva la competenza per farlo. Cozzò contro le repliche di Togliatti, Cianca, Brosio (liberale repubblicano, ministro della Guerra), Cevolotto, Gullo (a suo dire la repubblica era stata “dichiarata il 2 giugno”) e Bracci, secondo il quale il potere esecutivo doveva immediatamente “passare al Capo provvisorio dello Stato e al Consiglio dei ministri”.

Alle 20 del 10 giugno il governo si riunì sotto la botta della Corte Suprema di Cassazione. Alle 18 nella Sala della Lupa di Montecitorio il presidente Giuseppe Pagano aveva letto i risultati provvisori dello scrutinio e convocato una altra adunanza (l'ultimo giorno utile ope legis era il 18) e, in cauda venenum, annunciato che in quella sede avrebbe indicato “il numero complessivo degli elettori votanti” (non dei soli voti validi) e quello dei “voti nulli”. Dei quali però (schede bianche, annullate, contestate...) sino a quel momento la “macchina” del Ministero dell'Interno non si era minimamente occupata.

Iniziarono giorni affannati: occorreva esaminare oltre 20.000 ricorsi su circa 35.000 seggi, una montagna di obiezioni e, soprattutto, conteggiare davvero tutti i voti. Impossibile risalire alle schede. Togliatti abilmente mise le mani avanti: forse erano già state distrutte e comunque non erano a Roma. Bisognava esaminare i verbali. Un'impresa gigantesca e dopotutto inutile. L'esito della verifica doveva essere comunicato nell'“adunanza” fissata dal presidente Giuseppe Pagano per le 18 del 18 giugno. La partita, però, non era “giuridica”. Era politica. E così venne risolta. La notte dell'11, subito dopo l'approvazione del “progetto” Bracci, concitatamente il governo decretò festivo il martedì 12. Nessuno se ne accorse. Nella notte tra il 12 e il 13 il governo varcò il Rubicone. Decise di conferire al presidente del Consiglio le funzioni di Capo dello Stato. Leone Cattani si oppose. Ma fu l'unico. Tanti altri plaudirono il quartetto di flauti e violini De Gasperi, Romita, Togliatti e Nenni che, dopo febbrili contatti con il Quirinale, decise il conferimento dell'esercizio dei poteri sovrani a De Gasperi. Questi, pur con animo turbato come si arguisce dalla risposta data a Epicarmo Corbino che gliene chiese conto, accettò. Perché? Quali fossero le sue convinzioni e se abbia votato monarchia o repubblica rimangono un mistero. Però il “suo” partito (altra cosa dagli elettori) era per il “cambio”. Il Consiglio nazionale a larga maggioranza. I giovani quasi all'unanimità. Tra i ministri democristiani Mario Scelba era repubblicano intransigente. D'altra parte, egli stesso era legato a filo doppio al patto del CLN. Accipit. Così, per volere del Consiglio dei ministri non eletto dagli italiani ma nominato dal re, Alcide De Gasperi assunse tutti i poteri. Già deputato alla Dieta di Vienna, da capogruppo del Partito popolare alla Camera dei deputati il 16-17 novembre 1922 aveva propugnato il voto a favore del governo Mussolini. Acqua passata. Un po' torbida ma remota. Il primo a non farci caso nel 1946 era il ministro per l'Industria e il Commercio, Giovanni Gronchi, che nel governo Mussolini era stato sottosegretario all'Industria (titolare Teofilo Rossi di Montelera) e aveva dinnanzi a sé un luminoso futuro.

Nelle due sedute presiedute da De Gasperi nella curiosa doppia veste di Capo provvisorio dello Stato e di presidente del Consiglio (quanto basta per non volere alcuna riforma della Carta vigente) il governo, assente Cattani, varò l'amnistia già deliberata da Umberto II (furto con destrezza?), “soppresse” il Senato del regno (ma la corte dei conti rifiutò di registrare il decreto perché eccedeva le competenze dell'esecutivo), ideò l'ANAS, destituì di ogni fondamento molte norme della “cosiddetta”, “sedicente” o “pseudo” Repubblica sociale (ma senza retroattività della loro “applicazione”) e proclamò festa della Repubblica l'11 giugno: proprio il giorno nel quale non era avvenuto nulla di significativo. La Festa venne poi fissata il 2 giugno, inizio della votazione, anziché il 19, giorno nel quale la “Gazzetta Ufficiale” dette notizia della sua nascita. Nel frattempo (e se ne parlò nella seduta del 21 giugno) incombevano la questione dei confini e la sorte delle colonie, di cui De Gasperi era ministro.

Vicende che meritano di essere meglio ricordate.

Aldo A. Mola

 

Alcide De Gasperi (o anche Degasperi) (Pieve Tesino, 3 aprile 1881 - Sella di Val Sugana, 18 agosto 1954) ritratto da Attilio Melo (1954).

Per una serie di congiunzioni astrali, primo e unico nella storia d'Italia nel giugno 1946 racchiuse nelle mani il potere supremo. Già segretario della Democrazia cristiana sino all'aprile 1946 (il partito dal maggior seguito elettorale, come emerse nelle elezioni comunali della primavera 1946), ministro degli Esteri dal 18 giugno 1944, presidente del Consiglio dei ministri in successione a Ferruccio Parri l'11 dicembre 1945, su designazione del consiglio dei ministri (formulata la sera del 10 giugno 1946) alle 0.30 del 13 giugno accettò di esercitare le funzioni di Capo dello Stato in manifesta contrapposizione al legittimo sovrano, Umberto II di Savoia. Per non suscitare un conflitto tra monarchici e repubblicani dalle conseguenze imprevedibili, alle 16 dello stesso 13 giugno il Re lasciò l'Italia per il Portogallo denunciando il “gesto rivoluzionario” del “suo” governo. De Gasperi replicò in termini inusitatamente aspri e ai giornalisti dichiarò di “essere” il Capo dello Stato, suscitando perplessità anche Oltre Tevere.

Sino all'elezione del napoletano Enrico De Nicola, monarchico e liberale, a Presidente provvisorio della Repubblica italiana, lo statista concentrò i poteri di Capo provvisorio dello Stato, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Il Verbale dell'insediamento del suo successore lascia una spessa coltre di dubbi sulla legittimità dell'esercizio delle funzioni dei giorni 13-18 giugno. L'edizione straordinaria della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” (1° luglio 1946) infatti recita: “Oggi alle ore 13 in una sala di Montecitorio (non al Quirinale, né al Viminale, all'epoca sede del governo, NdA) ha avuto luogo l'insediamento del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola al quale l'On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati, nella sua qualità di presidente del Consiglio, dal giorno dell'annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale” (18 giugno, NdA): una formula arzigogolata ed elusiva dei “fatti” nella loro oggettiva sequenza. Alla cerimonia presenziarono il presidente della Costituente, Giuseppe Saragat, i vicepresidenti Terracini, Micheli, Conti e Pecorari, tutti i Ministri, l'ultimo presidente della Camera, Vittorio Emanuele Orlando (sconfitto da De Nicola nella competizione per la successione a De Gasperi) e l'ex presidente della Consulta Nazionale, Carlo Sforza, Collare della SS. Annunziata ed ex senatore del regno, animosamente repubblicano.

Come ha scritto Francesco Malgeri, uno dei suoi biografi, “De Gasperi non deluse le attese di Togliatti”. Lo confermano i saggi di Aldo G. Ricci, Aspettando la Repubblica. I governi della transizione, 1943-1946 (ed. Donzelli) e Il compromesso costituente. 2 giugno 1946-18 aprile 1948 (ed. Bastogi). Ne scrisse anche Nico Perrone in Il realismo politico di De Gasperi (BastogiLibri, 2022). Fra il 13 e il 19 giugno (giorno nel quale la “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” pubblicò il cambio della forma dello Stato per l'esito del referendum istituzionale, senza bisogno di speciale “proclamazione”) le sentenze e gli atti con efficacia giuridica (per es. gli atti notarili) continuarono a essere emanati “in nome del Re”.

All'indomani delle dimissioni del governo comprendente esponenti dei sei partiti del Comitato centrale di liberazione nazionale (DC, PCI, PSIUP, Democrazia del Lavoro, Partito d'azione, Democrazia del lavoro: l'“esarchia” di cui ha scritto Giulio Andreotti in Concerto a sei voci), il 15 luglio 1946 De Gasperi formò una nuova coalizione: democristiani, comunisti, socialisti e Partito repubblicano (guidato da Randolfo Pacciardi), cui seguì un “tripartito DC, PCI, PSI e, dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti d’America, il quadripartito centrista (DC, PSLI - cioè Partito socialista dei laboratori italiani, futuro Partito socialista democratico -, PRI, Partito liberale) durato (con vari cambi e diverse prospettive; persino un monocolore con appoggio esterno del Partito nazionale monarchico) sino alle elezioni del 1953, che segnarono il repentino crepuscolo dello statista trentino. Negli otto anni scarsi tra l'11 dicembre 1945 e il 2 agosto 1953 De Gasperi presiedette nove diversi governi, dalla composizione cangiante. Alla sua morte l'Italia era in ripresa economica ma le prospettive politiche rimanevano incerte. Si risolsero dieci anni dopo (4 dicembre 1963) con il primo governo organico di centro-sinistra (DC, PRI, PSDI e PSI) presieduto da Aldo Moro, con Nenni vicepresidente, Saragat agli Esteri, Paolo Emilio Taviani all'Interno e Andreotti alla Difesa.

A.A.M.

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Articolo pubblicato il 27/03/2023