Diavolo e Acquasanta

Fiori e piante sono entrati con forza nell’interminabile scontro tra il bene il male

Nella lingua piemontese, erbe, frutti, fiori e piante sono entrati con forza nell’interminabile scontro tra il bene il male, portando tra gli uomini il loro contributo simbolico, che ancora oggi ci è compagno, malgrado  il progresso.

I Sanmartín del Canavese, fiori del biancopsino, e i fiör ‘d San Peru del Biellese, allontanavano le tentazioni se conservati con cura in un messale.

Magica era l’era ‘d la tajóira che si indicava come una valida protezione contro il pericolo dei “tagli” inferti da coltelli e altri oggetti pericolosi.

 

La negatività insita nel nome poteva anche essere un utile espediente per indicare la pericolosità del soggetto nominato: emblematico è il caso della cosiddetta erba morella chiamata erba ‘d la mort. Un nome che non lascia dubbi sugli effetti di quel vegetale, caratterizzato da una notevole tossicità.

In alcuni casi la forma poteva anche essere l’occasione per accentuare, in modo dissacrante, la pericolosità di una certa erba: si chiama capel ‘d preive l’ aristolochia climatatis, una “mala erba” che è anche detta Erba strega o Erba del diavolo.

 

In Piemonte troviamo, ad esempio, il termine l’erba del diau utilizzato per  indicare il velenoso Rannunculus aeris. Mentre, l’erba strega, la mercorella, è usata per la realizzazione del miele medicinale e chiamato il diaulót nell’ Helleborus viridis.

 

Un altro esempio molto chiaro è rinvenibile nella ninfea, conosciuta nella medicina popolare per le sue proprietà terapeutiche attive sul sistema nervoso: nelle valli occitane è chiamata erba ‘d infer.

Però la “mala erba” poteva anche rivelarsi secondo l’interpretazione dell’immaginario folklorico, un utile alleato delle fantasie degli uomini. Ne abbiamo un esempio nello stramonio (la nota Datura stramonium, considerata l’erba più usata dalle masche per i loro filtri) chiamato in Piemonte erba tërpunera (o tarpisera): l’erba delle talpe.

 

Infatti la tradizione popolare consigliava di piantare lo stramonio ai quattro lati dell’orto, in questo modo il talpüm e la talpunera ne avrebbero mangiato le radici morendo avvelenati prima di raggiungere le verdure seminate.

In genere quindi quei vegetali che presentavano caratteristiche tali da risultare dannosi, se non addirittura pericolosi, sono stati strettamente collegati all’universo satanico: piante spinose e urticanti vedono spesso il loro nome accompagnato a quello del diavolo o della strega.

 

Il tarassaco è il barabáu, termine che ancora si connette all’universo oscuro e demoniaco, passando attraverso un altro termine ben noto nel linguaggio popolare dell’infanzia piemontese: babau.

L’assafetida diventa addirittura merda dal diau, forse in ragione del suo odore: già negli erbari antichi era indicata come stercus diaboli; il latino dona indubbiamente un’apparenza più colta  e meno volgare del buon dialetto, comunque il significato non cambia.

 

Il diavolo si è tuffato, almeno sul piano linguistico, anche nella medievale bagna judeorum, documentata nella cultura gastronomica piemontese: pare che l’antica ricetta sia ancora in gran parte utilizzata per la preparazione della bagna ‘d l’infern: una salsa piccante tipica delle Langhe, ben nota ai buongustai. È costituita, secondo l’antico ricettario, da zenzero, rosmarino, pane e aceto.

 

A questo punto ci sia concesso un brevissimo inciso: la gastronomia occitana sfrutta il contrasto diavolo e santità per esprime rapidamente un concetto destinato a trasformarsi in una specie di dogma: lu café de esse ciáut cuma l’ünférn, pür coma l’angel, duss cuma l’amúr, nije cuma lu diau. La valeriana diviene così il bastún ad San Giuan, la genzianella è paragonata al botoi de la Madona, l’iperico risulta indicato come legüm ‘d la Madona; la campanula è paragonata ad una scarpetta della Madonna, mentre nell’Erythronium dens canis viene riconosciuto il grembiule della Vergine e nel tremolino i suoi pandín, cioè gli orecchini.

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Articolo pubblicato il 07/04/2023