Triangolo d'Europa (di Aldo A. Mola)
I tempi lunghi della Storia
Non per congiunzione astrale ma per crescente bisogno di riflettere su nodi antichi e perenni che la geografia impone alla storia, in uno stesso giorno si sono svolti ieri di qua e di là delle Marittime due convegni di studio: uno, a Ventimiglia, sulla Ferrovia della valle Roia; un altro, a Valdieri, sulle valli delle Alpi del Mare nel turbine della seconda guerra mondiale.
Il primo dei due convegni, imperniato sulle comunicazioni ferroviarie transfrontaliere tra Otto e Novecento, si è incardinato su Giuseppe Biancheri, che ne fu tra i principali promotori da parte italiana. L'altro ha passato in rassegna gli aspetti militari, politici e sociali delle valli alpine prima durante e dopo la seconda guerra mondiale. (v. box)
Al di là dei temi specificamente affrontati, i due incontri di studio propongono riflessioni sui tempi lunghi della storia. In primo luogo si impone una verità: l'ampia “regione” Cuneo-Imperia-Nizza (ne citiamo i capoluoghi in ordine alfabetico) fu nei millenni incontro di genti, riti religiosi (lo attestano le famose incisioni rupestri del Vallone delle Meraviglie), commerci e teatro di guerre spietate. Basti ricordare il Trofeo eretto a La Turbie nel 6 a.Cr. per celebrare la vittoria definitiva di Caio Ottaviano (poi Augusto) sui popoli delle Alpi nei modi poi ricordati da Publio Cornelio Tacito: dove dicevano di aver portato la pace, i Romani avevano fatto il deserto. Senza addentrarci nel passato remotissimo, la Costa Azzurra fu obiettivo dei conti e duchi di Savoia che puntarono su Nizza e Ventimiglia per procurare al loro piccolo Stato l'agognato sbocco sul mare, in gara con la potente repubblica di Genova e profittando della debolezza del regno di Francia alle prese, a nord, con quello d'Inghilterra e da se stesso indebolito sul versante mediterraneo con la devastante guerra di sterminio dei càtari: “eresia” dualistica serpeggiante carsicamente nei millenni, dalla Persia all'Europa, e tuttora presente nelle file di neognostici e neopelagiani.
Non appena si riebbero dal secolare conflitto contro gli inglesi, i re di Francia ripresero la via per l'Italia, aperta secoli prima da Carlo Magno. Nel 1494 Carlo VIII di Valois vi irruppe dal Monginevro alla testa di 30.000 uomini. Avanzò come un rullo compressore. In pochi mesi arrivò a Napoli per rivendicarne la corona, che gli arrivava da una remota parentela con gli Angiò, a suo tempo sbaragliati dagli Aragonesi. Frantumata in tanti Stati in perenne contrasto, l'Italia era di chi se la prendeva. Succuba. Vent'anni dopo Francesco I entrò in Piemonte dal colle della Maddalena, comodo salendo dal versante francese e quasi altrettanto per riscendere lungo la valle Stura verso Cuneo, ove, a Palazzo Lovera, una lapide un po' logorroica ne ricorda il passaggio alla volta della Lombardia. Alleato dei veneziani, nella “battaglia dei giganti” a Marignano il re di Francia sconfisse i lombardi. Ma dieci anni dopo fu sbaragliato a Pavia dall'imperatore Carlo V d'Asburgo, cadde prigioniero e dovette trattare una pace umiliante, che però non gli impedì di ritentare ancora l'assalto all'Italia in un intricato scenario di alleanze e controalleanze, che vide in campo i Savoia contro la Genova di Andrea Doria, passato a vele spiegate a fianco della Casa imperiale. Per la Superba voleva dire importazione di oro e argento dalle Americhe e di spezie dall'Estremo Oriente. La restaurazione del ducato di Savoia con Emanuele Filiberto, “Testa di ferro”, comportò una nuova fase dell'espansione sabauda in direzione sud-ovest. Mentre soggiogò il marchesato di Saluzzo (a parte la “Castellata” in alta Valle Varaita: minaccioso presidio francese) il duca non esitò a guerreggiare in Provenza con esiti più logoranti che vittoriosi. Se ne legge in “Il Marchesato di Saluzzo. Da Stato di confine a confine di Stato e a Europa” (Foggia, Bastogi, 2003), atti del convegno celebrato a Saluzzo nel IV Centenario del Trattato di Lione che nel 1601 calò una delle saracinesche tra il Piemonte sabaudo e la Francia.
Come ha scritto il generale Oreste Bovio in “Pagine di Storia” (Ed. Roberto Chiaramonte) nei secoli seguenti il Piemonte fu teatro di battaglie di importanza non solo propriamente militare ma politica. Fu il caso della cacciata dei francesi di Luigi XIV che nel 1706 assediavano Torino. Sconfitto nella battaglia di Staffarda, dopo anni di desolazione (i marescialli di Francia facevano “terra bruciata” delle plaghe via via soggiogate), Vittorio Amedeo II col soccorso del cugino Eugenio di Savoia sbaragliarono il nemico. La Basilica di Superga non fu un ex voto di pace ma un trofeo che dalla sommità del colle guarda verso le Alpi. Doveva essere mònito perpetuo, ma, dopo sue precedenti e brillanti campagne d'armi tra Ponente Ligure e valli cuneesi, Napoleone Bonaparte discese dal San Bernardo alla volta della pianura padana e nel giugno del 1800 travolse gli austriaci a Marengo, presso Alessandria. Suggellò il colpo di Stato del 18 brumaio e pose la premessa della proclamazione dell'Impero dei Francesi.
Scienza e strade ferrate
Napoleone durò appena un decennio. Ma i suoi codici e le strade da lui aperte rimasero, come quelle degli antichi Romani. Lasciò in eredità al secolo seguente la circolazione delle idee anche tramite le società segrete, i congressi degli scienziati e l'accelerazione delle comunicazioni. La svolta fu propiziata dall'avvento delle strade ferrate, dapprima in Inghilterra, poi negli Stati di terraferma, con profonde differenze dettate dalla maggiore o minore capacità di vedere lontano. La dice lunga uno sguardo alle statistiche. Nel 1861, l'anno della nascita del regno d'Italia, a fronte dei 16.000 chilometri di ferrovie dell'Inghilterra la Germania ne contava 11.600; l'Austria ne aveva 4.500, la Francia (che si valeva di un'ottima secolare rete di canali navigabili) poco più di 9.500, il piccolo Belgio 1.700. L'Italia (che però non comprendeva ancora il Triveneto) era ferma a 1.096. Metà delle ferrovie del Paese Italia erano in Piemonte. Intere regioni dell'Italia centro-meridionale non ne avevano neppure un chilometro. Gli esordi delle ferrovie erano stati ovunque modesti, pochi tratti di facciata più che di sostanza: Napoli-Portici, Milano-Monza, Napoli-Capua, Pisa-Livorno, Padova-Venezia, Torino-Moncalieri... Ogni staterello pensava in piccolo. Fece eccezione il Piemonte di Cavour che puntò sulla Torino-Genova e cominciò a puntare a Nizza passando per Savigliano-Fossano-Cuneo.
Il 1860 cadde come una scure sul progetto di unire il Piemonte al Ponente Ligure.
Dopo la fratellanza sul campo di battaglia nel 1859 tra la Francia e il neonato regno d'Italia scesero le prime nebbie, soprattutto a causa della “questione di Roma”. Napoleone III, antico carbonaro, si erse a tutore di Pio IX. Nel 1866 non apprezzò l'alleanza italo-prussiana contro l'impero d'Austria. Nel 1867 annientò a Mentana i garibaldini in marcia verso Roma. A chi giovava una ferrovia dal Piemonte all’antico Nizzardo? E se un giorno l'Italia si fosse alleata con la Germania contro la Francia? Nei decenni seguenti le nebbie divennero nubi sempre più oscure: il protettorato francese sulla Tunisia, la Triplice alleanza italo-austro-germanica del 20 maggio 1882, palesemente antifrancese, la guerra doganale di Parigi contro Roma e via continuando sino alla strage di terrazzani italiani ad Aigues-Mortes e agli aiuti di Parigi a Menelik contro l'espansione coloniale italiana dall'Eritrea verso l'Etiopia.
Anno dopo anno quella ferrovia segnò il passo. Non per impossibilità tecnica, ma per diffidenza politica, sino alle intese Prinetti-Barrère d'inizio Novecento e alle aperture del 1903-1904 per iniziativa di Vittorio Emanuele III che sin dall'ascesa al trono nell'agosto 1900, dopo l'assassinio di suo padre a Monza, puntò sull'amicizia italo-francese. Conferì il Collare della Santissima Annunziata (comportante il rango di “cugino del re”) al presidente della repubblica francese Emile Loubet, notoriamente anticlericale, andò in visita di Stato a Parigi e a Londra, e ricevette Loubet a Roma, con gran dispetto del papa che ancora rivendicava il potere temporale sulla Città Eterna.
In quel clima di ritrovata cordialità (l'alleanza è un'altra cosa), come ha documentato Mariano Gabriele in una fondamentale opera sulla difesa del confine occidentale (Ufficio Storico SME), l'Italia continuò a munirsi a Ovest ma ripresero i lavori della strada ferrata che sboccò finalmente a Vievola. Il mare, però, era ancora lontanissimo. Per arrivarci ci vollero ancora più di vent'anni. Finalmente il 30 ottobre 1928 venne inaugurata la tanto agognata Cuneo-Breil/Ventimiglia-Nizza, capace di conciliare tutte le diverse attese. Proprio perché bisognava pensare in grande venne proposta come Berna-Marsiglia. Una linea non solo italo-francese ma europea..., com’era stata ideata dai suoi pionieri e rilanciata da Giolitti, dal ministro degli Esteri Morin e, a seguire, da Tommaso Tittoni, Antonino di San Giuliano e i giovani della massonica “Corda Fratres” che, su ispirazione del canavesano Efisio Giglio-Tos organizzarono incontri culturali tra gli studenti universitari delle “Sorelle Latine”. Le “idee” precorrono il commercio e il turismo e propiziano quella “pace in terra tra gli uomini di buona volontà” che solo decenni dopo la seconda guerra mondiale rimisero in funzione la Cuneo-Nizza: il 6 ottobre 1979. Molto ansimante e in attesa di un salto di qualità per un'Europa vera.
Aldo A. Mola
Giuseppe Biancheri (Ventimiglia, 22 novembre 1821-Torino, 26 ottobre 1908).
Già allievo in una scuola di avviamento commerciale a Montecarlo, laureato in giurisprudenza a Torino (1846), fu eletto deputato nel collegio uninominale di Ventimiglia il 13 dicembre 1853 in ballottaggio con Ercole Ricotti, illustre storico militare. Nel 1855 avversò l'alleanza del regno di Sardegna con Francia, Gran Bretagna e impero turco contro la Russia e la conseguente spedizione in Crimea. Schierato a sinistra, con il nizzardo Giuseppe Garibaldi e pochi altri nel 1860 votò contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia di Napoleone III, prevista dagli accordi di Plombières tra l'imperatore francese e Camillo Cavour (luglio 1858) per conto di Vittorio Emanuele II. A suo avviso la rinuncia a Nizza era destinata a penalizzare gravemente il Ponente ligure, già allarmato dall'attenzione riservata da Cavour (morto il 6 giugno 1861) al porto di La Spezia. L'ascesa alla presidenza del Consiglio del toscano Bettino Ricasoli e dell'emiliano Marco Minghetti si sostanziò nel trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze, senza alcuna garanzia di ottenere Roma, che la Nuova Italia raggiunse il Venti Settembre 1870 solo per effetto della sconfitta di Napoleone III da parte della Prussia a Sedan (2 settembre): la terza “S” propizia all'unificazione dell'Italia: dopo la vittoria di Napoleone sugli austriaci a Solferino (24 giugno 1859) e dei prussiani sugli asburgici a Sadowa (1866), che al regno d'Italia fruttò Venezia.
Già componente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla rete ferrata e ministro della Marina nel governo Ricasoli (1867), comprendente esponenti della Sinistra democratica come Agostino Depretis e il gran maestro del Grande Oriente d'Italia Filippo Cordova, il 12 marzo 1870 Biancheri fu eletto per la prima volta presidente della Camera in competizione con Benedetto Cairoli, esponente della Sinistra garibaldina. Come ha fatto osservare il suo biografo Silvio Furlani nel volume VII di “Il Parlamento Italiano, 1861-1993” (voll. 23), venne confermato per ben diciotto volte in quella prestigiosa carica, anche dopo l'ascesa della Sinistra al governo con Depretis e in successione al “fratello” Domenico Farini, nominato senatore e asceso a presidente della Camera Alta. Scrupoloso nell'espletamento del prestigioso ufficio, Biancheri ebbe ruolo decisivo nel dibattito parlamentare sullo scandalo della Banca Romana e sul plico di lettere consegnate da Giovanni Giolitti a propria difesa. Poiché però non seppe arginare l'Estrema sinistra radicale, capitanata da Felice Cavallotti, corrivo a contrapporre il “partito degli onesti” a quelli “storici”, dopo le elezioni del 1895, dominate da Francesco Crispi, Biancheri non fu rieletto. A suo carico si aggiunse l'insinuazione che fosse implicato nella crisi della banca di San Remo, salvata dall'intervento della Banca Nazionale.
Tornò presidente della Camera dopo le elezioni politiche del 1897 e nel 1899, dopo le dimissioni di Giuseppe Colombo, nuovamente nel 1902, in successione al massone Tommaso Villa, e un'ultima volta nel 1906, durante il governo presieduto per cento giorni da Sidney Sonnino. Il 30 gennaio 1907, ormai ottantacinquenne, Biancheri lasciò il seggio presidenziale adducendo che l'età e la salute non gli consentivano più “l'usata operosità e diligenza”. Dopo oltre mezzo secolo dalla prima elezione alla Camera subalpina nel collegio di Ventimiglia, piegò le vele. San Remo dopo Ernesto Marsaglia, elesse il nipote di Biancheri, Orazio Raimondo, socialista, massone, stratega del rilancio della città attraverso il Casinò e il turismo di qualità che ne fece una delle principali attrazioni turistiche italiane, come documentato da Marzia Taruffi in “Uno, cento, mille Casinò di San Remo, 1905-2015 (Ed. De Ferrari).
Nei convegni organizzati su Biancheri anni addietro, e nuovamente in quello del marzo-aprile 2023 orchestrato da Luca Fucini, console onorario di Francia per la provincia di Imperia, è stato approfondito il ruolo protagonistico da lui svolto per collegare il Ponente Ligure all'entroterra, e in specie al Piemonte, puntando su Cuneo in alternativa alla linea Torino-Fossano-Mondovì-Savona e a quella, strategica, Torino-Alessandria-Genova, voluta da Cavour. Come ricordò il giornalista Franco Collidà nel pionieristico volume sulla ferrovia Cuneo-Nizza, pubblicato in occasione della sua riapertura, Biancheri sovrappose diverse opzioni facendole via via prevalere alla Camera grazie alla sua straordinaria facondia.
Per propugnare i suoi progetti non esitava a lasciare lo scranno di presidente della Camera e a parlare per molte ore dal banco di deputato, sciorinando particolari tecnici e alternando sciabolate ideali. Tra i suoi cavalli di battaglia a sostegno della linea ferrata nella Valle Roia (o Roja, come all'epoca si scriveva) vi era la necessità di interpretare il sentimento di quanti “Oltralpe” non avevano cessato di sentirsi legati all'Italia. Del resto dove inizia e dove termina l'Oltralpe? Per lui, fiero avversario della cessione di Nizza alla Francia, l'Italia terminava al Varo.
Biancheri alimentava, insomma, quel filo mai interrotto di irredentismo nizzardo poi studiato da Giulio Vignoli e Achille Ragazzoni e consegnato alle pagine del Bollettino semestrale di studi nizzardi e tendaschi “Il Pensiero di Nizza” (1995-2006), recentemente riproposto in edizione anastatica da Settimo Sigillo.
La “Cuneo-Nizza. Storia di una ferrovia” venne studiata da Franco Collidà in una documentatissima opera del 1981: quasi 300 pagine con contributi di Max Gallo e di Aldo A. Mola. Collidà non tace le contraddizioni di Biancheri. Mentre coltivava il progetto fondamentale di quando in quando propose una bizzarra linea lungo la valle Vésubie e persino per la Valle Tinea. Benché fossero alternative del tutto irreali grazie alla sua straordinaria oratoria riusciva ad attrarre il favore dell'uditorio, che spesso aveva una idea molto vaga delle “Alpi del Mare” e dei suoi secolari problemi, in gran parte tuttora irrisolti. Che cosa se ne sa e se ne pensa oggi a Roma e a Bruxelles?
Nel citato convegno di Valdieri sono intervenuti Pier Carlo Sommo, Walter Cesana, Andrea Benzi, Paolo Chiarenza e il generale Antonio Zerrillo.
AAM
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Articolo pubblicato il 16/04/2023