I Demoni della Laguna

Racconto di Antonella Barina

È un fatto. Tre pozzi sono spariti nelle isole di laguna e questo è quello che si è saputo, con nomi e cognomi raccontati da un’anziana pittrice amante delle isole di Venezia.

 

Le sparizioni cominciarono quando, divenuto funzionario, Memo Tormentin decise che il pozzo in pietra d’Istria dell’isola di Santo Spirito, un tempo la più ricca di opere d’arte e tesori, dopo tanti secoli da quando i monaci lo avevano posto dov’era, avrebbe fatto miglior figura nel giardino della sua villa sul Piave.

 

Nel corso di un’ispezione, Tormentin indicò con un moto del sopracciglio al factotum suo sottoposto il gradimento per il reperto che lo ingolosiva. L’uomo capì al volo, giacché non era la prima volta, e mobilitò gli scagnozzi incaricati dei trasporti. 

 

Una notte in quattro e quattr’otto quelli, il pozzo, lo fecero sparire. Con un gran piede di porco lo sollevarono dalla base di marmo senza badare a ciò che raffigurava.

 

Vi era scolpito in bassorilievo un San Michele, l’arcangelo che tiene a bada gli spiriti maligni.

 

Bisogna sapere che lì sotto, nelle profonde grotte sotto i sedimenti di caranto, da secoli scalpitano spiriti dannati che vogliono impadronirsi di Venezia.

 

Non solo la città, ma la sua anima.

 

Ci sono i Franchi entrati in laguna per conquistarla, decimati nel vicino Canal Orfano.

Ogni impero ha i suoi avversari e là sotto ci sono anche gli spiriti dei congiurati di cui il Senato, forte di tante spie, si disfaceva affogandoli tra Santo Spirito e la bocca di Malamocco, dove la marea defluisce al mare e ne occulta i corpi.

 

Sempre lì, nel corso della storia, sono stati inabissati ladroni che facevano la cresta sui bandi pubblici e delatori delle formule segrete delle arti, ma anche non pochi innocenti. Quegli spiriti, colmi di furia sedimentata per secoli, non hanno dimenticato.

 

Gli scagnozzi fecero slittare il pozzo di San Michele su cilindri di legno, quelli in uso negli squeri per buttare in acqua le barche, e lo portarono fino al burcio ormeggiato in cavana, a quei tempi ancora intatta, issandolo a bordo con un verricello. Giunti al più vicino approdo per la terraferma, partirono per le contrade del Piave.

 

Tolto il pozzo che li serrava, i demoni ebbero sentore di quel refolo d’aria fresca che li raggiunse dal foro scoperchiato e lo seguirono verso l’uscita, riversandosi all’esterno come un vulcano che erutta.

 

Chi in quella notte di luna piena dell’ultimo secolo del secondo millennio avesse guardato verso l’isola avrebbe visto stagliarsi contro il cielo un’ombra nera e rapace dagli immensi artigli, l’avrebbe vista dirigersi verso la città come un unico stormo e riassorbirsi veloce sopra le cupole di San Marco, sulle cime dei campanili, sui tetti delle case.

 

Ma nessuno vi fece caso.

 

Fu così che il nero miasma si sparse su Venezia e la città, non fosse bastato Napoleone, fu spogliata delle sue gioie.

 

Con la scusa di ripristinare i palazzi, quando il cantiere chiudeva assieme ai calcinacci si facevano sparire iscrizioni antiche, cassettoni dorati dei soffitti, statue, patere e formelle, tanto che nei depositi antiquari si assiepò ogni sorta di reperti sottratti alle corti private per la gioia di collezionisti sedicenti amanti della città lagunare, senza contare che anche le fontane, portate via dai campi con la scusa di restaurarle, si perdevano definitivamente.

 

Venivano rubati financo i masegni che lastricavano le calli, così che ai veneziani veniva proprio rubata la terra sotto ai piedi.

 

Ma il pozzo più bello, in marmo rosso di Verona e due Leoni di San Marco scolpiti sulla vera, era quello dell’isola di Poveglia.

 

Memo Tormentin se n’era andato con un colpo apoplettico e al suo posto era subentrato il suo allievo Nane Catalossi il quale aveva ereditato privilegi e passioni del maestro.

 

Il pozzo si trovava nella prima corte dell’isola, occultato alla vista dall’ottagono costruito di fronte ai tempi della guerra di Chioggia. Il borgo di Poveglia, che si era distinto contro Franchi e Genovesi, divenne poi avamposto lagunare e infine lazzaretto.

 

Ma gli scagnozzi, per nulla intimoriti dalla lapide con cui la Serenissima intimava di non disturbare i morti per contagio che lì riposavano, agirono con l’acqua alta, poiché la riva superava i due metri e imbarcare il marmo era più facile se il natante era alla stessa altezza.

 

Una volta rubato anche questo pozzo, nuove sciagure emersero in superficie.

 

Disseminati negli uffici come bacche di ginepro su una porchetta ben cucinata, gli intrallazzatori si riempivano la bocca di salvaguardare Venezia, spremendo soldi ad uno stato che non era meglio governato.

 

La città fu invasa da genti che in città presero a farla da padroni. Complici le autorità, agli stranieri erano aggiudicate case e botteghe che i cittadini dovevano abbandonare, essendo ai primi consentito ciò che agli altri era negato.

 

Poiché il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi, un colpo improvviso si portò via anche Catalossi che non fece in tempo a godere del maltolto.

 

Ne fece funzioni un certo Nino Tornelli il quale, invece, di ruberie non ne voleva sapere.

 

Le maestranze, deluse, fecero che avesse un piccolo incidente che lo mise a riposo per molti mesi.

 

Nell’isola del Lazzareto Vecchio infatti avevano adocchiato un terzo pozzo, cinquecentesco, con una bella anfora sulla vera. Il reperto uscì per la via più nascosta, passando dall’orto del priorato, sotto la terrazza volta a Occidente dove il poeta Arnaldo Fusinato scrisse: “Il morbo infuria/il pan ci manca/   sul ponte sventola/bandiera bianca”, che certo è la poesia più nota e declamata su Venezia.

 

Poco o nulla ne venne stavolta ai ladri che rimasero pure senza lavoro: al loro posto vinse l’appalto una ditta sconosciuta che non aveva mai operato a Venezia e aveva sbaragliato tutti i concorrenti.

 

Dopo il tempo delle navi a vapore venne quello delle navi da crociera a corrodere con miasmi di zolfo i marmi dei palazzi, tant’è che a questo punto fu l’aria, anziché il pane, a mancare ai pochi veneziani rimasti.

 

La città che aveva fatto le crociate dovette vedersela con le crociere: a conti fatti, non si può dire che la storia non abbia il senso dell’umorismo.

 

Voi, attenzione: quando vedete il cielo oscurarsi stranamente e sentite un brivido gelato lungo la schiena, sono le ombre dei demoni che non se ne andranno finché tutti e tre i pozzi non torneranno al proprio posto.

 

Foto in copertina: Antonio Attini.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 20/05/2023