APPUNTI SULL’ATEISMO IN GENERALE E NELL’ANTICA GRECIA

Un contributo del prof. Antonio BINNI, Gran Maestro Emerito della GLDI.

Uno studio sull’ateismo, anche se minimale come questo, non può assolutamente prescindere da una precisazione preliminare, anche per confutare, da subito, il giudizio radicalmente negativo che lo investe, tanto infondato, quanto diffuso.

Infatti, contrariamente a quanto si potrebbe congetturare in termini però del tutto superficiali, tanto l'ateismo quanto gli atei vanno invece fermamente difesi.

 

A questo fine va innanzitutto osservato che l'ateismo non conduce necessariamente alla corruzione dei costumi. È vero all'opposto che esso, non esponendo al rischio di trasformarsi in fanatismo, è più in linea con gli ideali etici universalistici.

Quindi, almeno dal profilo astratto, non si dovrebbe negare che una società di atei potrebbe perfettamente operare come una qualsiasi altra società.

Tanto sul piano civile, quanto su quello morale. Tanto più che l’ateo, non avendo la possibilità di un qualsiasi perdono da parte di chicchessia, è particolarmente severo nei confronti del proprio operato. Il che comprova - e mostra - l'esistenza di atti irreprensibili nelle loro azioni, caritatevoli verso i poveri, solidali verso i bisognosi. In estrema sintesi, giusti.

 

I rischi di una società senza Dio, come noto, hanno indotto Machiavelli (nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I, 12) a difendere l'idea che la religione debba, in definitiva, essere irrinunciabile in quanto instrumentum regni. A chi scrive, sommessamente, questi rischi non paiono però fondati. E comunque paiono superabili alla luce della assoluta intangibilità della libertà di coscienza.

Questa, sia permessa la precisazione, è la veduta di un credente che ritiene si debba avere, sempre e comunque, rispetto della coscienza. Anche quando (se non addirittura soprattutto) si è materialmente in errore. Obbligarla a fare diversamente da ciò che ritiene si debba invece fare costituisce infatti il "peccato" più grave che si possa immaginare.

 

Ogni tentativo di contrastare le convinzioni del singolo in materia di fede deve, dunque, essere contestato - e respinto - con la massima determinazione e fermezza. Da ultimo prendiamo comunque atto, con compiacimento, che il problema dell'ateismo nelle moderne democrazie da una questione di tolleranza è, invece ormai scaduto e confinato, nell'area della indifferenza: un esilio dove, nel concreto quotidiano, è relegata - purtroppo! - la religione, anche quando la libertà religiosa ha una protezione di rango addirittura costituzionale, così come vige nel nostro ordinamento.

 

Tutto ciò posto, per affrontare il punto essenziale dell'ateismo dobbiamo chiaramente affrontare il nodo centrale della questione, cioè interrogarci sulla sua causale giustificazione. O, per dirla ancora altrimenti, su quali solide basi si fondi razionalmente una veduta così coinvolgente, posto che una decisione così grave, quale quella di negare l'esistenza di un Essere superiore, creatore dell'universo in tutte le sue innumerevoli articolazioni, non possa, chiaramente, essere il frutto irriflessivo, né tantomeno temporaneo, di una garrula mente.

 

Questa impostazione del problema, così delicato, non può allora che ricondursi alla motivazione più radicale, cioè al lucido pensiero di Feuerbach, il primo vero filosofo moderno distruttore dell'esistenza dell'alterità della divinità. Secondo questo pensatore, certo di spicco e forse il più noto della cosiddetta sinistra hegeliana, la divinità non sarebbe infatti altro che una produzione dell'uomo, il prodotto della sua stessa immaginazione, insomma una sua proiezione esterna, frutto della vergogna che l'essere umano prova e avverte della propria finitezza individuale e dei suoi conseguenti limiti insuperabili: creazione alla quale l'uomo si sottometterebbe unicamente perché questa creatura infinita risponde ai bisogni, reali e concreti, e, soprattutto profondi, dell'essere umano.

 

Secondo Feurbach solo chi è troppo vile, o troppo ristretto di mente, potrebbe poi negare ciò che il sentimento silenziosamente afferma, visto che proprio dal sentimento - e non dalla ragione! - nascerebbe la necessità di immaginare un Dio diverso dall’uomo. La dinamica della personificazione della divinità, in quest'ottica, finisce dunque per essere una necessità, bisogno assoluto da parte dell'uomo, figlio, a sua volta, di una illusione, che il filosofo deve smascherare.

 

Per dirla in parole semplici e lapidarie, secondo Feuerbach Dio non sarebbe altro che una sostanziale proiezione delle migliori qualità antropologiche, dunque un fatto totalmente umano. Dio nascerebbe infatti dall'uomo, e non viceversa.

 

Questo punto di vista, seppure non così acutamente argomentato, nelle sue linee essenziali, non è tuttavia del tutto sconosciuto al patrimonio culturale - in particolare, alla produzione teatrale - e filosofico dell'antica Grecia. Punto di riferimento al quale siamo adusi far capo, non già per una occasionale e immotivata scelta personale, quanto invece perché, come dovrebbe essere a tutti noto, è proprio in questo terreno che sono custodite le radici della nostra civiltà. È perciò a questo mondo, così ricco di suggestioni, che intendiamo attingere per scoprire l'esistenza di antichi precedenti. 

Si sa che i greci, fin dall'età arcaica, riconoscevano come esistente una pluralità di divinità caratterizzate da una beatitudine autarchica, con conseguente totale indifferenza nei confronti dell'essere umano, salvo poi interferire nelle stesse per arbitrio o capriccio, frutto a sua volta di lotte intestine, conoscendo le divinità riconosciute le stesse pulsioni negative (collera; vendette; partigianerie; eccetera) proprie degli uomini.

 

Una concezione della divinità - come è evidente - del tutto ingenua che palesemente non poteva non essere oggetto di attenta revisione da parte dei nuovi saperi scientifici e, soprattutto, degli originali insegnamenti della sofistica, che hanno finito per far perdere credito alle immagini degli dèi quali tramandati da Omero ed Esiodo. Con logico realismo si è finito così per riconoscere che al rango di divinità si erano elevate le forze della natura e, in particolare, tutti gli elementi e le risorse essenziali per la sopravvivenza. Da qui la riconosciuta preminente importanza alla Grande Madre Terra per essere, all'epoca, centrale e decisiva l'agricoltura. In quest'ottica versiamo però, con sicurezza, in una creazione squisitamente umana, sia pure non fondata sul sentimento, come invece sostenuto dal filosofo tedesco, ma pur sempre frutto della limitatezza dell'uomo, fonte inoppugnabile della personificazione della divinità.

 

Di questa visione è poi significativa testimonianza il frammento di Prodico di Ceo (84 B5 Diels-Kranz) dove testualmente si legge che «gli uomini di età più remote avevano considerato come divinità gli elementi e le risorse essenziali per la loro vita», finendo così per chiamare «le messi Demetra e il vino Dioniso, facendo», a questa stregua, «sorgere le corrispondenti credenze». E del tutto evidente così che la nascita della divinità è una proiezione totalmente umana. Ci piace infine congetturare che quel significativo "precedente" abbia finito, quantomeno, per ispirare il filosofo tedesco che, probabilmente, non ignorava quel testo. Questa origine - riconosciuta come squisitamente umana - della divinità ha poi una inevitabile ricaduta nel rapporto fra gli abitanti della polis e la Divinità e, come si chiarirà ancor più in specifico fra poco, sulla stessa finalità del fenomeno religioso.

 

Frutto della umana proiezione, nella propria auto-contemplazione, la divinità vive in un Olimpo così lontano dal mondo degli uomini da renderla sorda alle preghiere rivolte al cielo, come ogni uomo e donna fanno quando il peso della sventura schiaccia e travolge la vita. Come, per richiamare un esempio significativo, ben sperimentato da Medea, che dopo di aver invocato gli dèi a testimoni del proprio patire li aveva poi - invano! - supplicati di farle giustizia a riparazione del torto subito dallo spergiuro Giasone, forte (?) soltanto della logica propria dell'ordine maschile! Ma, su questo silenzio assordante aveva già ammonito Anassagora quando aveva scritto: «Non c'è alcuna provvidenza per gli uomini e tutte le cose sottostanno al caso» (Anassagora, 59, A6 Diels-Kranz).  

 

Anche secondo Crizia gli dèi non si occupano minimamente degli uomini. L'opposta veduta, secondo questo sofista e raffinato uomo politico, altro non sarebbe stata infatti che una invenzione preordinata a creare timore e, di conseguenza, rispetto delle leggi promulgate dalla polis che, oltre ad essere munite della sanzione umana, finivano così per ricevere anche - per non dire soprattutto - una punizione divina particolarmente deterrente proprio perché proveniente dal cielo. In termini moderni: oltre alla pena, pure l'inferno!

Il passo che cristallizza questa veduta nella sua lucida audacia è poi così importante da meritarne la trascrizione:

«Un uomo intelligente e saggio inventò il timore degli dèi affinché i malvagi avessero paura (…) Perciò introdusse il divino come un essere immortale (…) E disse che gli dei abitano là dove avrebbe fatto più impressione ai mortali (…) Di tali paure costui circondò gli uomini e con ciò fondò, per mezzo della parola, il Divino». (Crizia 88 B 25 Diels-Kranz).

 

Come già detto, si tratta di problematiche legate a divinità inesistenti, proiezioni del tutto umane, frutto di finitudine, fonte unica ed esclusiva d'un ateismo motivato fino al punto di intravedere il fine della religione nello instrumentum regni.

Non deve infine destare meraviglia il fatto che questi dibattiti si rifrangano puntualmente sulla scena teatrale, perché la tragedia è anche uno specchio di transizioni culturali oltre che di divulgazione di nuovi saperi, di contrasti ideologici, anche serrati, e non solo di violenza e conflitto fra eroi destinati all'abisso, in ultima analisi una offerta agli attenti spettatori di autentica saggezza frutto di uno spirito problematico rispettoso del nuovo. Autentica ricchezza di una polis aperta al costante progresso, sicché con assoluta certezza è legittimo affermare che il teatro greco è realmente lo specchio fedele della comunità.

 

Senza alcuna pretesa di completezza, impossibile del resto data la sede, abbiamo voluto soltanto dare conto di un problema antico quanto l'uomo perché, fino a quando un essere umano continuerà a calpestare la terra, non potrà esimersi dall'interrogarsi se esista - o meno - un suo Creatore. Forse la ragione non sarà sufficiente a dare al quesito una risposta definitiva, anche se talora soggettivamente appagante. Ma proprio quando la ragione si arresta, è proprio lì che sgorga, come un miracolo, quella fede che offre all'uomo un senso alla propria esistenza, oltre che una valida ragione di vita, altrimenti intollerabile labirinto, regno dell'ingiustizia, perché la fortuna umana arride soprattutto all'ingiusto mentre spesso regala perfino la miseria all'uomo giusto e pio.

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Articolo pubblicato il 26/05/2023