Sul male e come attributo del potere

Un contributo del Prof. Antonio Binni, Gran Maestro Emerito della GLDI

di Antonio Binni

 

L’esperienza religiosa dell’antica Grecia è contrassegnata dall’incontro fra gli abitanti della polis e gli dei di Omero e di Esiodo. 
Divinità, com’è ormai pacificamente riconosciuto, che altro non sono che forze della natura idealizzate elevate a entità superiori all'uomo, ma, qualitativamente, non differenti perché codeste divinità continuano pur sempre a conservare tutte le passioni umane. 

Donde l'inclinazione alla lite fra loro, ai sotterfugi amorosi, agli interventi nelle vicende umane, dettate, ora, dalla partigianeria, più spesso, dall'arbitrio e dal capriccio. In un quadro di indifferenza e di impassibilità di fronte alle umane preghiere, non avendo bisogno di nulla in quanto completamente autarchiche. Perciò perfettamente felici in sé stesse.

Una simile concezione della divinità poteva, all'evidenza, appagare solo menti ingenue. Ben presto, tuttavia, dubbiose della stessa esistenza di personaggi divini indifferenti alle sorti umane, oltre che del tutto imprevedibili nei loro interventi volubili. 

Spesso crudeli. 
Anche con i loro oracoli mai chiari, spesso ingannevoli. 

Di questa folla che abita il cielo terso dell'antica Grecia il signore è Zeus. Un dominus tuttavia non assoluto per essere a sua volta un suddito obbediente della Necessità. 

Il che, alla lunga, non poteva non ingenerare il sospetto che tutto il pantheon non fosse altro che il frutto della superstizione e, con ancora maggiore verità, la conseguenza fattuale del bisogno assoluto di una forte difesa posta a presidio e tutela della fragilità dell’uomo. Sentimento, dunque, di paura più che, forse, di ragionamento. 

Questa incredibile situazione era tuttavia la credenza religiosa della polis, difesa a oltranza a tutela dell'ordine della città con tanta determinazione e rigore da rimanere, oggi, interdetti per la sua indubbia verità! Come insegna la stessa condanna a morte di Socrate fondata proprio sull'accusa al filosofo di avere voluto introdurre nella città una religione diversa da quella praticata da tutta la comunità.

Contro questa impalcatura, invero, oltre modo fragile, non potevano, però, non insorgere i nuovi saperi scientifici e, soprattutto, gli originali insegnamenti dei sofisti che hanno finito così per far perdere credito alle immagini degli dei tramandati da Omero ed Esiodo divenuti appunto oggetto di attenta revisione critica.  

Neppure gli urticanti sofisti hanno, però, mai osato di spingersi fino al punto di indicare l'origine del male proprio nel divino! Passo, invece, con audacia, compiuto dai tragici! I quali incolpano proprio gli dei di essere la scaturigine del male. 

Mettere poi in scena della tragedia un Dio che vuole il male equivaleva a compiere una rivoluzione autenticamente copernicana frutto di un coraggio e di una audacia tali da rimanere ancora oggi stupiti e meravigliati! 

Eppure, è proprio questo che è accaduto, visto che proprio in Zeus, panton Mègistos, viene indicata la fonte, oltre che del bene, pure del male. Così, ad esempio, il coro dell'Agamennone rivolto a Clitennestra (vv. 1481 - 1488 - nella tragedia di Eschilo).

Va, tuttavia, da subito ricordato che, per la filosofia, l'ipotesi di un Dio malvagio si mostra contraddittoria nel momento stesso in cui viene enunciata. Nel libro secondo della Repubblica, a tale veduta, Socrate subito infatti obietta che «ciò che è buono non può essere causa di tutto: è causa dei beni, ma non dei mali». Tanto che, subito dopo, finisce per affermare esplicitamente che «le cause del male si devono cercare altrove» (ivi, II 379b-c). Salvo poi ad ammettere, nelle Leggi (896 e), l'esistenza di due anime nel mondo: una che produce il bene e una, mondana e materiale, che produce invece il male. A riprova della complessità e della difficoltà dell’argomento!

Il che ha posto, a chiare lettere, il problema dalle millenarie risposte perché l'origine e la natura del male hanno costituito l'oggetto di una ricerca filosofica indefessa. 

Tanto da essere autorizzati a scrivere che nessuna parola, come quella di «male», appartiene alla ricerca filosofica. Ancora oggi molto attiva sull'argomento, considerato che, nel presente, il male si presenta in nuove modalità fenomeniche. Come, nel prosieguo, sarà sottolineato e analizzato nei termini dovuti. 

Avuto riguardo alla sede, questo studio non ha la pretesa di offrire un quadro completo di tutte le problematiche sottese e implicate dall'argomento. Ci si asterrà pertanto volutamente dal ricostruire analiticamente i diversi sistemi filosofici che hanno affrontato il problema del male. 

Né si avrà cura di valutare le diverse argomentazioni che hanno fondato le relative conclusioni, via via oggetto di serrate critiche e relative confutazioni. Senza però raggiungere mai un epilogo condiviso. All'opposto, anche per attribuire un minimo di sostanza a questo intervento, ci si limiterà a fissare alcuni punti fermi, che, come altrettanti segna via, sono idonei - a giudizio di chi scrive - a determinare sane curiosità e, soprattutto, a suscitare l'impegno intellettuale a fornire una soluzione a un così complesso problema almeno soggettivamente appagante.  

A questi fini si impone preliminarmente di sottolineare che la identificazione del bene con l’«essere» - razionale fonte di bontà - e del male come «non essere» - mancanza di misura; eccesso - non è di alcun aiuto concreto, se non ad escludendum, a ragione che una simile prospettazione è irrimediabilmente viziata da una colpevole astrattezza. Quando è vero invece che il male è effettivamente reale nella mente del senziente che soffre, oltre che inestirpabile dal mondo degli umani in quanto velenosa malattia endemica.

Sì e poi osservato che anche il più piccolo male sarebbe incompatibile con l'esistenza di un Dio. Dotando l'umano della libertà, il Creatore non ha però donato un giocattolo, della cui pericolosità era peraltro ben conscio! Al contrario, ha demandato la responsabilità del suo corretto uso e impiego. 

Il male finisce perciò per divenire l'esito dello scorretto esercizio dell'umana libertà. Senza, peraltro, essere incompatibile, né con la somma bontà della divinità, né, e soprattutto, con la presunta predestinazione. 

Il sapere a priori l'esito della azione umana infatti non comporta né implica affatto averla causata. Vedere dall'alto di una montagna un uomo che, per imprudenza e un errore, rimane vittima di una caduta mortale non significa infatti essere causa determinante di quell'evento luttuoso!

In estrema sintesi. Dio permette il male, né lo elimina dal mondo, posto che, se si contenesse altrimenti, finirebbe per cancellare proprio quella libertà e quella coscienza che, all'opposto, costituiscono invece proprio la cifra dell'umano: peculiarità pericolosa, ma consustanziale. 

Il male è agire. Come ha insegnato Kant, è tale però solo quando può essere imputato come colpa. Il che può, a sua volta, essere riconosciuto soltanto quando si versa in presenza di un soggetto che agisce liberamente secondo la propria volontà. 

Libertà che porta l'uomo a commettere il male; ma pure a contrastarlo volendo ergersi verso il bene. Proprio questa alternativa - di fare il bene o il male - costituisce poi la scommessa divina, oltre alla ragione per la quale malposto è il problema tanto caro a chi naufraga ancora nelle spire della classica teodicea. 

Infatti, il conflitto fra bene e male deve essere rigorosamente circoscritto all'interno del soggetto agente. Ogni altro profilo, infatti, prima di essere improprio, è, in realtà, proprio del tutto errato!    

Ma è ormai tempo di sciogliere la riserva in precedenza assunta, stante la nuova veste che il male ha assunto nell’evo presente. 

Il problema del male, a partire dal XIX secolo, ha cessato di essere oggetto della ricerca filosofica perché il male è entrato nel mondo come attributo del potere. Quasi fosse il suo stesso segreto più intimo. 

Si vuol dire - come pura e semplice constatazione - che il potere viene identificato tout court con il male che cessa pertanto di abitare i luoghi della metafisica e della teologia per diventare, invece, una questione cardine della politica. Infatti, quando il male è la cifra del potere, in quanto ad esso consustanziale, non si ha più a che fare con uomini trascinati dalla ferocia alimentata dall'odio, ma con grigi impiegati, scrupolosi burocrati dai compiti - per quanto essenziali - del tutto limitati nell'ambito di processi complessi che non li mettono neppure in contatto con le vittime del potere perché l'ingranaggio, nel quale sono inseriti, è così macchinoso che, all'autore dell'atto, sfugge completamente il risultato delle azioni compiute.

Il male finisce così per coincidere con l'obbedienza, pronta e avalutativa, perché il male viene appunto realizzato proprio con l'attenersi scrupolosamente all'osservanza della norma compiuta in termini rigorosamente puntuali. La passività e l'indifferenza e, soprattutto, l'abitudine alla obbedienza hanno dunque finito per prendere il posto della malvagità. Anche perché liquidare centomila persone premendo un tasto è infinitamente più facile che uccidere una persona sola.

 A tale distanza si perde infatti ogni scrupolo perché ogni senso di colpa finisce per essere anestetizzato. Con la stessa perdita della percezione del male. In fondo, non si è fatto altro… che compiere il proprio doveroso lavoro!  

Occorre dunque ripensare la questione del rapporto fra male e potere visto che le ideologie totalitarie, in cambio di sottomissione, offrono agli ubbidienti protezione, tutela e, soprattutto, sicurezza. Da qui il correttivo suggerito di educare alla formazione delle coscienze resuscitando il daimon socratico in grado di comprendere e, soprattutto, di cogliere il momento di dire NO, capacità di pensiero che tiene vivi i valori. 

Come ha insegnato Antigone che, anziché obbedire al comando di un uomo, per quanto re, ha preferito invece rimanere fedele a se stessa e ai propri convincimenti.  

Auschwitz può aiutarci a comprendere il punto più alto ed estremo del male politico del Novecento perché ci dice che un male latente, date certe condizioni, può farsi, ancora una volta, vivo e estremo.

Dunque. Anziché porsi la domanda cara alla metafisica: «che cosa è il male?», che è interrogativo privo di una risposta definitiva perché il male non è una essenza, né una sostanza, risolvendosi sempre e soltanto in una azione, conviene piuttosto affrontare il problema da un altro versante che coincide con l'individuazione di tutte le misure utili a contenere il potere perché - finalmente! - regni la giustizia, anziché la tragica normalità del male.  

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Articolo pubblicato il 19/06/2023