Quel che l'Italia deve alla monarchia
Cappella di San Bernardo al Santuario di Vicoforte (Cuneo)

Di Aldo A. Mola

Lo Stato d'Italia è giovane. Quando nel 1861 venne “proclamato” mancava dell'intero Triveneto e persino di Roma. Aveva un solo alleato disposto a dargli una mano, la Francia di Napoleone III, favorevole a una “unione” degli Stati preesistenti ma non all'“unificazione”. Alla nascita il Regno fu riconosciuto solo da Gran Bretagna, che per decenni ne aveva propiziato gestazione e parto, Svizzera, Grecia e Stati Uniti d'America, all'epoca ininfluenti in Europa. Gli altri lo riconobbero col contagocce. Prussia e Russia lo fecero nel 1862. La Spagna nel 1864. Solo nel 1867 l'Italia sedette a Londra in una conferenza diplomatica generale, che ratificò l'annessione del Veneto euganeo, frutto della guerra italo-prussiana del 1866 contro l'Austria.

L'unica vera risorsa della Nuova Italia era Vittorio Emanuele II di Savoia. A 29 anni, il 23 marzo1849, aveva ereditato la corona di Re di Sardegna dal padre Carlo Alberto, sconfitto dall'impero d'Austria e abdicatario. Fece due scelte fondamentali: conservò lo Statuto che garantiva uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, qualunque fosse la loro religione, e l'elettività della Camera dei deputati. Il sovrano non interferì mai nella vita del Parlamento, neppure del Senato i cui componenti erano indicati dal governo e da lui nominati.

Su quelle basi la quasi totalità dei patrioti puntò sulla monarchia per coronare il Risorgimento: unità, indipendenza, libertà, il programma abbozzato dall'Illuminismo, ripreso nell'età franco-napoleonica e dai liberali dopo la Restaurazione del 1814. Protagonisti all'epoca furono le società segrete di varia denominazione, soprattutto carbonari e massoni. Dopo decenni di cospirazioni e insurrezioni pagate a prezzo della vita e di carcere duro, l'“Idea d'Italia” divenne realtà. Ma era fragile. Rischiava di essere spinta sugli scogli da chi la voleva diversa (federale o persino repubblica) e da chi la pretendeva al di sopra delle sue risorse effettive, in conflitto contro tutti.

Politico accorto, Vittorio Emanuele II, prima e dopo il geniale ma talvolta intemperante Camillo Cavour, capì che il nuovo Stato d'Italia era nato per miracolose convergenze tra le maggiori potenze d'Europa e doveva guadagnarsene la benevolenza. Ottenuta a malapena la Lombardia nel 1859, l'anno dopo il Re aveva invaso l'Umbria e le Marche e, senza dichiarazione di guerra contro Francesco II di Borbone, re delle due Sicilie, era corso a Napoli per scongiurare il rischio che il Mezzogiorno divenisse la polveriera d'Europa. Il papa Pio IX punì con la scomunica lui, i principi della Casa, il governo, i parlamentari, la Nuova Italia.

Che fare? Quando giunse l'ora, il Re andò oltre. Camicia aperta sul petto, lo aveva promesso a Isacco Artom, il diplomatico cresciuto con Costantino Nigra alla scuola di Cavour: irrompere in Roma prima che la Città Eterna cadesse nelle mani di repubblicani e di adepti dell’Internazionale in libera uscita dopo la sconfitta di Napoleone III da parte della Prussia di Bismarck. Se in Italia fosse accaduto anche solo in minima parte quello che avvenne a Parigi con la “Commune” il regno sarebbe naufragato. Lo capì bene Giuseppe Garibaldi che nel 1871 ribadì la sua appartenenza a un'altra Internazionale, quella azzurra, dei “grembiulini”, fedele alla formula “Italia e Vittorio Emanuele”.

Dopo la fortunosa annessione di Roma e del Lazio (20 settembre 1870), la Nuova Italia tirò i remi in barca e veleggiò nelle acque procellose delle rivalità tra le maggiori potenze: indipendente sempre, isolata mai, come insegnò Emilio Visconti Venosta. C'era tutto da fare: Esercito e Marina, corpo diplomatico, studi superiori, ferrovie, strade, sistema produttivo, commerci interni e internazionali e saldare i debiti contratti nella “tempesta magnifica”. La Nuova Italia varò l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, l'educazione fisica maschile e femminile, l'unificazione dei codici, l'adozione di rituali civili da un capo all'altro di un Regno che per la prima volta nella storia ebbe unità di moneta e di servizi postali e si dotò di legge sanitaria d'avanguardia e del codice penale che abolì la pena di morte: un primato mondiale.

Vittorio Emanuele II morì nel 1878, a soli cinquantotto anni. Ebbe sepoltura al Pantheon. Lì fu raggiunto dalla salma di suo figlio, Umberto I, assassinato a 56 anni da un anarchico il 29 luglio 1900, dopo 22 anni di regno non facile, tra organizzazione interna e obbligo di partecipare alla colonizzazione dell'Africa, “missione dell'uomo bianco” capitanata da Gran Bretagna e Francia. Il regicidio spalancò gli occhi a tanti fino a poco prima riluttanti ad assumere responsabilità di governo. Fu il caso di radicali e cattolici concilianti. Più volte invitati e persino esortati a condividere responsabilità di governo, i socialisti, anche “riformisti” rimasero all'opposizione.

“Impavido e sicuro” Vittorio Emanuele III assunse la Corona giurando fedeltà allo Statuto dinanzi alle Camere riunite. Con vaste riforme sociali, il conferimento del diritto di voto a tutti i maschi maggiorenni anche se analfabeti e la presenza nel Paese soprattutto a fronte di calamità naturali, sempre affiancato dalla Regina Elena, radicò la monarchia unitaria nel costume degli italiani.

Per discuterne, anche con valutazioni severe, come è lecito che sia, occorre conoscerne il lunghissimo regno (1900-1946), costellato di successi e di pagine dolorose.

Aldo A. Mola

Il 17 dicembre 2017 il feretro di Vittorio Emanuele III venne traslato da Alessandria d'Egitto al Santuario di Vicoforte (Cuneo), voluto dal duca Carlo Emanuele I quale Mausoleo della Casa di Savoia. Nella Cappella di San Bernardo, in sepolcri appositamente allestiti, vi raggiunse quello della Regina Elena, giunto due giorni prima da Montpellier. Nel silenzio della Provincia Granda il Re attende il giudizio della Storia.

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Articolo pubblicato il 21/06/2023