Ritorno in Eritrea

Di Francesco Cordero di Pamparato

Era il 1992. Francesco ritornava in Eritrea dopo vent’anni. La guerra, che aveva fatto fuggire lui come tanti altri italiani, era finita. Ora regnava la pace, ma cosa avrebbe trovato dopo tanti anni di guerra?

Mentre scendeva dall’aereo, notò in fondo alla pista un vecchio DC3 Dakota con un’ala spezzata e un carrello rotto. Era inclinato in un angolo, sembrava un grosso uccello abbattuto. Poco più lontano un blindato capovolto giaceva ai bordi della pista. Erano simboli del triste passato appena finito. Nel frattempo, un dromedario girava indisturbato per i terreni circostanti la pista. In cielo volavano molti falchi. Erano bellissimi a guardarsi.

Il sole tropicale emanava una luce che ricordava, ma che non era più abituato a sopportare. Il personale dell’aeroporto era molto gentile, anche se circolavano molti uomini e donne armati di tutto punto. Il suo taxi era una vecchia macchina dei primi anni Cinquanta, si muoveva lentamente; il motore era alquanto consumato. Le abitazioni della periferia erano tutte crivellate da proiettili, prova evidente della guerra.

In città la maggior parte delle case avevano moltissimi verti rotti. I negozi avevano ancora le serrande abbassate. Dietro ai vetri si vedeva che le vetrine non contenevano quasi niente. Nei vent’anni che era mancato la città non si era evoluta.

Aveva fatto grandi passi indietro.

La guerra aveva lasciato delle ferite profonde. La cosa peggiore però era ben altra. Centinaia di migliaia di vittime. Ogni famiglia piangeva i suoi morti. Tutti avevano avuto dei lutti. Come se non fossero bastati i danni!

Riuscì a mangiare nell’unico albergo rimasto in ordine, ma a dormire dovette andare in quello vicino, che era in uno stato penoso. La stanza era colorata in un verde elettrico sino ad un metro di altezza, poi di un bianco sbiadito. La finestra aveva le due ante svirgolate, con i vetri all’inglese, di cui quelli rotti erano alternati a quelli buoni. Sembrava quasi formassero una scacchiera. In ogni caso non stava chiusa. Per evitare che rimanesse aperta dovette appoggiarle contro la valigia. In una parete c’era un lavandino con due rubinetti. L‘acqua che sarebbe dovuta uscirne, era un misto di ruggine e pietruzze con qualche goccia di liquido.

Fortunatamente il giorno dopo riuscì a cambiare albergo.

Lì funzionava tutto, tranne il sifone del gabinetto, ma un catino, fornito dall’albergo, ne svolgeva le funzioni. I giorni passarono tranquilli sino al referendum, che avrebbe dovuto sancire l’indipendenza dell’Eritrea. I risultati furono eccellenti: solo due voti contro l’indipendenza. Tutti e due erano il frutto di un errore. Sembra che una donna, che aveva sbagliato, si fosse suicidata. Quando i risultati furono noti, Francesco poté assistere ad una delle più belle e commoventi manifestazioni di tutta la sua vita.

Tutti gli abitanti di Asmara si erano riversati nelle strade e confluivano verso il centro. Cantavano, ma si muovevano in estrema compostezza. Ogni tanto i giovani si fermavano per ballare, ma mai danze sfrenate. Tutto si svolgeva con una gioia indescrivibile, ma sempre contenuta, con uno stile che sarebbe stato da insegnare agli europei. Francesco era stato lì durante la guerra e ne conosceva le tragedie. Era stata di una violenza feroce e mostruosa.  I morti erano stati moltissimi. Era durata trent’anni e molti dei giovani che ora sfilavano non avevano mai conosciuto la pace. Non sapevano cosa fosse. Ora però, davanti alla libertà, più di duecentomila persone manifestavano la propria gioia, con una compostezza inimmaginabile. Lui, anche se straniero era stato coinvolto e invitato a danzare e a cantare con loro. Lo avevano cooptato con molta cordialità. Era tornato a casa felice. Aveva assistito alla nascita di una nazione.

Nascita che era avvenuta con estrema civiltà.

Il giorno dopo si cercò di controllare se qualcuno avesse fatto dei danni.

Duecentomila persone avevano manifestato la propria gioia: avrebbero potuto farne molti.

Invece solo il retrovisore di una macchina era stato rotto.

Per il resto tutto era rimasto come era prima. Lui continuava ad ammirare la civiltà di un popolo, di cui molti nel mondo ignoravano l’esistenza.

Pochi giorni dopo ci fu festa per l’indipendenza. Si svolse in un grande padiglione all’aperto, creato molti anni prima per un’esposizione nazionale.

Francesco ci andò con Mario e due ragazze eritree, ex soldatesse. Una raccontò, senza scomporsi, come aveva ucciso a sangue freddo i prigionieri che le erano capitati da gestire quando verso la fine della guerra era stata assegnata al Servizio Torture. La cosa lasciò un po’ turbati i due italiani.

Più tardi seppe che nella battaglia di Massawa, il marito le era morto tra le braccia; lei era stata ferita gravemente tanto da avere un’emorragia e perdere il bambino che aspettava. Per quello era diventata tanto crudele.

Per il resto la festa si era svolta con la solita compostezza e civiltà. Persino gli ubbriachi non avevano dato fastidio!

Qualche giorno dopo decise di recarsi al mare, alla città martire.

Il viaggio verso Massawa era durato due ore, come di consueto, anche se la strada era piena di buche. Una volta la città era magica.

Pareva che il tempo lì non fosse mai esistito.

Il forte calore creava una sorta di nebbia, un’atmosfera irreale, da cui le case sembravano emergere. Erano costruzioni bianche o comunque chiare, in stile arabo: squadrate, ma con archi e finestre con le muscarabie.

Emergevano da un mondo che trascendeva la realtà di un europeo.

Sembrava una città fatata, onirica che provenisse dalle fiabe delle mille e una notte.

Questa volta Francesco si vide davanti una città diversa.

Comprese quasi subito perché ora la chiamavano la città martire.

Prima della battaglia che vi si era svolta, la città aveva sessantamila abitanti.

Ora ne aveva diecimila.

In periferia era quasi logico aspettarsi che le capanne di legno dei tacruri fossero scomparse. Questi personaggi erano musulmani, poveri pellegrini che raggiungevano il Mar Rosso da varie regioni dell’Africa. Partivano a piedi da chissà dove. Probabilmente da molto lontano. Si fermavano per qualche tempo a Massawa per poi imbarcarsi per la Mecca nel periodo del pellegrinaggio. Le loro capanne erano fatte con rami e altri pezzi di legno. Logico che fossero sparite, con i poveri pellegrini che non erano più tornati in quella città.

Quello che lo sorprese furono i quartieri in muratura. Ne ricordava particolarmente uno, probabilmente il più vasto e popoloso: grande, pieno di negozi e brulicante di vita e di attività. Era completamente scomparso. Non c’era più neanche una casa, un muro o un mattone.

Solo sabbia, desolazione e morte.

Quel silenzio e la desolazione, dove una volta c’era stata una vita intensa e vivace, evocava i fantasmi e gli spiriti dei morti. Fantasmi, silenti testimoni di una grande tragedia.

Negli altri quartieri, tutte le case erano sforacchiate e deturpate dai fori di migliaia di pallottole. Gli ricordavano certi mobili antichi, tutti traforati dai tarli.

Qui non c’erano tarli.

Erano fori di pallottole, testimoni di una guerra feroce e fratricida. Non c’era una sola casa che non fosse stata colpita da proiettili di armi automatiche. In terra i bossoli di AK47 erano più numerosi delle pietre. Persino la cupola del meraviglioso palazzo imperiale in stile arabo era stata lesionata. Le persone che si aggiravano erano poche.

Gli abitanti più numerosi erano i corvi. Quei grossi uccellacci neri si muovevano con la solita arroganza e sfrontatezza, su è giù per la città. Camminavano con le loro zampette corte, con un passo che sembrava quello dei soldati nazisti. Erano incuranti di tutto. Nessuno li disturbava, sembravano ostentare sicurezza di sé. Sull’altopiano i falchi li avevano cacciati, ma qui tra cadaveri e rovine vivevano tranquilli. Erano loro i padroni della città.

A Francesco non piacevano.

Quella loro sfacciata insolenza lo urtava. Non c’era niente di bello in quelle bestiacce, persino il loro verso era sgraziato. Preferiva di gran lunga i falchi, che volavano solenni sull’altopiano. Si libravano in cielo come aquiloni, il vento li portava sulla sua testa, tanto bassi che li vedeva negli occhi, poi quando avvistavano una preda si buttavano in picchiata e svanivano in distanza nei precipizi tra le montagne. Guardando ancora intorno a sé vedeva pochi segni di vita, evidenziati da qualche capanna costruita in lamiera ondulata. Ne rimase stupito. Come si poteva vivere in quelle condizioni con un caldo da cinquanta gradi? Eppure, c’era chi resisteva. Vedeva gente che vi entrava o che usciva.

Qualche giorno dopo, con il solito amico, decise di fare un viaggio nel bassopiano. Quando aveva vissuto in quel paese, vent’anni prima, non era mai stato possibile, la regione era abitata da ribelli e quindi andarci era vietato. Ora i ribelli avevano vinto, l’Eritrea era libera e quindi si poteva andare. Dopo Keren e la strada del Dongolas, si aprì un paesaggio magico. La pianura era sterminata, a perdita d’occhio. Una landa piatta e arsa; il terreno sembrava di sabbia. Qua e là qualche acacia ombrellifera. Ogni tanto un sicomoro o un baobab.

A mano a mano che la jeep procedeva, gli alberi sparivano e rimanevano solo le acacie ombrellifere. Anche gli animali non si vedevano. Solo qualche dromedario, anche se si sapeva che la regione era piena di scimmie. Si fermarono a mangiare in un villaggio. Videro un gruppo di persone che si riparava dal caldo all’ombra di un sicomoro. Erano tutti seduti e tranquilli, composti e in silenzio. Dopo mangiato videro che le persone di prima erano ancora all’ombra del sicomoro. Si erano spostate con l’ombra, per rimanere al riparo. Chiese cosa aspettavano. Gli fu risposto che aspettavano la corriera, che sarebbe dovuta arrivare all’alba.

Era l’una di pomeriggio.

Erano ancora lì ad aspettare.

Tranquilli, calmi e impassibili.

La parte più toccante del viaggio venne dopo, in quello che probabilmente era il territorio più caldo del Bassopiano. Lì, su un’estensione di ottanta chilometri, durante la guerra, ottantamila uomini dell’esercito etiopico erano morti di stenti, per il caldo eccessivo. C’erano più di cinquanta gradi. Qua e là si vedeva ancora qualche cadavere. Povere ossa annerite e risparmiate dalle iene. Cadaveri insepolti e testimoni della tragedia. Oltre ai cadaveri si sentiva la presenza drammatica degli spiriti dei morti. Qualche giubba sbiadita si era andata ad incastrare nei rami e nelle spine delle acacie e il vento la faceva muovere e agitare, quasi volesse dare segni di una vita, che invece si era spenta. Nelle vicinanze un paio di pantaloni giaceva immobile sul terreno, come se il padrone se li fosse sfilati un momento. Più in là un paio di scarpe posate una di fianco all’altra con un ordine tanto perfetto quanto grottesco. Armi, ancora efficienti abbandonate nella pianura, vicino a semoventi usciti di strada per chissà quale motivo.

Così senza soluzione di continuità per tutti gli ottanta chilometri.

Più o meno un morto al metro.

Al ritorno di quel viaggio volle riprendere l’aereo e ritornare a casa.

Non era più quello di prima.

Le guerre e le loro tracce lasciano segni dolorosi. Ringraziò che vent’anni prima, ne aveva vissuta poca. Era tornato in Italia in tempo. Le guerre sono crimini che lasciano solo profonde ferite.

Non importa se si è vincitori o vinti.

Francesco Cordero di Pamparato

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Articolo pubblicato il 02/07/2023