Storia senza rete?

Corsi e ricorsi della Civiltà (di Aldo A. Mola)

Gli Astri? Pollice verso

Come finirà? Niente ispira e/o legittima ottimismo. L'unica certezza, anzi, è che si va di male in peggio. La Storia presenta il conto dei debiti non saldati. Lasciato alle spalle l'equilibrio del terrore (sempre meglio che la catastrofe), da quando sulla scena delle massime potenze Henry Kissinger inserì la Cina, il Mondo non si è affatto avviato al multilateralismo. Ma quel Segretario di Stato era un euro-americano. Prima di entrare nelle moschee, si levava le scarpe. Dopo di lui, un errore dopo l'altro il pianeta si è avviato verso l'anarchia internazionale. Ora è sull'orlo dell'abisso.  

L'Organizzazione delle Nazioni Unite fu istituita il 25 aprile 1945, mentre in Europa la seconda guerra mondiale era ancora in corso. Nel Preambolo del suo Statuto (approvato il 26 giugno, cinquanta giorni prima delle bombe americane sul Giappone, e in vigore dal 24 ottobre seguente: l'identico giorno della Pace di Westfalia che nel 1648 mise fine alla Guerra dei Trent'anni) i “popoli” (non “Stati”) delle Nazioni Unite si impegnarono a “salvare le future generazioni dalle guerre; a riaffermare la fede nei fondamentali diritti dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne, e delle nazioni grandi e piccoli; a vivere in pace uno con l'altro da buoni vicini; a promuovere il rispetto per i diritti umani e per le libertà fondamentali di tutti gli uomini senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua e di religione”. Solo retorica o un bisogno profondo della “pace in terra agli uomini di buona volontà” annunciata millenni prima e accoratamente invocata da Giovanni XXIII?

Però sin dalla nascita dell'ONU i componenti della sua “cupola”, cioè i membri del Consiglio di Sicurezza (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina, quella di allora, non la Repubblica popolare che le subentrò) erano già preda di nuovi conflitti. Forti del diritto di veto, essi svuotarono l'Assemblea di potere effettivo. Le affidarono l'onere di varare costose “missioni di pace” per arginare interminabili “guerre di teatro”, combattute in territori circoscritti, inizialmente con armi rudimentali, poi via via più sofisticate.

 

La risacca degl'imperi coloniali

Tra il 1945 e l'inizio degli Anni Sessanta la carta politico-militare del pianeta mutò drasticamente. La finzione prevalse sul Diritto delle genti.

Nel 1945 l'Europa era un cumulo di macerie. Gli imperi coloniali frettolosamente affastellati nel secolo precedente stavano crollando sotto l'impeto di Fronti di liberazione in parte eredi della lotta dei colonizzati contro i dominatori, in parte eterodiretti anche da chi, come anche gli USA, miravano a impossessarsi delle loro spoglie, piagate ma pingui di risorse naturali e di quelle “terre rare” oggi al centro degli appetiti delle grandi potenze e di “agenzie” dal profilo politico-militare ancora ambiguo. Nella seconda metà del Novecento gli “atlanti storici” sui quali si studiava erano ormai obsoleti e mendaci. Registravano i domini afroasiatici di Stati europei geo-militarmente ormai irrilevanti, come Paesi Bassi, Belgio e Portogallo. Lisbona contava ancora “piazze” in India e possedeva da secoli l'Angola e il Mozambico. Che cosa ci aveva mai fatto di civile e costruttivo? Vi irruppero i guerriglieri che avevano “liberato” Cuba a beneficio di Castro, complice Ernesto Guevara”, il “Che”.    

La sconfitta del 1943-1945 e il trattato di pace del 1947 liberarono l'Italia dal peso dell'impero coloniale. Conquistatolo pochi anni prima (1911-1936), lo Stato non ebbe tempo a radicarvisi, né modo e motivo di combattere per rimanervi. Così, una fortuna tra tante sventure, l'Italia non divenne approdo di un numero condizionante di ex “colonizzati” che invece si riversarono in altri Stati europei dopo il crollo dei loro imperi e vi si accamparono da estranei. Per l'Italia l’“Impero” rimase un “mito”, avvolto nelle leggende, al pari dell'“antica Roma”. Andò molto peggio ad altri Paesi del Vecchio Continente per i quali gli antichi domini risultarono una pesantissima palla al piede. Va anche aggiunto che il modello di imperialismo italiano, al netto dei toni magniloquenti di minoranze fanatiche, ebbe per fondamento l'universalismo latino (da Cicerone e Seneca al neognosticismo) e quello cristiano (da san Paolo a Pelagio). Da quando ebbero colonie, i governi della Nuova Italia nominarono alla loro guida i politici più colti. Ne furono governatori, ministri e sottosegretari Ferdinando Martini, Enrico De Nicola, Gaetano Mosca, Gaspare Colosimo,  Francesco Saverio Nitti, Bartolomeo Ruini, Giovanni Amendola, in maggioranza massoni e teosofi. Il 31 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III su proposta di Mussolini nominò ministro delle colonie il carducciano Luigi Federzoni, uomo del Risorgimento come poi Alessandro Lessona: tutt'altra pasta rispetto a rozzi ras di provincia, a ottusi federali e a Rodolfo Graziani, rapidamente sostituito con Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, viceré d'Etiopia.

 

L'alba nebbiosa della Nuova Europa

Dalle due grandi guerre, scatenate da suoi Stati e divenute mondiali, l'Europa non apprese granché. “Lento pede” avviò un Mercato comune e Assemblee consultive di modesta valenza rappresentativa, come il Consiglio europeo, ma non varcò mai il Rubicone per fondere gli Stati nazionali in federazione politico-militare. La Nuova Europa morì in fasce per il voto contrario della Francia alla istituzione della Comunità europea di difesa (Ced), che avrebbe comportato un armamento sia pur minimo degli odiati “boches”. A parte pochi statisti lungimiranti (Schuman, Monnet, Adenauer, Degasperi...: tutti uomini “di confine” come ha è stato ricordato il 30 giugno 2023 in un video-convegno dell'Istituto Giorgio Galli di Milano presieduto da Daniele Comero) i “politici” della Nuova Europa camminavano con la testa volta all'indietro, ossessionati dalle guerre del Cinque-Novecento.

Il 5 marzo 1946 fu l'inglese Winston Churchill alla presenza dell'americano Harry Truman a denunciare in Fulton (USA) che sull'Europa era calata la “cortina di ferro” da Stettino a Trieste e che era ora di armarsi contro il nuovo nemico: l'URSS di Stalin e i suoi accoliti annidati nei partiti comunisti dell'Europa occidentale. Divennero sospetti sia i “partigiani della pace” (non di rado succubi della propaganda filosovietica) e i fautori di una “terza via” riluttanti a schierarsi per l'ennesimo “Ordine Nuovo”. Quale? Anziché dar vita a una federazione, gli Stati europei entrarono alla spicciolata nella Nato, alleanza difensiva destinata ad ampliare sempre più (e in termini via via più erratici) il raggio delle sue “missioni”. Vi entrarono nella convinzione di sedervi da pari, non da “soci di minoranza” né, meno ancora, da succubi. Però chi aveva perso la guerra dei trent'anni (1914-1945) non poteva chiedere di più né di meglio. Da molti Paesi aderenti la Nato venne intesa come la coperta che consentiva di risparmiare per la propria difesa e risalire la china dal baratro delle tante guerre, anche “civili”, che li avevano devastati, seminando odi inestinguibili al loro interno e nei rapporti internazionali.      

Per decenni europeisti militanti s'incaponirono a includere la Gran Bretagna, sempre riluttante, scostante e infine contraria a riconoscersi in una comunità che prima o poi avrebbe richiesto agli inglesi di adottare l' “euro” al posto della sterlina. Inammissibile oltre Manica. L'“Inghilterra” accettò di accedere all'Unione Europea. Come in un pub. Quarant'anni dopo ne uscì, aprendo una discussione interminabile sul conto della “consumazione”.

 

Alla ricerca della Storia perduta

L'Europa odierna è quella che è. Per quanto bizzarro (o buffo), l'unico suo tratto distintivo unitario è l'uso dell'anglo-americano quale “lingua franca”. Essa dispensa gli europei della terra ferma dall'apprendere l'idioma dei popoli confinanti con tutte le sue difficoltà e astruserie. Usando l'inglese i tedeschi non hanno motivo di scrivere in francese (un vero tormento), né i francesi debbono affaticarsi la trachea e i polmoni parlando in tedesco. Così gli “europei” finirono per conoscersi a vicenda sulla base di traduzioni dall'inglese dei loro stessi “classici”, proprio mentre i cinesi studiano il diritto romano, come insegna Tito Lucrezio Rizzo.

Ora l'Europa ha la guerra in casa. L'Ucraina è a due passi. Per rispondere all'aggressore, il suo “presidente/comandante”, perennemente “in divisa”, con toni sempre più minacciosi pretende i migliori aerei da combattimento e missili di lunga gittata, ai quali il nemico risponderà con armi ancor più potenti. Siamo in corsa verso il precipizio. L'opinione pubblica europea era e rimane impreparata dinnanzi a un “evento” che era nelle cose e che ha sorpreso solo gli imprevidenti immersi sino agli occhi nelle cronache delle lotte elettorali per un potere che non c'è. Senza politica estera e di difesa comune, l' “Europa” è semplicemente inesistente. Balbetta. Per un anno i suoi elettori verranno tempestati dalla gara tra partiti in lizza per i seggi dell'Europarlamento. Ad assetto istituzionale invariato, esso darà gli stessi risultati di quello ormai prossimo allo scioglimento. Tra modesto e mediocre. C'è poco da attendersi. Il generale Claudio Graziano, già presidente del Comitato Militare dell'Unione Europea, lo ha detto in tutti i modi e lo ha scritto in “Missione. Dalla Guerra fredda alla Difesa europea” (ed. Luiss). Per costruire un sistema difensivo adeguato a misura dell'Europa che non c'è occorrono due decenni; e per programmarne uno più avanzato ne occorrono altri venti. Ma ...la Storia non aspetta.  

La Storia ha insegnato poco o niente. Perché il suo studio costa fatica. È “magistra vitae” solo per chi la conosce. Anche i Libri, dal Vecchio e Nuovo Testamento al Corano alla Pace perpetua vaticinata da Immanuel Kant, rimangono ermeticamente chiusi. I pochi che se ne ricordano hanno le mani ripiegate sconsolatamente sulle ginocchia e le palpebre affaticate dalle quotidiane scene di guerra. Non orano e non lavorano, come il 30% dei “giovani” europei della generazione “ni-ni”.

 

Senza rete

Tra i segnali meno incoraggianti uno merita un cenno. Proprio in queste ore una rivista di storia nata quasi vent'anni addietro ha abbassato le vele, tirato i remi in barca e non si sa se riprenderà mai il largo. Ne ha dato notizia nel suo sito il direttore/amministratore.

Perché parlarne? Edicole (sempre meno: fanno una vita d'inferno, giorno dopo giorno svuotate dalla comunicazione “in rete”) e grandi magazzini sono colme di riviste d'ogni genere. Nulla, però, di paragonabile alla celebre “Storia illustrata” e ai suoi predecessori ed emuli. L'ultimo nato della serie fu, appunto, il mensile “Storia in Rete”, nato per evoluzione da un “sito web” e grazie a un generoso sostegno.

Nel suo numero Zero il direttore enunciò l'obiettivo del mensile: valorizzare le ricerche d'archivio per rimettere in movimento il dibattito sul passato. Era l'ottobre del 2005. Il n.1 uscì a novembre, il mese che si apre con la festa di tutti i santi e continua con la rievocazione dei morti. I suoi collaboratori pressoché fissi, alcuni inclusi nel Comitato scientifico originario (Aldo G. Ricci, Nico Perrone, ..) altri presenti nel mensile per quasi vent'anni con rubriche o articoli (il cartografo Emanuele Mastrangelo, lo storico Luciano Garibaldi..) ebbero l'obiettivo di andare  oltre gli steccati che da decenni dividevano la “storiografia” in fazioni ricalcanti le divisioni tra partiti e la sussunzione degli studi in Fondazioni dai nomi emblematici: l'Istituto Gramsci, lo Sturzo e via continuando... Venne ripetutamente osservato il vuoto di rappresentazione della tradizione liberale. Ma anche molti fascicoli di “Storia in Rete” finirono per replicare il dualismo che deprecava e intendeva superare. La rivista doveva rintuzzare la fatua accusa di “revisionismo”. Lo fece con articoli magistrali di Paolo Simoncelli e di tanti autori non incasellati in “scuole”e/o tifoserie, ma non sempre pose al centro la storia delle Istituzioni, quasi mai si occupò di corpo diplomatico, magistrature, conferenze episcopali. Quasi mai dell'assetto dell'Europa. 

Ora anche “La Civiltà Cattolica”, quindicinale della Compagnia d Gesù, lancia l'allarme. Il modello liberal-democratico è in crisi proprio negli Stati europei che l'hanno tenuto a balia. Con l'eclissi del Centro la “politica” sbanda, deraglia, si decompone in lotte di quartiere tra movimenti quantitativamente minoritari, di recente costituzione, gonfi di pretese, privi di orizzonti. I toni si alzano anche nei luoghi più sacri, come le Aule parlamentari sovente semideserte. Vedere tanti “politici” strabuzzare gli occhi e usare parole e gesti veementi, giustificandoli quale frutto di passione proprio mentre occorrono ragionamenti pacati, non fa sperare in bene.

Dunque, come finirà? Probabilmente male. Ma non è la prima volta. Sono i corsi e i ricorsi della Civiltà.

Aldo A. Mola

La copertina dell'ultimo numero del mensile “Storia in Rete” (n. 198, maggio-giugno 2023). La sua riproduzione in questa sede non è “pubblicità” né esplicita né occulta perché la rivista, ritirata dalle edicole, ormai è una “reliquia”. Il suo direttore ha comunicato la sospensione delle pubblicazioni, a metà dell'anno, con una sobria nota di ringraziamento ai “collaboratori”. Per sempre? Per qualche mese? Staremo a vedere. Contando anche il numero Zero, nel tempo pubblicò 199 fascicoli (molti dei quali con numerazione doppia anche se di pari pagine a quelli ordinari) e una ventina di “Speciali”. Nell'insieme la sua raccolta è una significativa biblioteca di buoni propositi e di voci risuonanti nel deserto.

Il 28 giugno il libro richiamato dalla copertina del numero 198, “Vita di Vittorio Emanuele III (1869-1973). Il Re discusso” (ed. Bompiani) è stato al centro di un ampio dibattito in Torre San Giorgio (Cuneo) per iniziativa della locale Associazione Libertas Cultura guidata da Branca Lore Muller e da Elena Franco, con ampia partecipazione di sindaci, amministratori e cittadini accomunati dal desiderio di conoscere il passato per meglio orientarsi nel presente e a cospetto di quanto li attende. Come l'autore del libro, anch'essi ricordano e praticano l’evangelico “Nolite iudicare...”. Il compito dello studioso (ogni cittadino oggi ha i mezzi per esserlo) non è di assolvere, condannare o sbrigativamente “giustificare” le nefandezze solo perché sono avvenute. Il compito è documentarsi, comprendere e spiegare.

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Articolo pubblicato il 02/07/2023