Come una brutta storia diventò un capolavoro

Manzoni ci insegna come raccontare l’orrore senza turbare nessuno

Quando un libro o un film sono ambientati nel seicento penso che molti, come me, temano di imbattersi in scene di violenza o immagini sanguinolente superate solo da quelle frequenti nelle scenografie medioevali. Eppure da tempo immemorabile studenti di quindici o sedici anni sono chiamati a leggere, e per di più a scuola, una storia ambientata più o meno all’epoca dei processi a Giordano Bruno, a Galileo o agli sventurati “untori” della Storia della colonna infame.

Mi riferisco evidentemente alla vicenda narrata da Manzoni nei Promessi sposi; un violento signorotto spagnolo che spadroneggia con ferocia nei territori del lecchese durante la dominazione, appunto, spagnola della Lombardia del tempo, vista una bella ragazza del luogo mentre tornava dalla filanda dove lavorava, decide di fare una scommessa con un suo cugino, un figuro che definire poco raccomandabile è poco; di lì a qualche giorno la ragazza sarà nel suo castello e lui ne farà quello che vorrà. Ecco come comincia la storia di Renzo e Lucia.

A raccontarla così, mi viene in mente una fiction di cui non ricordo il nome, in cui due uomini, nel secondo dopoguerra del secolo scorso, guardavano le mondine lavorare nelle marcite, facendo pesanti apprezzamenti sulle gambe che spuntavano dalle gonne tenute sollevate sopra l’acqua putrida dove erano immerse, per non parlare delle zanzare che le assalivano da ogni parte. I due uomini, evidentemente esponenti del “caporalato” dei braccianti dell’epoca,  ridevano sguaiati guardando le ragazze mezze nude nel caldo umido soffocante in cui erano immerse, sdraiati su comode poltrone all’ombra, sorseggiando una bibita. Non solo; a volte sollevavano lo sguardo e con aria distratta chiamavano una delle sventurate mondine per portarsela in qualche stamberga e farne quello che volevano. Pena del rifiuto, ovviamente, l’allontanamento dal lavoro e la privazione del misero, ma indispensabile salario. Una scena, per me, e immagino non solo per me, raccapricciante, morbosa e angosciante, che mi turba ogni volta che ci penso.

Niente di molto diverso, in fondo, da quello che avviene quando don Rodrigo vede Lucia e se ne incapriccia. Eppure il racconto di Manzoni non mi ha mai turbato, così come mi risulta  non abbia mai disturbato la sensibilità di nessuno dei miei alunni in quarant’anni di scuola. E pensare che Manzoni voleva  proprio ottenere di scrivere il “vero”: ”L’utile per iscopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo” scrive nella sua  celebre lettera al marchese Cesare d’Azeglio.

E allora? Chi ha raccontato “il vero”? Lo sceneggiatore della fiction o Manzoni? Direi che la risposta sta proprio nella poetica manzoniana. ”L’utile per iscopo”; con tutte le cautele che derivano dai tempi, dai generi e dagli obiettivi diversi dei due esempi, non c’è dubbio che per Manzoni scopo della letteratura sia “l’utile”, in perfetta sintonia con il buon senso pratico del Romanticismo lombardo. E quindi se la verità, o almeno il verisimile, deve essere il soggetto della scrittura, è fuor di dubbio che la storia narrata da Manzoni sia assolutamente in linea con la realtà del seicento; cruda, feroce, violenta. Ma prima ancora che “vera” la storia deve essere “utile”: utile a cosa, a chi?

È chiaro che qui a decidere è l’opinione dell’autore, la sua sensibilità, il suo modo di concepire la vita. Manzoni si rivolge al suo pubblico, l’ampio (per l’epoca) pubblico di nobili e borghesi benestanti che potevano permettersi l’acquisto di un libro, sapevano ovviamente leggere e scrivere e spesso condividevano con lui le simpatie verso le istanze romantiche liberali e progressiste. Un libro che fosse utile a porre le basi per una società più giusta e partecipata, insomma; ma Manzoni, come si sa, poneva anche grande attenzione all’aspetto morale del suo lavoro, come succede spesso a chi, come lui, è approdato ad una scelta di fede dopo una giovinezza passata nel segno dell’indifferenza, quando non dell’ostilità, verso ogni forma di regola morale e di una visione anticlericale del pensiero.

Una scelta fondamentale, come tutti sappiamo; la “conversione”, accompagnata, anzi anticipata, da quella della madre, la marchesa Giulia Beccaria e dall’abiura al calvinismo della giovane moglie, Enrichetta Blondel, rappresenta forse l’evento più importante della vita di Alessandro Manzoni. L’ “utile”, quindi, si colora per lui di moralità, moralità che è sì rispetto autentico per le regole della morale cattolica, ma soprattutto è profondo rispetto per la sensibilità altrui, derivante dal modo di essere dell’autore, dalla sua fragilità agorafobica (difficilmente usciva di casa non accompagnato), dalla sua timidezza e dalla sua balbuzie, nonché dalla leggerezza cortese ed ironica della sua età adulta, un bel tratto del suo carattere che gli veniva da suo padre, “l’amabile cadetto” Giovanni Verri. La moralità e il rispetto per il lettore,  lontani dal bigottismo di cui tanti accusano ( a mio avviso a torto) I promessi sposi, si rivelano anche nelle scelte formali.

L’esempio più celebre è la famosa reticenza “La sventurata rispose”, in cui Manzoni sintetizza e lascia intuire tutta la terribile storia della Monaca di Monza, raccontata nell’edizione precedente con dovizia di particolari, ma sempre senza morbosità. Ecco le reticenze manzoniane, le ironie leggere sotto cui nasconde fatti crudeli; pensiamo al paese che aveva “l’onore di alloggiare un comandante, il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli”, ai soldati stessi “che insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese , accarezzavano di tempo in tempo le spalle a qualche marito”  e  “sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vie per diradar l’uve e alleggerire ai contadini la fatica della vendemmia”.

La realtà che racconta Manzoni è quella del governo spagnolo che spadroneggia in Lombardia, dei soldati che violentano le donne, infieriscono crudelmente su chi osa tentare di difenderle, e sottraggono ai contadini il frutto del loro duro lavoro, ovviamente. Ma le stesse cose si possono dire in molti modi: Manzoni riesce a rispettare la verità così come la sensibilità di chi legge, a raccontare una “brutta storia” facendola diventare  un capolavoro, allontanando ogni morbosa descrizione di ciò che è facile intuire dalle sue pagine. Forse anche questa è una scelta manzoniana su cui oggi vale la pena di riflettere, in un mondo dove i baci sugli schermi difficilmente sono l’incontro di due labbra che si cercano, ma le bocche si  spalancano come se un otorino chiedesse di dire “A” per verificare lo stato delle tonsille del paziente. A volte anche noi malcapitati  spettatori potremmo consigliarne o meno l’asportazione, avendone potuto constatare facilmente lo stato anche dalla poltrona del nostro salotto.      

 

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Articolo pubblicato il 10/07/2023