Anna Antolisei, da femminile e femminista.
Anna Antolisei Burzio

Una recensione animata da spirito battagliero

Le radici familiari di Anna Antolisei Burzio sono fortemente connotate dalla Legge. A parte il cognome paterno legato al Manuale di Diritto Penale, la madre sposata in seconde nozze con l’avvocato Cesare Zaccone, lei stessa, giovanissima, andata a nozze con un magistrato dall’inflessibile rigore, la nascita sotto il segno della Bilancia le conferisce tutta la versatilità ispirata anche dalla Musa Polimnia.

È una di quelle “madamine” del bel mondo torinese che ha capito presto quanto poco le si addicesse la connotazione sabauda ed è evaporata con una certa velocità da tale imprimatur per materializzarsi come individuo al di là delle etichette.

Un individuo ben determinato nelle battaglie contro la violenza, la sopraffazione e il maschilismo.

Non c’è quindi da stupirsi quando decide di recensire un’antologia… così… a caso! C.M.

 

 

ANTOLOGIA FEMMINISMO di Mara Antonaccio

Recensione di Anna Antolisei

 

Nel 1951, ben prima cioè che l’ondata del femminismo sessantottino travolgesse anche il nostro Paese, una grande Anna Magnani girava il film “Bellissima”, diretta da Luchino Visconti per un soggetto di Cesare Zavattini. È un trinomio, questo, che basta da sé ad assicurare alla pellicola una presenza intramontabile nelle cineteche dedicate al neorealismo italiano.
Consiglierei a molte madri delle generazioni X, Y (i millenials) e Z di rispolverare questo film e di guardarselo con attenzione; se possibile con quel tanto d’intelligenza critica - e autocritica - utile per leggere anche ciò che sta scritto tra le righe, negli interspazi che spesso gli autori lasciano fiduciosamente bianchi perché siano i beneficiari dell’opera ad interpretarne appieno il senso e a trarne le debite conclusioni.

La vicenda in sé, per chi non ricordasse, tratta di una donna inappagata che sposta sulla figlia bambina le sue frustrate ambizioni di successo, di una visibilità che la trascini fuori dalla piattezza della vita piccolo borghese. S’illude ed esige, insomma, che la figlioletta sia davvero vista come “bellissima” e che una folgorante carriera nello spettacolo assicuri alla piccola ciò che a lei è stato negato. Il finale è prevedibile: tutti gli sforzi di Maddalena/Magnani saranno non soltanto vani, ma forieri di umilianti e rovinose delusioni. Vedremo nel film che una tale sofferta sconfitta, insegnerà all’adulta protagonista qualcosa di salvifico vuoi per sé, vuoi per la piccola vittima di un amore autentico, eppure così malamente donato.
Stiamo parlando di una storia superata? Non direi proprio, ma messo in archivio il bianco e nero, come insegna il cinema d’oggi, a noi già edotte figlie della rivoluzione femminile, ad essere madri illuminate e affettuose educatrici? E cos’altro può sottolineare, un lungometraggio d’epoca, nel discorso che si svolge attorno all’attuale giubileo dei movimenti femministi?

Semplice: girato nell’immediato dopoguerra, il film sottende la deriva avversa che ogni grande trasformazione sociale rischia di portare con sé a dispetto - ma qui conviene dire a tradimento - delle legittime finalità che si propone. Infatti non solo oggi, ma con visibilità oggi moltiplicata, accanto a una schiera di giovani donne impegnate, tenaci, ben risolute a conquistarsi un posto al sole nel lavoro e un contestuale affrancamento dall’ordinaria sudditanza al maschio, ecco che compare, massiccia, la palla al piede che frena ogni sforzo di liberazione.

Zavorra, di questo si tratta. Del peso morto costituito dal dilagare e dal perseverare, nel corpo sociale, di un’ignoranza gretta, povera di qualsivoglia curiosità e ricca di stereotipi, che inibisce la crescita dell’individuo e reprime la conseguente autonomia di pensiero, rendendo certe moltitudini schiave di una cultura strumentale tesa a soddisfare il profitto di pochi ben più che a incentivare la consapevole maturazione di molti.
In spregio all’impegno di tante meravigliose, eccellenti creature, esemplari portatrici della “dignità del femminino”, ancora troppe donne non sono affatto immuni dalle martellanti manipolazioni. Basta incappare in un programma di tele-spazzatura, buttare un occhio sulle immagini di copertina in un’edicola, posare lo sguardo sui cartelloni pubblicitari che ricoprono i muri delle nostre città, ed ecco la prova: rieccoci, anzi, esibite in un trionfo di corpi perfetti e “s-velati” a offrire sorrisi ammiccanti ed ebeti; ad assumere pose inneggianti alla sessualità persino quando l’oggetto da promuovere è un frullatore o un’innocente pappa per neonati. Rieccoci, insomma, ridotte - ma nella migliore delle ipotesi - a oggetto di pura, e ambiguamente fruibile decorazione.

Va sa sé che ciò avviene nello sconforto di tutte coloro che, dopo decenni di lotta a favore di un’emancipazione complessiva, “intelligente” del genere femminile, si sentono tornate al punto di partenza; con l’aggravante che la schiavitù del luogo comune di oggi è assai più aggressiva, più deteriore rispetto a quella del loro tempo.

Difficile, allora, che il ricordo delle combattenti ante litteram non vada al fatidico “femmine si nasce, donne si diventa” della matriarca femminista d’oltralpe. Ma come? madame de Beauvoir - e con lei altre mille - spendono fiumi di parole e d’inchiostro allo scopo di far riconoscere il valore oggettivo, sostanziale della donna nella società, e noi siamo ancora qui a difenderci da femminicidi e stupri, da lavoro sottopagato e ipocrite “quote rosa”, da ricatti sessuali o da pietosi paternalismi?

Sì, siamo ancora qui. Per di più gravate, nel nostro cammino, da un’orda di femmine con labbra gonfiate e neuroni anemici, con veline-letterine-professorine che inseguono calciatori e tronisti, con naufraghe isteriche sull’Isola dei Famosi, con carcerate volontarie nella casa-casino del ‘Grande Fratello’ e - dulcis in fundo - con ‘Pupe’ decerebrate accoppiate a improbabili ‘Secchioni’. (Volete apprendere qual è il modo più nobile, elevato, corretto d’intendere le relazioni affettive nella vostra vita, ragazze on the wave? Nessun problema; basta sintonizzarsi sui “live” di Barbara D’Urso e voilà, il gioco è fatto!).

Ma signore, le protagoniste di tanta volgare pochezza non sono anche le ‘nostre’ figlie? E qui è gioco forza tornare al concetto di fondo, a quella basilare “dignità del femminino” che non sembriamo più disposte a proteggere, né tanto meno a esigere con lo stesso zelo. Certo, qualcuna scende ancora in piazza e offre il suo apporto di scarpe rosse a simboleggiare il rifiuto della violenza fisica di cui siamo vittime, e va bene così: ma non è forse un’aberrante violenza psico-culturale quella perpetrata dai media ogni volta che diffondono con smisurata dovizia l’immagine più deteriore del nostro genere, relegando a striminziti ritagli di tempo nomi, volti e parole di donne realizzate appieno nella sfera della “utilità” collettiva? Non è forse un’operazione denigratoria, che odora lontano un miglio di bieca resistenza maschilista, imporci ore di talk show dove si grida indignazione (purché sia ad alto tasso di audience) per le orribili violenze subite da ragazzine che, per “fare festa”, s’imbucano nelle case private di sedicenti VIP dove la musica a manetta è condita con alcol, cocaina, anonime pasticche colorate e sesso disinvolto? Non viene forse d’istinto chiederci dove sono, chi sono le loro madri? Sono ex femministe pentite, oppure imbelli Maddalene/Magnani che ancora fraintendono il modo corretto per aiutare le figlie a diventare davvero delle donne “bellissime”?

L’attenuante c’è, oberate come siamo da problematiche colossali quali la sofferenza manifesta del pianeta; le guerre in corso; la denutrizione nelle aree del Terzo Mondo, la caduta politica in nuove derive autoritarie e via elencando; il tutto aggravato oggi dal flagello pandemico. Sono giustificazioni pertinenti, è vero, a patto però che non ci inducano a considerare la mancata affermazione della donna al pari di una piaga secondaria. Sappiamo fin troppo bene, infatti, che l’esclusione femminile dai ruoli chiave non è affatto un male minore, bensì il fattore basico, originario che rende impossibile ogni correzione proprio dei mali maggiori, quelli addebitabili da millenni alla prevalente gestione maschile.
E allora che si fa per riequilibrare una così falsa, strumentale sperequazione dell’immagine femminile esibita, urbi et orbi, con una tale, palese disonestà? Perché la risposta non abbia un sapore velleitario, inutilmente bellicoso, oramai fuori corso, potremmo forse riappropriarci, ma con il vigore della restante giovinezza, della parola “indignazione”. Giusto perché non siano le neo-devianze a farci sentire sconfitte. Giusto per avallare, per condividere il sentimento vigoroso di André Gide quando diceva: “La mia vecchiaia avrà inizio quando smetterò di indignarmi”

     

 

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Articolo pubblicato il 30/07/2023