Introduzione allo studio della coscienza
Foto G.Guerreri

Un contributo del Prof Antonio Binni, Gran Maestro Emerito della GLDI

Una premessa imprescindibile.

    Definire la coscienza implica e comporta, molto da vicino, le stesse identiche difficoltà con le quali Agostino è stato costretto a misurarsi e scontrarsi quando, nel contesto del suo sistema filosofico, è venuto a trovarsi nella necessità di circoscrivere e caratterizzare il concetto di tempo. Infatti, se è per tutti di grande evidenza lo scorrere delle ore, al pari dell’acqua inarrestabile nel suo cammino, ben più complesso e difficile, secondo il santo filosofo, è afferrare l’essenza del tempo per poi esplicitarlo a fini definitori. 
Parimenti dicasi della coscienza che, per quanto familiare, proprio come il tempo, è fenomeno elusivo. Sfuggente per non essere riconducibile ad un concetto unitario oltre che dal contenuto incontroverso. Tanto che molti filosofi lo identificano con un autentico mistero non sapendo bene a cosa fare riferimento con la parola "coscienza".

    Su di un punto si può tuttavia convenire da subito. Ossia che, almeno in origine, questo oscuro fenomeno era del tutto sconosciuto. Nell'antica Grecia, un luogo archetipo per definizione, la coscienza infatti non esiste. Non solo come parola; ma addirittura neppure come concetto. È noto, infatti, che, nella civiltà greca, l'elemento fondante non era l'individuo, ma il soggetto sociale, l'uomo cioè che si rapportava e si confrontava con gli altri parlanti. Da qui l'abitudine a ascoltare voci che provenivano dal «di fuori», e non, invece, da una voce interiore. Donde, nell'uomo greco, una riconosciuta incapacità al monologo interiore, al parlare di un dialogo muto totalmente estraneo alla sua mentalità che non conosceva appunto l'isolamento dell'individuo, ma solo la sua immersione nel sociale.

    Né - si noti - questa realtà è contraddetta e smentita dall'imperativo delfico del «conosci te stesso». Questo richiamo, lungi dall'essere un'esortazione a scoprire il vissuto interiore, era, infatti, piuttosto - oltre che unicamente - un richiamo alla consapevolezza dei limiti propri dell'uomo. Confini invalicabili. Pena l'incorre nella hybris. Stante codesta premessa, le voci interiori - così si credeva - non potevano dunque che provenire dagli dei. Non un portato della mente.

     Il che risulta palese, ad esempio, ponendo attenzione alla Iliade dove non si fa mai riferimento alla mente dei personaggi, quanto invece piuttosto al loro corpo e alle parti del corpo, alle quali vengono ascritti movimenti, agitazione, attenzione, eccetera.

    Né deve trarre in inganno la parola pshyché perché questo termine è usato solo per segnalare ciò che abbandona il guerriero morente. Anche da questo profilo risulta dunque confermata la natura estranea della voce interiore, alla quale si deve obbedire unicamente perché di origine divina, o semi divina, come è quella che governa la vita etica di Socrate.

    Nel passaggio dal mito al logos - avvenuto con il contributo determinante della sofistica - su questo profilo ci permettiamo di richiamare il nostro precedente scritto "Per una rivalutazione della sofistica" pubblicato su questa Rivista in data 10 luglio 2023 - la voce interiore ascritta agli dei perde il suo carattere sacrale per aprirsi invece al confronto con sé stessi tramite un monologo interiore. L'autoinvestigarsi diventa allora motivo e materia di speculazione fino al punto di assumere la forma di coscienza morale.

    Questo percorso, ancora non concluso, lo si evince riflettendo sulla Apologia di Socrate. Platone rappresenta infatti il proprio maestro che si confronta con sé stesso quando dichiara di non sapere, sebbene venga considerato il più sapiente dei Greci.  

    Il tema del confronto con sé stessi, sempre nei termini sfumati platonici dianzi ricordati, lo ritroviamo pure nella Etica Nicomachea (1095 a 25) di Aristotele. 

    È tuttavia soltanto nello sfociare della cultura greca in quella latina che l'uso del termine, dopo essersi affermato come un co-sapere, acquisisce una definitiva - e preminente - connotazione morale. Il che è palese in Seneca. Nel soggetto che scandaglia il proprio interiore, il filosofo stoico ravvisa infatti la contemporanea presenza - e, dunque, la coincidenza - e dell'imputato, e del giudice.

    Alla coscienza si finisce così per riconoscere una doppia natura: di monologo interiore e di vigile sentinella che, nel cristianesimo, porta poi all'esame di coscienza.  

    Il tema, successivamente, rimane poi aperto a una pluralità di risposte. Tante quanti sono stati i filosofi che hanno investigato l'argomento. A principiare da Cartesio e poi, via via, Locke, Leibniz, Hume, tutti, sia pure con sfumature diverse, incentrati nello studio della mente per arrivare alla coscienza concepita nei termini kantiani dell’Io penso che è coscienza della unificazione di tutto il sensibile. Dunque una funzione e una sintesi di tutte le percezioni.

    Avuto riguardo alla sede, sarebbe perfino velleitario entrare nel merito delle diverse vedute espresse sull'argomento dai singoli filosofi.

    Nell’80° anniversario della pubblicazione de "L’essere e il nulla" di Jean-Paul Sartre non possiamo tuttavia esimerci dal ricordare che, in uno dei diversi filoni sviluppati in quel testo, sicuramente la sua opera speculativa più importante, il filosofo francese affronta anche il problema della coscienza, sostenendo che la libertà è il modo proprio della coscienza. Tesi, sia detto per incidens, sommessamente non condivisa da chi ha vergato queste note perché la libertà non può essere disgiunta dalla finalità perseguita dall’azione.

    L'argomento si è poi sviluppato nel tempo. In questo percorso va ricordato, per la sua indiscussa importanza, che, a metà ottocento, si registra la nascita della psicologia come disciplina empirica dotata pure di un lessico proprio. Il che origina una accesa disputa sul fatto se possa, alla psicologia empirica, riconoscersi il rango di scienza rigorosa. Quesito, al quale Kant darà poi una risposta negativa per la ragione - in questa ottica dirimente - che non si possono generalizzare sensazioni empiriche che, in quanto soggettive, sarebbero, per definizione, intrasferibili.  
Per ragioni di tutta evidenza non possiamo neppure soffermarci, nello specifico, sulle diverse problematiche affrontate dalla psicologia oramai assurta in via definitiva a rango di scienza.

    Non costituiranno pertanto oggetto di analisi né il tema del rapporto fra coscienza e attenzione (parole, come si insegna, da tenere distinte); né il rapporto fra tempo e coscienza (argomento affrontato  - però in termini filosofici - acuti e originali - da Bergson che ha messo in luce un tempo personale, un tempo cioè, vissuto profondamente legato alla coscienza dunque del tutto autonomo dal tempo della fisica); né, infine, l'importanza che, nella complessità dell'argomento, riveste il linguaggio (perché il nostro dilaniarci nelle scelte difficili si realizza pur sempre attraverso la parola, monologhi interiori serrati, talvolta con la veste artificiale di dialoghi).
    
    Per conferire comunque corpo, e una qualche sostanza, al nostro intervento, abbiamo così preferito circoscrivere l'argomento ai soli punti essenziali in quanto tali utili ai fini ricostruttivi di un concetto che rimane comunque difficile da inquadrare, tracciando a questa stregua una sorta di introduzione all'approfondimento poi successivo del tema da parte di chi voglia poi incamminarsi su questa strada scivolosa.

    Fedeli alla scelta propedeutica adottata, indichiamo di seguito i segna-via necessari per tentare di ricostruire il concetto di «coscienza» intesa come fenomeno oggetto di una serrata analisi, avendo, naturalmente, ben presente la lunga storia del pensiero formatosi sull'argomento: una riflessione che, in verità, non ha mai subito interruzioni, proseguendo ancora oggi, dovendosi, peraltro, riconoscere che la filosofia conduce la propria contesa con le scienze della mente, le scienze cognitive e le neuroscienze. Come di seguito meglio si dirà.

    Riprendendo il discorso là dove momentaneamente lo avevamo lasciato, fra i punti essenziali, principiamo con l'introdurre una distinzione fondamentale fra psicanalisi e studio della coscienza siccome fenomeno. Mentre la prima si fa carico di conoscere i contenuti della coscienza, la seconda, al contrario, ne investiga la struttura, concentrando, preliminarmente, la ricerca sulla individuazione del luogo ove emerge il fenomeno.

    Da quest'ultimo angolo prospettico si insegna che la coscienza è un sentire interiore. Quanto dire un provare in prima persona. Quindi un fenomeno squisitamente soggettivo in quanto tale intrasferibile. Anche se possiamo poi sapere cosa prova un altro essere umano perché la similarità biologica ci permette di proiettarci nei panni altrui con sufficiente sicurezza. Il che - a smentita di Kant - costituirebbe poi il fondamento di una prospettiva oggettiva del fenomeno. Con tutto ciò che ne consegue.

    Il «cosa si prova», come si è anticipato, è un fenomeno proprio dell'interno sentire. Con tutta evidenza, presuppone dunque un essere fisico. Non possono pertanto esistere esseri coscienti eterei, privi cioè di proprietà fisiche sottostanti.  

    Quanto alla sua struttura, a dar credito alla veduta dominante, la coscienza altro non è che una delle innumerevoli funzioni proprie della mente. Termine - se è consentito giocare con le parole - che, coscientemente, è stato assunto in forma generica proprio perché il vocabolo consente di ricondurre a unità diverse funzioni, fra di loro differenti, come il parlare, il ricordare, l'agire, il provare emozioni, eccetera. Funzioni tutte soggette a diversi livelli di coscienza. Ciascuna di queste funzioni può infatti essere realizzata con un grado di coscienza più o meno raffinato.

    È inoltre incontestabile - e questa è un'altra peculiarità propria del fenomeno - che la coscienza, al postutto, si riduce a una speciale forma di conoscenza caratterizzata dalla sua natura elevata in quanto la coscienza assolve una fondamentale funzione valutativa. La coscienza motiva infatti l'azione e giustifica le scelte. Da questo profilo dà un senso profondo alla nostra vita rendendola degna di essere vissuta.

    Vergando questo scritto, con palese evidenza, abbiamo rivolto lo sguardo al fenomeno privilegiando il profilo filosofico. Come abbiamo sopra accennato, per onestà intellettuale, dobbiamo però riconoscere che la filosofia, nello studio della coscienza, è rimasta sullo sfondo perché, oggi, in materia, dominano invece incontrastate le scienze della mente, le scienze cognitive e le neuroscienze che hanno ampiamente superato l'analisi filosofica. Sicché, se non si vuole ridurre a un mero sterile esercizio di riflessioni mentali, la filosofia non potrà sottrarsi al contributo - decisivo - che, nella materia, ha arrecato il pensiero scientifico.

    Se scientificamente informata, la filosofia non potrà poi che ricavarne sicuro vantaggio.
    
    Siamo in presenza di una sfida che i filosofi morali non potranno non raccogliere. 

    Del resto, in un argomento così complesso e delicato, qual è quello sul quale ci siamo permessi di richiamare l'attenzione del curioso lettore, è davvero imprescindibile affrontare il tema in termini interdisciplinari.

   © 2023 CIVICO20NEWS - riproduzione riservata 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 13/08/2023