Una villa e due castelli a Rivara Canavese (Torino)
Villa Ogliani a Rivara Canavese

E un processo che ha condannato al rogo due streghe

Non sappiamo chi siano stati i primi Signori di Rivara. Nel 1163 l’imperatore Federico Barbarossa, conferma ai Marchesi del Monferrato il possesso di Rivara, fra le loro terre alte. I Conti di Valperga, insediati nel castello con il ramo Valperga di Rivara, governano il paese sino alla loro estinzione; alla morte dell’ultimo Conte, nel 1796, la proprietà dei due castelli passa al Regio Patrimonio.

Il fenomeno del tuchinaggio, ancora oggi ricordato nel Carnevale di Ivrea, è presente anche a Rivara, nei tempi del Marchese Teodoro II di Monferrato (1364 – 1418, Marchese dal 1381). In quello stesso periodo va collocato un fatto che darà ai rivaresi il loro soprannome, “strassapapé”. Durante una contesa tra feudatari e abitanti, si decide di venire a patti di fronte ad un notaio che, durante la stesura dell’atto di pacificazione, scrive qualcosa di diverso dagli accordi pattuiti, in favore dei feudatari. Accortosi dell’inganno perpetrato, un temerario rivarese aggira lo scranno del notaio, gli sottrae i documenti redatti e li strappa di fronte a tutti, fra il plauso del popolo presente alla scena.

Nel suo libro del 1967 Invito al canavese (Edizioni Viglongo), Giuseppe Maria Musso ci racconta qualcosa di Rivara. A partire dal nome antico, Rivaria o Riparia, che deriverebbe da riva o ripa di torrente o da rialzi. A sostegno di questa seconda ipotesi, «il blasone stesso del comune offre allo sguardo 13 monticelli con un’aquila».

Il Bertolotti, nelle sue Passeggiate nel Canavese (1873), cita un’usanza, comune ad altre località del Canavese, per la vigilia dei giorni festivi: si portava al forno pubblico uno speciale vaso di terra, detto “tufeja”, colmo di fagioli conditi con un intingolo di lardo, salato e impepato, detto “il prete”, con salvia e rosmarino.  L’alimento cotto veniva ripreso dal forno la domenica mattina e costituiva l’alimento principale nel giorno di festa delle famiglie.

Villa Ogliani si deve a Carlo, che ancora il Bertolotti definisce «dovizioso banchiere», personalità di spicco, cognato del pittore Carlo Pittara (1836 – 1900), figura fondamentale per la nascita della cosiddetta “Scuola di Rivara”: un gruppo di pittori ed artisti, piemontesi e liguri, che qui si daranno convegno per estrinsecare la loro ispirazione. A metà Ottocento, su progetto degli architetti Capello e Formento, sorge una «vaghissima palazzina, attorniata da bellissimo giardino» (Bertolotti, op. cit.), con una ariosa e luminosa orangerie che è oggi sede del GAL e della Università della Terza Età Alto Canavese. La cappella funeraria dell’Ogliani è in posizione isolata, al termine della scala dell’antico accesso monumentale al cimitero, un piccolo mausoleo in stile neoclassico.

I castelli, oggi di proprietà privata, sorgono su uno dei colli del paese, di fronte al panorama della Vauda canavesana e ospitano mostre temporanee. Il Castel Vecchio e il Castel Nuovo testimoniano il passato del paese e sembrano custodire dall’alto il borgo. Il Castel Vecchio si riallaccia al dominio feudale, con vestigia di architettura medioevale, due torri angolari e finestre gotiche in cotto. Al Castel Nuovo viene aggiunta un’ala nel 1835, che trasforma il palazzo a pianta rettangolare con un torrione al centro. 

In un sabato mattina mi affaccio al grande parco di Villa Ogliani, sfiorato dalla via principale del paese, supero le serre e incontro il Sindaco, Roberto Andriollo, e il ViceSindaco, Vincenzo Martino, che stanno chiudendo il palazzo. Con rara gentilezza e generosità, mi accompagnano in una breve visita al palazzo.

Carlo Ogliani rimane vedovo senza figli maschi, il nome della casata si estingue e la villa passa attraverso una lunga serie di tormentate vicende, con conseguente rovinoso degrado, dovuto alle vicende belliche, compreso un incendio che provoca gravi danni. Villa Ogliani è stata acquistata dal Comune nel 1980, dopo un lungo abbandono, alcune foto testimoniano la decadenza e la rinascita, avvenuta nel 1993, con la riconsegna del bene alla comunità. Al suo interno si trova una serie di quadri che ritraggono i benefattori locali, operanti nella Confraternita di Carità.

Un personaggio rivarese illustre, a cavallo degli ultimi due secoli, è stato il magistrato e studioso di storia locale Giuseppe Cesare Pola Falletti di Villafalletto (Rivara Canavese, 28 giugno 1870 - 29 dicembre 1952). Il "Comitato di Difesa dei Fanciulli", di cui rimane un istituto con diversa funzione sulla collina torinese, in strada Valpiana, sorge nel 1906 per sua volontà.

Una curiosità storica è il processo alle streghe di Levone, che si è celebrato nel castello di Rivara, con le presunte streghe rinchiuse nelle carceri, dove sono interrogate e torturate.

«Da insistenti vociferazioni di malevoli e di persone degne di fede, era pervenuto alle sue orecchie (dell’Inquisitore) ed a sua cognizione, che le dette Antonia De Alberto, Francesca e Bonaveria Viglone e Margarota Braya avevano commesso incantesimi e stregherie, e prevaricato dalla fede nostra e del Salvator Gesù Cristo».

Il testo è redatto dall’inquisitore Francesco Chiabaudi e il fascicolo processuale è datato 11 agosto 1474: si tratta di 55 capi d’accusa raccolti dal Chiabaudi stesso, domenicano, delegato dal Vescovo di Torino e dal Priore di San Domenico. Accanto all’inquisitore siedono i Conti di Valperga; il notaio del podestà di Levone, Piero di Carmagnola; l’assistente dell’inquisitore, fra Lorenzo Butini, anch’esso domenicano. Qualcuno sostiene di averle viste danzare al Pian del Roc sul monte Soglio, insieme a creature dalla forma strana; la morte misteriosa di un figlio del podestà è un’ulteriore accusa contro le sfortunate donne.

I loro interrogatori durano quattro mesi, non è difficile immaginare con quali sistemi e strumenti di coercizione; concluso il dibattimento, il 5 novembre 1474, Antonia e Francesca vengono bruciate in località Pra Quazoglio, davanti ai loro accusatori, e ad una piccola folla di abitanti del luogo. Le loro ceneri sono sparse al vento, in modo che le loro anime non possano tornare a infestare la zona. La terza incriminata, la Bonaveria, è sottoposta di nuovo a processo: il 25 gennaio 1475 ritorna di fronte al giudice, dalle carte non risulta altro, ma è probabile il suo successivo supplizio. La più fortunata o astuta è Margarota Braya, fuggita all’inizio del processo e mai più rintracciata.

 

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Articolo pubblicato il 28/10/2023