Quo Vadis Lento Pede, Italia?
Un'aula di scuola elementare negli anni del Regime

Di Aldo A. Mola

La stasi

L'anno si chiude in un clima di sospensione e di attesa. Rinviate di mese in mese, le “grandi scelte” interne sono ormai rimandate a giugno. Se ne parlerà dopo l'elezione dei deputati italiani al Parlamento europeo, quando – ormai pare certo – gli elettori di quattro regioni di peso verranno chiamati a rinnovare i loro amministratori sulla base di leggi elettorali del tutto difformi da quella, proporzionale, vigente nelle elezioni “europee”. Per non scoraggiare troppo i cittadini, sempre meno attratti dai “ludi cartacei”, è rinviato sine die il rinnovo dei consigli provinciali. Quello dei consigli comunali è ristretto al minimo indispensabile. Nei comuni con meno di 5.000 abitanti, i sindaci potranno essere rieletti anche dopo due mandati mentre il problema vero, l'accorpamento dei comuni di dimensioni piccole e minime, si è perso nelle nebbie dei tanti “vorrei”.

Il presidente del Consiglio in carica afferma che le alleanze per il futuro governo dell'Europa dovranno replicare lo stesso “perimetro” di quello nazionale. La sua, però, è un'opinione o una speranza come tante altre. In realtà nessuno è in grado di predire l'esito delle elezioni del 2024. All'opposto di quanto da lui ventilato/auspicato, le previsioni più attendibili configurano la divaricazione tra cornice europea e scenario italiano.

La prefigurazione di quanto potrebbe avvenire tra sei mesi è in stallo per l'anomalia del “caso Italia”, lasciato sotto traccia dalla generalità degli opinionisti. A differenza di quanto avviene in altri Paesi dell'Unione, il presidente del Consiglio ha alle spalle un partito dalle dimensioni modeste rispetto al consenso che gli viene accreditato dai sondaggi. Anziché una forza esso è il suo tallone d'Achille. Il presidente deve quindi inseguire e fidelizzare l'elettorato con proposte altisonanti, dalla ricaduta elettorale niente affatto sicura. Di lì la necessità di contraddirsi sino a suscitare perplessità, fisiologiche in tempi ordinari, meno convincenti e meno elettoralmente redditizie in quelli eccezionali, prospettati dalle guerre in corso, tra Europa orientale e Vicino Oriente, e dalla debolezza del presidente Biden.

In vista delle elezioni il presidente del Consiglio dovrà quindi dedicarsi al partito più di quanto abbia fatto nel suo primo anno di governo, per alcuni aspetti assai simile al 1923, cioè al primo anno del governo presieduto da Benito Mussolini, ma per altri aspetti del tutto difforme. Perciò non è esercizio retorico gettare uno sguardo all'Italia di cent'anni addietro.

 

Stato e Partito

A giudizio di Alberto Aquarone, lo storico più acuto e penetrante del regime, passato a fine ottobre 1922 dall'opposizione facinorosa al vertice dell’esecutivo, il fascismo “di governo” mosse i primi passi all'insegna dell'incertezza. Alla guida di una coalizione costituzionale onnicomprensiva, estesa dai nazionalfascisti ai liberali di varia denominazione e dai democratici sociali ai popolari, Mussolini ottenne ampio credito all'estero, in specie in Gran Bretagna e Stati Uniti d'America, tranquillizzati dalla prospettiva di vedersi restituire dal nuovo governo i prestiti concessi all'Italia per fronteggiare la guerra, soprattutto nella fase conclusiva (1917-1918).

All'indomani dell'ascesa alla presidenza, il “duce del fascismo” si affrettò a compiere un viaggio a Londra, affiancato da diplomatici di rango. In quell'occasione, caso unico nei suoi vent'anni di governo, a presiedere il Consiglio fu il conte Teofilo Rossi di Montelera, seguace di Giovanni Giolitti, ministro dell'Industria (per sottosegretario aveva Giovanni Gronchi, esponente del partito popolare). Fu un gesto di valenza simbolica. Ostentò la propensione di Mussolini a valersi dei “fiancheggiatori” per consolidare la maggioranza governativa. Gli accordi economici e talvolta politici stipulati nel volgere di pochi mesi con Romania, Grecia, Bulgaria e i “patti di Tirana” con l'Albania fecero dell'Italia un compagno di viaggio nel cammino dell'Europa verso la stabilità. Il 24 luglio 1923 la conferenza di Losanna archiviò la pace di Sèvres e definì i rapporti tra l'ex impero turco-ottomano e i vincitori, che se ne suddivisero le spoglie. La Turchia riconobbe all'Italia Rodi e il Dodecaneso e rinunciò a protrarre qualsiasi aiuto militare alle tribù libiche ancora in armi contro l'Italia, che ebbe mano libera nella riconquista e nella riorganizzazione già avviata da Giuseppe Volpi di Misurata. L'Egitto cedette a Roma l'oasi di Giarabub, una postazione strategica.

La credibilità del governo doveva però trovare conferma nella tranquillità interna e questa era possibile solo con il chiarimento dei rapporti tra lo Stato e il partito nazionale fascista, nel quale da metà febbraio del 1923 erano confluiti i nazionalisti (Federzoni, Rocco, Forges Davanzati...) a patto dell'esclusione dei massoni dalle file di un partito popolato di “fratelli” in posizioni anche dominanti. Mentre nel corso del 1923 non si registrarono iniziazioni di fascisti nelle logge del Grande Oriente, al riparo della segretezza lo scaltro Raoul Palermi, gran maestro della Serenissima Gran Loggia d'Italia, spalancò le porte dei templi liberomuratòri a gerarchi di peso, come Edmondo Rossoni, capo dei sindacati fascisti, e conferì gradi supremi a Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a Ernesto Civelli, monarchico, già intendente generale della “marcia su Roma” come il confratello repubblicano Gaetano Postiglione, e a molti altri fautori del futuro regime.

Il nodo da sciogliere in tempi stretti fu l'affermazione del primato dello Stato. Sin dal 30 ottobre 1922 il quadrumvirato regista della mai avvenuta “marcia su Roma” aveva ordinato la smobilitazione delle “squadre” e intimato: «Il Fascismo italiano è troppo intelligente per desiderare di stravincere.» Il giorno dopo ribadì: «Il regime fascista, entrato nell'orbita legale, ha bisogno più che mai di ordine e d'inflessibile disciplina.» Mussolini lo ripeté il 16 novembre alla Camera: «Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Ho costituito un Governo di coalizione e non già con l'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare.» Il 27 seguente in Senato irrise quanti gli mostravano più o meno calorosamente solidarietà: «Si tratta spesso di anime o animule che vanno dalla parte dove spira il vento favorevole, salvo poi precipitarsi dalla parte opposta quando il vento cambi direzione. Agli amici ambigui preferisco avversari vivi e sinceri.» Aggiunse: «Ma, intendiamoci, che cosa è questo liberalismo? La libertà non è solo un diritto ma un dovere»; il che si traduceva nel controllo dell'informazione. Estasiato, come già la Camera dei deputati, anche il Senato gli concesse larghissima fiducia.

Il 22 novembre Dario Lupi, massone del Grande Oriente e sottosegretario alla Pubblica Istruzione, ordinò ai sindaci, tramite i provveditori agli studi, di affiggere nelle aule scolastiche il crocifisso e il ritratto del Re. Mussolini ebbe mani libere per imbrigliare lo squadrismo con la costituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN), la fascistizzazione delle corporazioni sindacali e l'annuncio del Gran Consiglio fascista (poi “del fascismo”), «dal quale sorgeranno tutte le grandi istituzioni del regime».

Il regio decreto 14 gennaio 1923, n. 14 regolamentò la Milizia, «al servizio di Dio e della Patria italiana» e «agli ordini del Capo del governo» (che formalmente era ancora solo “presidente del Consiglio”). Con i corpi armati per la pubblica sicurezza e col regio esercito la Milizia era chiamata a «mantenere all'interno l'ordine pubblico, preparare e conservare inquadrati i cittadini per la difesa degli interessi dell'Italia nel mondo». Essa tardò tuttavia a svolgere il compito che le era stato assegnato. Il 19 settembre 1923 lo deplorò il generale Emilio De Bono nella circolare ai comandanti di zona: «Il Duce è indignato e costernato, ed io lo sono dal lato militare, per atti e manifestazioni che avvengono qua e là da parte di ufficiali di grado elevato della Milizia, i quali, pervasi da passione politica, dimenticano l'alta responsabilità militare e disciplinare che hanno. La Milizia in conseguenza di ciò sta attraversando un periodo che la squote (sic!) dalle sua fondamenta…» Essa doveva astenersi da condotte “politiche” e attenersi a quelle militari.

La divaricazione tra governo e partito era allarmante da mesi. Il 31 gennaio De Bono scrisse ai prefetti: «Se i fascisti o sé dicenti tali commettono azioni inconsulte o atti di provocazione o prepotenza si colpiscano senza riguardo gli autori o ritenuti responsabili”. La bandiera fascista copriva beghe personali, camarille e “sciocche convulsioni”. Il 13 giugno Mussolini telegrafò ai prefetti: «Unico solo rappresentante autorità Governo nella Provincia è il prefetto e nessun altro all'infuori di lui. Fiduciari provinciali fascisti nonché diverse autorità partito sono subordinate Prefetto.» Sembrava Giolitti. Sennonché aggiunse: «Intendesi che essendo Fascismo partito dominante Prefetto dovrà tenere contatti con fascio locale per evitare dissidi e tutto ciò che possa turbare ordine pubblico.» Un colpo al cerchio...

A fine anno, il 27 dicembre, ribadì: «Rammento ancora ai signori Prefetti che l'avere la tessera fascista non deve ritenersi come un diritto di impunità. Sono ancora troppi nel Regno i fatterelli antipatici provocati ordinariamente dai soliti fascisti forse per esuberante vitalità ma che finiscono per screditare il fascismo e per fallace conseguenza anche il Governo.» Il 1° dicembre il segretario generale del PNF Francesco Giunta ordinò alle federazioni provinciali l'indizione di assemblee dei fasci per la nomina dei loro vertici «attraverso il sistema elezionistico», previa «la più ampia libertà di discussione» e la rappresentanza di tutte le correnti, ferma restando l'esclusione dei fascisti già espulsi, di lì a poco bersaglio di bastonature feroci. Le assemblee sarebbero state tutelate da un delegato di pubblica sicurezza e da un reparto di carabinieri pronto a intervenire per scongiurare tumulti e, se necessario, sciogliere i fasci indisciplinati. Un colpo alla botte...

Mussolini blandì il capogruppo del partito popolare italiano, Alcide De Gasperi, promettendogli che sarebbe rimasta in vigore l'assegnazione dei seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti. La nuova legge elettorale, varata nel 1923 dall'apposita Commissione presieduta da Giolitti e comprendente i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari (inclusi i repubblicani e i comunisti), assegnò invece i due terzi dei seggi al partito più votato se raggiungesse almeno il 25% dei voti validi: un traguardo non inarrivabile, visto che nelle elezioni del maggio 1921 i socialisti avevano superato il 24% e i popolari si erano attestati sul 20%. In vista delle elezioni, indette per il 6 aprile 1924, un apposito comitato ristretto approntò la Lista nazionale comprendente fascisti di recente iscrizione e molti niente affatto iscritti: liberali, cattolici, democratici, socialisti riformisti, non dimentichi che nella formazione del governo insediato il 31 ottobre 1922 Mussolini si era prefisso l'inserimento del socialista Gino Baldesi e il 16 novembre seguente aveva blandito alla Camera il suo compagno D'Aragona. Nel discorso di insediamento Mussolini aveva promesso: “Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti, anche contro l'eventuale illegalismo fascista, poiché sarebbe un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe alcuna giustificazione”.

 

L'“affare Matteotti”: un “inciampo” imprevisto

Al netto delle violenze registrate in molte regioni durante la campagna elettorale e nel corso delle votazioni, la Lista nazionale conseguì un successo superiore a ogni previsione: il 65% dei voti e due terzi dei seggi. Però i deputati iscritti al PNF risultarono solo 227 su 535: una minoranza. Mussolini vinse ma non stravinse. Quanto la vittoria fosse precaria si constatò all'indomani del rapimento di Giacomo Matteotti, segretario e capogruppo parlamentare del Partito socialista unitario (9 giugno 1924). La sua morte viene e per tutto l'anno venturo verrà rievocata in convegni e mostre accomunati nella condanna di Mussolini e del fascismo quali suoi mandanti ed esecutori. Quel crimine rischiò di far crollare l'impalcatura del governo Mussolini. Rigorosamente costituzionale, il Re rimase invano in attesa di un “segnale” da parte del Parlamento. 

La deplorazione del delitto fu pronunciata pochi anni dopo nella sede storiografica più autorevole: le “voci” Fascismo e Italia (Storia d') pubblicate nell'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile e pubblicata dall'editore Treccani.

Nel paragrafo sulla storia del fascismo Gioacchino Volpe osservò che all'indomani dell'insediamento del governo Mussolini si registrò una «crisi di sovrabbondanza» di iscritti, simpatizzanti e “profittatori”. I fasci furono inquinati da «troppi improvvisati gerarchi che erano come incapaci a bene obbedire, così a bene comandare». All'indomani delle elezioni, «proprio in quei giorni di passioni eccitate, accadde che uno dei più accaniti e acerbi oppositori, il deputato socialista Giacomo Matteotti, fu ucciso in modo misterioso, nelle vicinanze di Roma. Furono accusati – e l'accusa risultò fondata – uomini del fascismo. Il delitto Matteotti fu sfruttato fino all’osso» e si tradusse nell’«arresto numerico e morale del fascismo». Molti gli voltarono le spalle, mentre esalava «molta massoneria».

Nel paragrafo Anni torbidi e resurrezione nazionale della voce “storia d'Italia” Alberto Maria Ghisalberti, futuro presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, scrisse che nel dopoguerra «miti democratici e promesse demagogiche (e un po' tutte le parti inclinarono alla demagogia), l'Italia, quasi fosse una nazione vinta, pareva vogliosa di dimenticare i propri morti». Lasciato alle spalle il triplice (sic!) ministero Facta, all'indomani delle elezioni dell'aprile 1924 «quando la violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di passione partigiana soppresse un deputato di opposizione, rappresentanti di questa ne vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi con una campagna denigratoria senza esempio e senza limiti. Ma la secessione dell'Aventino fu stroncata dal memorabile e decisivo discorso del Duce del 3 gennaio 1925, e, superata l'artificiosa questione morale, il fascismo riprese il suo cammino vittorioso». «Il popolo fu con lui.» Il cadavere di Matteotti cadde come un macigno sulla storia d'Italia. Mussolini riuscì ad aggirarlo ma non lo rimosse.

 

Verso il “consenso di massa”

Se nel 1923 i primi passi del fascismo erano stati incerti, dopo l'“affare Matteotti” e l'arroccamento fuori dell'Aula di quasi tutta l'opposizione Mussolini respinse nettamente l'accusa di essere il mandante del delitto, sfidò i parlamentari a valersi dell'articolo 47 dello Statuto, in forza del quale i ministri potevano essere accusati e rinviati a giudizio dinnanzi al Senato costituito in Alta Corte, e rivendicò il ruolo storico del fascismo, malgrado le violenze esercitate. Il suo governo, del resto, era riconosciuto da tutte le potenze estere, inclusa l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, dal marzo 1923 presieduta da Stalin in successione all'agonizzante Lenin.

Nella bibliografia della voce Fascismo lo storico Federico Chabod citò le opere di antifascisti quali Giovanni Amendola, Ivanoe Bonomi e Luigi Salvatorelli. Direttori di sezione dell'Enciclopedia erano, con altri, Angelo Sraffa (massone), Gustavo Del Vecchio, Enrico Fermi, Federigo Enriques, Raffaele Pettazzoni (massone). Della redazione facevano parte, con altri, Alberto Pincherle, Ugo La Malfa, Ugo Spirito. Tra i suoi collaboratori spiccarono Arturo Carlo Jemolo, Adolfo Venturi, Arnaldo Momigliano, Carlo Morandi, Delio Cantimori, Guido Calogero, Giorgio Levi Della Vida, Riccardo Bachi, Roberto Almagià e insigni clinici quali Cesare Frugoni e Giulio Chiarugi: insomma, il meglio della cultura italiana non solo dell'epoca ma anche degli anni successivi al crollo del regime.

Alla luce di ineccepibili considerazioni, sin dal 1965 Alberto Aquarone concluse che se non si fosse avventurato nella seconda Grande Guerra il regime sarebbe durato a tempo indeterminato proprio perché non aveva mai assunto «un carattere rigorosamente totalitario», ma aveva continuato a consentire ai cittadini «un certo margine di autonomia nella sfera privata scongiurando tensioni troppo acute e forse irresistibili». Come Mussolini stesso dichiarò al giornalista Ivanoe Fossani il 20 marzo 1945 «A rigore di termini non (era) stato neppure un dittatore, perché il (suo) potere di comando coincideva perfettamente con la volontà di ubbidienza del popolo italiano.» Vale la pena ricordarlo, albergando in quel popolo la tentazione ricorrente di affidarsi a un uomo della Provvidenza. All’epoca il “correttivo” fu la monarchia. Vittorio Emanuele III nominò il capo del governo e dopo vent'anni lo revocò. Lo ebbero ben presente i costituenti che conferirono al presidente della Repubblica e al Parlamento poteri di interdizione sufficienti a sbarrare la strada a prevaricazioni del presidente del Consiglio sullo Stato. Ceduta con trattati internazionali gran parte della sovranità, il ruolo della monarchia oggi è esercitato dalla Nato e dall'“Europa”. Contrariamente a quanto qualcuno immagina, non è l’assetto politico di quest’ultima a doversi modellare su quello italiano. Semmai vale l'inverso.

Aldo A. Mola

Un'aula di scuola elementare negli anni del Regime (Museo Etmografico “c'era una volta”, Piazza della Gambarina 1, Alessandria). Alla parete Mussolini e Vittorio Emanuele III ai lati del Crocifisso.

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Articolo pubblicato il 10/12/2023