Che fine hanno fatto i marò?

Ecco gli eventi di una storia dolorosa e strumentalizzata, ma tutt'altro che eroica

In questi giorni sia i media italiani che gli spettatori sono presi dalle proprie vacanze o da quelle altrui, in una estate che “fatica ad arrivare” e ci infligge la sua “bomba d'acqua”.

Ogni giorno poi si sente parlare di una nuova guerra, oppure di una vecchia che si rinnova di nuove vittime.

A pochi dunque resta il tempo di porsi una melmosa domanda: “che fine hanno fatto i Marò?”, i due soldati trattenuti in India dopo l'uccisione di due pescatori indiani.

 

Per chi fosse preoccupato per la sorte di questi “eroi nazionali”, così come li ha impropriamente definiti il nostro presidente della Repubblica (eroi per aver fatto cosa esattamente?), gli basti sapere che i due non hanno trascorso un solo giorno di carcere pur trovandosi, al momento del delitto, su di una nave che non era affatto in acque internazionali ma nei pressi della costa indiana.

 

Ma cosa è accaduto allora in quella ormai tristemente nota giornata di due anni fa?

Era il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggiava a largo della costa indiana sud-occidentale, verso l'Egitto.

La nave ospitava 34 persone, tra cui 6 marò del Reggimento San Marco addetti alla sicurezza della nave, che doveva essere protetta dai pirati, un concreto rischio su questa rotta.

Verso le 16 e 30 accade l'inaspettato: convinti di essere sotto attacco pirata  i due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sparano al peschereccio St. Antony, uccidendo Ajesh Pinky di 25 anni e Selestian Valentine di 45 anni, due membri dell'equipaggio il quale nel frattempo allerta la guardia costiera.

Quest'ultima contatta a sua volta l'Enrica Lexie chiedendo se avesse subito un attacco pirata, la nave risponde dando conferma e le viene dunque richiesto di attraccare al porto più vicino.

La Marina italiana invece, ordina al capitano dell'Enrica Lexie di non dirigersi affatto al porto di Kochi e di non far scendere i due militari, ma il capitano – che è un civile e non risponde agli ordini dell'esercito ma a quelli dell'armatore – asseconda invece le richieste delle autorità indiane.

Il 19 febbraio, dopo l'autopsia e la conseguente sepoltura delle vittime i due marò vengono arrestati con l'accusa di omicidio e la corte indiana dispone che i due militari finiscano in una  confortevole “guesthouse” della Cisf (il corpo di polizia indiano che si occupa della protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) e non in una angusta cella.

 

Questi sono i fatti, anche se da quel momento in avanti l'informazione nazionalista si è scatenata, affibbiando ogni giorno alla vicenda nuovi sconvolgenti trame, tutte in favore dei due soldati ovviamente e nessuna verso le uniche vittime della vicenda: i due civili.

Una storia dolorosa e strumentalizzata certo, ma tutt'altro che eroica.

Un esempio di codesta strumentalizzazione ci è servito da Margherita Boniver, senatrice Pdl, che il 19 dicembre scorso si è offerta come ostaggio per permettere a Girone e Latorre di tornare a casa per Natale.

Coglie la palla al balzo anche Ignazio La Russa, che qualche giorno dopo annuncia di voler candidare i due marò nelle sue liste – perchè d'altronde non candidare membri dell'esercito senza meriti in un partito in cui si sono candidate attrici hard senza alcuna esperienza di politica ma solo con i politici? – mossa che a quanto pare non è servita a raggiungere gli obbiettivi prefissati.

 

Ma c'è anche chi si è occupato della vicenda con occhio critico, il giornalista Matteo Miavaldi, che ha realizzato una ricostruzione intitolata “I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto”.

In essa viene chiarita perfettamente la controversia tra autorità indiane e italiane a proposito delle distanze di navigazione dell'Enrica Lexie.

il 18 maggio scorso infatti, gli investigatori hanno finalmente fornito una risposta certa: secondo i dati recuperati dal Gps della petroliera italiana e le immagini satellitari, l'Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta “zona contigua”, tratto di mare fino a 24 miglia dalla costa che consente ad uno Stato di far valere la propria giurisdizione.

Ma questa è solo una delle tesi fascistoidi e pataccare sventate con l'utilizzo della scienza umana; altra tesi svuotata è sicuramente quella che voleva che non fossero stati i marò a sparare, ma un'altra nave nelle vicinanze. Ad inchiodare però i due militari al muro della colpevolezza è la perizia balistica che partendo dai 16 fori presenti sulla St. Antony ha confermato che a sparare contro il peschereccio furono due fucili Beretta dati in dotazione ai marò, fatto confermato anche dall'equipaggio dell'Enrica Lexie.

Lo ammette perfino il diplomatico Staffan De Mistura che afferma: “la morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo che i nostri marò non volevano accadesse, ma è successo”.

 

Arrivati a questo punto si può pertanto sostenere che i due marò hanno sparato e ucciso – anche se non era loro intenzione – e che la loro nave si trovava in acque indiane, come stabilito grazie all'ausilio della tecnologia.

Unico punto ancora dibattuto riguarda la giurisdizione: secondo la legge italiana e i suoi protocolli (in accordo con le risoluzioni Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale), i marò devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano, perchè la nave batteva bandiera italiana e dovrebbero quindi avvantaggiarsi dell'immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati. La legge indiana di contro, afferma che qualsiasi crimine commesso nei confronti di un cittadino indiano su nave indiana deve essere giudicato su territorio indiano, anche quando gli accusati si trovassero in acque internazionali.

 

Miavaldi nella sua ricostruzione spiega che a livello internazionale, dal 1988 vige la “Sua Convention” che, a seconda delle interpretazioni date, potrebbe dar ragione sia all'Italia che all'India e perciò Latorre e Girone non potranno lasciare il paese prima della sentenza.

 

In Italia intanto i due militari vengono descritti come “prigionieri dietro le sbarre in terra straniera”, senza che abbiano trascorso neppure un giorno nelle carceri indiane, dove “sono trattati con il massimo riguardo. In tutto il tempo trascorso hanno evitato le poco confortevoli celle indiane, alloggiando sempre in “guesthouse” o hotel di lusso con tv satellitare e cibo italiano in tavola”, scrive Paolo Cagnan su “L'Espresso”.

Ma la campagna sciovinista non dava cenni di resa, si è anzi infiammata circondando l'intera vicenda di fumanti pretese di rivalsa nazionale e forte di questo il precedente Governo Monti che non sapeva più che pesci pigliare per calmare non solo le famiglie dei pescatori ma anche l'opinione pubblica italiana, chiese “l'intercessione della Chiesa cattolica, attuando comportamenti che hanno molto innervosito l'opinione pubblica indiana”, racconta Miavaldi, lo stesso sopracitato De Mistura lo conferma: “si è più volte consultato con cardinali e arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire un canale spirituale con i parenti delle vittime”.

Intrusione peraltro non gradita dalla comunità locale che secondo il quotidiano “Teheika” ha accusato non a torto i rappresentanti cattolici di “immischiarsi in un caso penale”.

 

Quando poi si è giunti a un accordo economico extra-giudiziario tra il governo italiano e i parenti delle vittime, in cui si accordavano circa 300.000 euro a famiglia, l'opinione pubblica indiana è insorta, in quanto dopo la firma di tale contratto, entrambe le parti hanno ritirato la denuncia contro i due marò nostrani, lasciando come unica parte dell'accusa lo Stato del Kerala.

“Raccontata dalla stampa italiana come un'azione caritatevole, la transizione economica è stata interpretata in India non solo come una implicita ammissione di colpa, ma anche come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori”, commenta Miavaldi.

Il 30 aprile scorso la Corte Suprema di Delhi ha dichiarato che il suddetto accordo “va contro il sistema legale indiano”, eppure secondo l'ammiraglio Di Paola si è solo trattato di “un atto di caritatevole generosità slegato dal processo”.

Niente da fare, noi italiani ci confermiamo i più abili nell'aggirare la legge, anche quella altrui, salvo poi quando si tratta di applicare l'austerity su cittadini ormai stremati rispondere solo: “è l'Europa che ce lo chiede”.

 

Il Governo Renzi intanto, non sembra apportare nuove svolte alla vicenda, nonostante due visite, in soli cinque mesi, del ministro della Difesa Roberta Pinotti a New Delhi, al fine di premere sull'esecutivo indiano affinchè si affronti il processo in tempi più rapidi possibili.

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Articolo pubblicato il 17/08/2014