In Ghana c'è puzza di colonia

Un paese che dipende, per beni primari come il cibo, dall'estero. Un paese senza entrate e senza lavoro da cui i giovani fuggono per arrivare in Puglia a raccogliere (per meno di 20 euro al giorno), l'oro rosso da esportare poi, paradossalmente, in Ghana

A Capitanata, in provincia di Foggia, esiste un borgo che sulle carte è chiamato Borgo Libertà: una specie di villaggio abitato da immigrati impiegati (in nero s'intende), nella raccolta dei pomodori.
Solo che qui di libertà, non se ne respira.
Il Ghana House – così lo chiamato dai suoi stessi abitanti – è un residuo della riforma agraria emanata negli anni '50; nelle sue abitazioni “non c'è quasi niente. Qualche materasso buttato a terra, pacchi di candele per fare un po' di luce e, per i più fortunati, un fornello a gas”, affermano Mathilde Auvillain e Stefano Liberti su Le Monde.

Ed in effetti, come potrebbe non essere così? Gli immigrati, bulgari, ma per lo più africani, sono senza contratto né copertura sanitaria e sono pagati a cottimo: 3,50 euro per ogni cassa da 300 kg.
Lavorano tutto il giorno, per meno di 20 euro.
Persone senza alcun documento che pur di lavorare farebbero (anzi fanno), di tutto.
Persone che “ci rubano tutto il lavoro” o forse che “ci rubano tutto il lavoro che noi non vogliamo fare”. Chi accetterebbe perciò un lavoro in queste condizioni? Solo chi non ha scelta, chi è intrappola e non sa come sopravvivere, chi non riesce ad andare avanti, ma non può neppure tornare indietro.

Il commercio “dell'oro rosso” si basa su questo tipo di sfruttamento.

In Ghana ad esempio, non si coltivano più pomodori perchè le conserve estere (sopratutto quelle italiane e negli ultimi anni anche quelle cinesi) costano nettamente meno.
“L'invasione di questi prodotti ha distrutto il mercato interno. Ha reso impossibile la creazione e l'affermazione dell'industria locale di trasformazione e ha spinto i consumatori a comprare le scatolette di concentrato, che costano meno, invece del pomodoro fresco” riporta Victoria Adongo, presidente della Peasant farmers association of Ghana, a Le Monde.
Ma come è possibile che un bene prodotto all'estero (con tutti i suoi costi di lavorazione e trasformazione) abbia un prezzo di vendita più basso di quello prodotto internamente?
Questo accade grazie ai sussidi di cui si avvantaggiano le aziende agricole dell'Unione europea, sia per quanto riguarda la produzione che per l'esportazione dei pomodori.
Tutto è cominciato nel 2000 quando il governo di Accra, sotto la pressione dei programmi di aggiustamento strutturale del Fmi (Fondo monetario internazionale), ha ridotto in modo non trascurabile i dazi su molti prodotti importati, il pomodoro è tra questi.

D'altronde “l'industria non ha bisogno della protezione doganale per svilupparsi, bensì gli imprenditori per proteggere i loro sbocchi”, scriveva nel 1908 Rosa Luxemburg che ben conosceva ciò di cui disquisiva.
Ormai quasi ogni prodotto presente sugli scaffali ghaneani è importato: l'olio di palma è indonesiano, i cereali tedeschi, la carne (rigorosamente in scatola) è Argentina, il riso invece statunitense.
Ma senza queste barriere doganali sarebbe possibile per il Ghana produrre i beni necessari ai suoi bisogni alimentari? Probabilmente no, perchè il governo piegandosi alle pressioni straniere, ha pregiudicato le produzioni locali, rivelatesi meno competitive e non più in grado ormai di garantire la sicurezza alimentare. Si è dunque scelto di perdere, piuttosto, la sovranità su essa.

Insomma c'è puzza di colonia.
Il Ghana è quasi totalmente dipendente dall'estero per un bene primario come il cibo, ma non solo: è anche senza entrate ed un Paese senza entrate, è un Paese povero. E che fanno gli abitanti di un paese povero? Emigrano. Vanno alla ricerca di lavoro e magari di un po' di fortuna all'estero,
come succede in tutti quei luoghi in cui la fame, le guerre e la mancanza di libertà spingono le persone a fuggire, in cerca di una possibilità. Non è forse successo lo stesso anche ai nostri avi, che all'epoca scelsero gli Usa?
Ironia della sorte, i giovani ghaneani giungono sulle nostre coste e si ritrovano a lavorare in posti come Capitanata, sfruttati e in trappola, sognando di tornare in Ghana, dove però non c'è lavoro ma giunge l'oro rosso raccolto dalle stesse braccia di chi, una volta, lo raccoglieva dalla sua terra. L'Europa (e non solo lei) ha creato un'utilissima colonia in cui riversare e importare i suoi prodotti e da cui importare manodopera.

Per dirla in poche parole, abbiamo creato un bisogno di beni dove non esisteva, per poter produrre e conseguentemente vendere questi stessi beni (un basilare e familiare principio per i venditori).
Per poter produrre però, abbiamo anche bisogno di qualcosa o qualcuno che lo faccia, meglio se in condizioni da favelas. Nessuno di noi, o quasi, accetterebbe una simile proposta di lavoro e i giovani ghaneani in fuga, risultano essere i candidati migliori per questa offerta, probabilmente anche gli unici.
Questi giovani immigrati costituiscono per chi li assume, un rischio limitato e un fruttuoso affare.
Paradossalmente molti si lamentano della numerosa presenza degli immigrati, ma anche dei loro continui sbarchi nelle città e nei comuni che non sanno più come gestire questa “emergenza”, creata dalle stesse politiche economiche che noi, o meglio, i nostri rappresentanti hanno sottoscritto.
Ed è così che l'Italia riesce a esportare 29.770 tonnellate di concentrato di pomodoro in Ghana (dati relativi al 2007, fonte Faostat, Get the data).

In “Riforma sociale o rivoluzione?” (1908) della già citata Rosa Luxemburg, si può leggere: “normalmente i cartelli ottengono questo aumento della quota dei profitti sul mercato interno, in quanto fanno fruttare all'estero, con un tasso di profitto più basso, le porzioni in eccesso di capitale, che non si possono utilizzare per le necessità interne: vendono cioè le loro merci all'estero a prezzo più basso che nel proprio paese. Ne risulta un'acuita concorrenza all'estero, una maggiore anarchia sul mercato mondiale e cioè proprio il contrario di ciò che si voleva ottenere. Ne è una prova, tra le altre, la storia dell'industria mondiale dello zucchero”.
Certo, adesso esiste la legislazione antitrust, ma questa affermazione risulta tristemente attuale.
Se le lungimiranti parole dell'aquila del marxismo sono veridiche come sembrano, resta solo una domanda dalla forse facile risposta: se esistono le colonie e sappiamo distinguerle, allora esiste anche una madrepatria, riuscite a individuarla?

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Articolo pubblicato il 06/09/2014