Sui cristiani perseguitati la voce di Boris Johnson e del principe Carlo è più forte di quella della Chiesa cattolica. Di Eugenio Capozzi

La Chiesa rischia di rappresentare il cavallo di Troia pronto ad essere utilizzato dai due principali nemici del cristianesimo – integralismo islamico e secolarismo relativista.

In questi giorni, i messaggi di Natale più importanti e significativi per i cristiani nel mondo non sono giunti dai vertici delle Chiese, ma da due tra le più alte autorità politiche ed istituzionali del Regno Unito (anche se la seconda si estende, per l’eredità al trono, anche alla Chiesa anglicana): il primo ministro Boris Johnson e il principe ereditario Carlo.

 

Johnson ha ricordato, in apertura del discorso di auguri ai suoi compatrioti, che “il Natale è innanzitutto la celebrazione della nascita di Gesù Cristo”, e che esso “è un giorno di inestimabile importanza per tutti i cristiani nel mondo”. Dichiarazione di peso, e ormai non più scontata in società iper-secolarizzate e multiculturali come quelle occidentali, tra cui non certo ultima quella britannica, sono diventate.

 

Ma il premier ha aggiunto, inoltre, di voler “ricordare i cristiani che in tutto il mondo soffrono persecuzioni”, e che sono costretti a trascorrere il Natale “in privato, in segreto, forse persino nella cella di una prigione”. E ha preso un impegno di non poco conto: “Come primo ministro, io voglio cambiare questa situazione. Noi stiamo dalla parte dei cristiani ovunque, in solidarietà, e difenderemo il vostro diritto a praticare la vostra fede”.

 

Il messaggio video diramato dal principe Carlo, poi, è tutto imperniato sull’affermazione che, mentre ci si accinge a celebrare la solennità del Natale, “è di vitale importanza che ricordiamo tutti coloro che subiscono persecuzioni per la loro fede cristiana”. In particolare, Carlo ricorda il terribile attentato perpetrato dai terrorristi islamisti la domenica di Pasqua 2018 in Sri Lanka, da lui descritto come “il giorno di maggiori violenze anticristiane nell’era moderna”, e la tragica situazione dei cristiani in Siria, in Iraq e in gran parte del Medio Oriente, che si sta letteralmente svuotando delle comunità cristiane.

 

A fronte di ciò il principe sottolinea  lo sforzo proprio e del proprio paese, in convergenza con quello promesso dal primo ministro: “rafforziamo la nostra determinazione ad evitare che il cristianesimo scompaia dalle terre della Bibbia”. Aggiungendo: “Assicuro a quanti di voi oggi portano la croce della sofferenza che siete nei miei pensieri più speciali e nelle mie più sentite preghiere”.

 

In entrambi i discorsi colpiscono particolarmente la consapevolezza della gravità della situazione descritta, il fatto di indicare la questione come una priorità politica, la determinazione nell’affrontarla.

 

Ma, soprattutto, in entrambi impressiona la radicale differenza di impostazione e di toni rispetto ai recenti pronunciamenti pubblici provenienti dalla Chiesa cattolica, ed in particolare dal pontefice.

 

Nel messaggio letto da papa Francesco nell’Angelus del 25 dicembre, infatti, il tema delle popolazioni vittime di violenza nel mondo viene ampiamete citato, ma senza ulteriori specificazioni, ed inserendolo nella categoria dei “conflitti economici, geopolitici ed ecologici”. Tra le terre afflitte da guerre, tensioni, sofferenze vengono menzionati il Medio Oriente (Siria, Libano, “Terrasanta”, Iraq, Yemen), l’Africa, l’America Latina: ma non una parola viene pronunciata espressamente sulle persecuzioni subìte dai cristiani.

 

Si parla in generale di “ostilità” e “crisi”, e nel caso di alcuni paesi africani si accenna a “perseguitati a causa della loro fede religiosa, specialmente i missionari e i fedeli”, ma non si dice nemmeno a quale religione questi ultimi appartengano. Si invoca pace, “fine delle ostilità”, “sicurezza e convivenza pacifica dei popoli”, “armoniosa coesistenza”, ma non si chiarisce mai chi siano, nei vari contesti di cui si parla, le vittime e chi i carnefici. Non si parla mai di integralismo islamico. Tanto meno si fa cenno alla strage di Sri Lanka, alle sistematiche aggressioni ai cristiani operate da Boko Haram in Nigeria, a quelle di Al Shaabab in Somalia e Kenya.

 

In compenso, come ormai prassi consolidata, il papa pone grande enfasi sul fatto che le violenze, come anche le calamità naturali e le malattie, “costringono le persone ad emigrare”.

 

Anche quando parla della violenza diffusa nel mondo, insomma, il capo della maggiore Chiesa cristiana – e di quella più colpita dalla violenza anticristiana – sembra non riconoscere l’esistenza di una specifica persecuzione contro i cristiani, mentre invece pone l’accento su una presunta generale emergenza migratoria, provocata da una generica “ingiustizia”. E’ quest’ultima, ad avviso del papa, che obbliga milioni di uomini “ad attraversare deserti e mari, trasformati in cimiteri […], a subire abusi indicibili, schiavitù di ogni tipo e torture in campi di detenzione disumani” e che “li respinge da luoghi dove potrebbero avere la speranza di una vita degna e fa loro trovare muri di indifferenza”. Da ciò l’esigenza primaria di una generosa accoglienza dei migranti come risarcimento alle ingiustizie da essi subìte.

 

Viceversa ai vertici del Regno Unito e del Commonwealth – osservatorio avanzato dell’Occidente nella sua proiezione globale – si è giunti evidentemente alla consapevolezza del fatto che nel mondo è in corso ormai da tempo una vera e propria guerra contro i cristiani. Una guerra senza quartiere scatenata principalmente dall’integralismo islamico, ma presente anche in ambienti induisti e buddisti, oltre che intrapresa per i suoi fini dal potere comunista tuttora vigente in Cina. Una guerra dettata dall’obiettivo di una vera e propria “soluzione finale” – con la cancellazione della presenza cristiana in aree dove essa è secolare o millenaria – o di una sottomissione dei cristiani ad altri poteri, depotenziando il lievito di libertà e consapevolezza civile che sorge ovunque il cristianesimo attecchisca.

 

Una guerra che ha peraltro un suo complemento speculare, all’interno dei paesi occidentali un tempo culla e patria del cristianesimo, in un odio anticristiano di origine secolarista, laicista, relativista sempre più rabbiosamente teso ad espellere i princìpi umanistici e la sacralità della persona, che sul cristianesimo si fondano, dal dibattito civile, dal diritto, dalle istituzioni. Un odio di cui le recenti, molteplici aggressioni blasfeme in occasione del Natale nel nostro paese (tra cui, particolarmente violenta, quella perpetrata da Roberto Saviano) sono state l’ennesima manifestazione.

 

Davanti a questa realtà in Vaticano si tace, si smorza, si dissimula. La Chiesa evita accuratamente di rivendicare la fede, la resistenza, il coraggio dei nuovi martiri, evita di denunciare apertamente i loro carnefici: concentrandosi interamente su una interpretazione della propria missione nel mondo come avanguardia dell’integrazione sociale e del “meticciato” etnico, culturale, financo religioso.

 

Certo, anche i netti pronunciamenti di Johnson e di Carlo in difesa delle vittime cristiane omettono di chiamare per nome i responsabili della persecuzione: l’islam radicale e il regime cinese in primo luogo. E si capisce che entrambi abbiano difficoltà in tal senso: nel Regno Unito il 5% della popolazione è musulmano, nei paesi del Commonwealth la percentuale è molto maggiore, il fondamentalismo è sempre pronto a degenerare in violenza, e le relazioni politiche ed economiche con il gigante cinese sono molto complicate da gestire per qualunque grande paese occidentale industrializzato.

 

Ma nel caso della Chiesa cattolica non esiste, in tal senso, soltanto una preoccupazione diplomatica. Quella che impedisce di porre davanti al mondo la questione della guerra anti-cristiana come una priorità è soprattutto un’impostazione dottrinaria, che il pontificato bergogliano ha imposto come linea pressoché incontrastata nelle gerarchie (elemento paradossale per un papa che sostiene l’esigenza di de-ideologizzare la fede): la Chiesa “ospedale da campo” del mondo non appare per nulla propensa ad ammettere tanto il dato di fatto dello “scontro tra le civiltà” huntingtoniano in atto quanto il legame profondo, indissolubile tra cristianesimo e società occidentali, da cui dipendono quelle istituzioni liberaldemocratiche che, sole, hanno assicurato la pacifica esistenza delle Chiese cristiane.

 

Lungi dal configurarsi come l’avanguardia di una nuova, più efficace evangelizzazione dell’umanità, dunque, l’ecumenismo sempre più sincretistico e multiculturalista della Chiesa rischia seriamente, nello scenario attuale, di rappresentare il cavallo di Troia pronto ad essere utilizzato dai due principali nemici del cristianesimo – integralismo islamico e secolarismo relativista – per scardinare le sue ultime difese e travolgerlo.

 

Loccidentale.it

 

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Articolo pubblicato il 28/12/2019