Il Problema dei Problemi

Il nodo dell’Unione europea.

Il Paese sta attraversando un momento difficilissimo, probabilmente il periodo più difficile del dopoguerra, e lo sappiamo tutti. Ma se paragoniamo i due momenti, quello attuale e quello immediatamente seguente la fine della seconda guerra mondiale, notiamo subito che qualcosa non torna.

Nel 1945, e negli anni immediatamente seguenti, l’Italia era distrutta fisicamente: un cumulo di macerie, una povertà dilagante, una catastrofe morale e sociale. Oggi c’è un senso generale di smarrimento, una povertà incombente, una incertezza politica, ma c’è anche un capitale privato e un capitale fisso sociale sostanzialmente intatti e potenzialmente pronti a generare di nuovo ricchezza. Sembra quasi che il disastro incombente sia più una suggestione che una realtà. Allora, nell’immediato dopoguerra, c’era una grande distruzione materiale ma anche una grande voglia di ripartire. Oggi sembra verificarsi l’opposto: una ricchezza economica ancora più o meno intatta, ma una diffusa depressione psicologica e una insistente paura del futuro.

Le spiegazioni a questo stato di cose possono essere molteplici. Chi, nel 1945, si accingeva a ricostruire il paese aveva conosciuto guerra, distruzione, morte, e quindi la sua struttura morale si era rinforzata e le sfide future apparivano comunque meno difficili delle sconvolgenti esperienze passate. Oggi, le nostre generazioni hanno sostanzialmente solo paura di perdere i benefici del passato, non sono state temprate dalla ferocia della vita. E il benessere, si sa, non crea eroismo.

Ma forse ci sono due altri elementi che concorrono a darci una spiegazione.

Uno è la natura della classe dirigente, in particolare di quella politica. Gli uomini che, nel 1945, presero in mano i destini dell’Italia provenivano da una scuola politica di altissimo livello, forgiati nella grande tradizione liberale, nell’antifascismo, nella guerra, nella resistenza. Uomini di forte tempra culturale e morale che erano approdati alla politica da altre esperienze, e che nella politica vedevano più un fine di rigenerazione della nazione che non un mezzo di autoaffermazione personale. La stessa classe dirigente comunista, pur con tutti i tragici limiti imposti da una tradizione di durezza totalitaria, era comunque anch’essa di alto livello, formata nelle scuole di partito e dall’esperienza dell’internazionalismo proletario.

Il secondo elemento è che, nel 1945, l’Italia era -o comunque stava diventando- un paese libero. Le restrizioni che i vincitori imposero alla sua autonomia di paese vinto non durarono a lungo. Nel 1948 l’Italia si era data una sua Costituzione che, pur con una serie di imperfezioni, sanciva il fatto che il paese era autonomo, indipendente, inserito liberamente nella comunità internazionale, e sopratutto padrone delle proprie scelte presenti e future. Una scelta intelligentemente sovranista ma per nulla autarchica. Il radicamento nel campo occidentale, l’adesione alla NATO, l’entrata in una Comunità europea che nulla aveva a che fare con la deprimente Unione europea di oggi furono le tappe di un cammino politico libero, meditato, intelligente.

Lo stesso articolo 11 della Carta costituzionale parlava con discrezione di quelle “limitazioni di sovranità” necessarie per l’inserimento dell’Italia nella più ampia comunità degli stati, senza immaginare le consistenti “cessioni” che invece ci vengono chieste oggi. Una internazionalizzazione light, che non contrastava con il senso di una sovranità piena e orgogliosa che di lì a poco avrebbe fatto dell’Italia un paese dalla crescita economica impetuosa, dotato di una moneta internazionalmente solida, con un sistema politico che, nell’apparente immutabilità, generava una stabilità all’interno della quale le forze politiche e sociali si muovevano libere e producevano gradualmente riforme e mutamenti che condussero la nazione ad essere la quinta potenza economica del mondo.

E poi una Banca d’Italia indipendente che, come prestatore di ultima istanza, garantiva la solidità della moneta e del debito pubblico, e un sistema di imprese pubbliche che, accanto a sacche di assistenzialismo e inefficienza, esibiva anche eccellenze industriali a livello internazionale.

In un contesto del genere era facile essere ottimisti, attivi, competitivi, innovatori, iniziatori e continuatori di quella ricostruzione iniziata negli anni cinquanta.

Poi è venuto il declino. Le sue tappe sono molte e articolate: citiamo solo lo smantellamento scriteriato del sistema industriale pubblico, la moltiplicazione e la confusione delle competenze istituzionali fra stato regioni ed Europa, il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia che diede inizio alla crescita del debito pubblico, e soprattutto -il problema dei problemi- la scomparsa dell’autonomia nazionale nel grande corpo burocratico chiamato Unione europea avvenuto nel 1992 col Trattato di Maastricht, e dopo con l’adesione all’Unione monetaria.

Dopo Maastricht e tutti i trattati che seguirono, e la nascita dell’Euro, l’Italia ha proseguito sulla strada delle cessioni di sovranità (anzichè delle limitazioni “in condizioni di parità” come sottolineato dalla Costituzione) sino alla situazione attuale in cui un Presidente del Consiglio gira le capitali europee per raccattare un po’ di benevolenza che gli permetta di chiedere soldi all’Europa, nel tentativo di salvare un paese forse avviato al disastro.

Provate a fare il confronto fra la classe politica attuale e quella del dopoguerra, a cui si accennava sopra. Provate a fare il confronto fra l’Italia che cresceva libera e orgogliosa negli anni cinquanta con l’Italia di oggi costretta a mendicare concessioni, aiuti, elemosine future, prestiti tardivi e pieni di “condizionalità” da stati europei che -come l’Olanda, ma anche altri- fondamentalmente la disprezzano. Il dramma è che, dopo la sovranità, abbiamo perso anche la dignità.

Ricordate l’affermazione degli europeisti per cui l’Europa Unita ha portato finalmente a superare gli odi e le incomprensioni fra le nazioni del continente? A loro bisognerebbe porre un quesito: quando mai ci si è odiati così tanto in Europa dopo la guerra? Paesi del nord contro paesi del sud, paesi dell’est contro paesi dell’ovest: questa è l’Europa di oggi.

Un paradiso in cui l’Italia non sa neppure dove stare, perché in fondo è ritornata l’”espressione geografica” di Metternich.

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Articolo pubblicato il 14/07/2020