La fine della globalizzazione

L’utopia del non luogo ha messo in crisi le economie dell’Occidente

È ancora presto per dire che cosa ci abbia insegnato lo tsunami del virus cinese. Probabilmente spunti critici, considerazioni e mea culpa arriveranno nel tempo e proprio il tempo ci farà comprendere che cosa – nei nostri degradati modelli di sviluppo – abbia concorso a determinare la crisi in atto.

Anni addietro, nel 1992, il Politologo Francis Fukuyama scrisse La fine delle storia, un saggio nel quale la globalizzazione veniva presentata come panacea di tutti i mali che avevano attanagliato l’umanità nel corso dei millenni. Una fine della Storia che doveva essere anche fine della Geografia, elevando giustappunto al rango di salvifico nuovo corso l’utopia globalista del “non luogo”.

La Politica, specie quella europea, ha incautamente imboccato il declivio dell’omologazione, rimuovendo di punto in bianco confini e dazi senza che le Nazioni (e, con esse, le loro Economie) si fossero prima strutturate per resistere al gigantesco impatto dei monoliti emergenti, come l’India o la Cina.

Il passaggio avrebbe dovuto essere lento, calibrato e virtuoso, da un modello free trade a una prospettiva fair trade, che fosse rispettosa dei valori occidentali imprescindibili, fra cui la tutela del lavoro e l’osservanza dei principi minimi per l’esecuzione umana e dignitosa dello stesso.

Così non è stato. Al veicolo della globalizzazione selvaggia si è invece deciso di imporre una brusca accelerazione, allargando i mercati e il campo d’azione occidentali (specialmente europei) all’Asia rampante e famelica. Tant’è che all’interno del WTO (World Trade Organization, istituita nel 1994) già nel 2001 fece la sua comparsa la Cina. Risultato? Sistemi finanziari ed economici sfilacciati dalla impossibile competizione con il Dragone, avvantaggiato da una forza lavoro sterminata, disposta a rinunciare a ogni sorta di curatela pur di fuoriuscire dalla miseria.

Un fattore, questo dello stakanovismo, non disgiunto dall’aspetto culturale. In Cina le metropoli abitate da decine di milioni di abitanti sono numerose. I dati rivelano che in quelle a più marcata vocazione terziaria, la popolazione universitaria arriva a coprire un decimo di quella totale. Per comprendere meglio, significa che su 10 milioni di individui, ben 1 milione è costituito da Studenti universitari. Questo implica il disporre di milioni e milioni di cervelli, in grado di guidare le braccia verso lo sviluppo di quei settori maggiormente produttivi, surclassando la concorrenza dei Paesi occidentali (non inferiori in termini di ingegno ma certamente superiori per quanto concerne i diritti… e il gravame fiscale).

Rimuovere i confini, che poi sono paletti, significa certo lasciar liberi di circolare menti e progetti ma, in egual misura, anche quei fattori che possono portare a un immiserimento del nostro patrimonio.

Esattamente come due liquidi a temperature diverse che si mescolino, raggiungendo in breve la temperatura di equilibrio (transizione che, peraltro, risulta irreversibile). La pandemia da Coronavirus ha certamente innalzato la temperatura della nostra società: ci si augura che possa anche sviluppare quelle difese le quali ci devono consentire di proteggerla in futuro.

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Articolo pubblicato il 20/08/2020