L’EDITORIALE DELLA DOMENICA DI CIVICO20NEWS - Francesco Rossa: Alluvione nel nord ovest. Dove ci porta la memoria

Malesseri d’Italia: Vajont, quando le tragedie finiscono in un bicchier d’acqua

Gran parte del Piemonte, della Liguria e della zona delle Alpi Marittime a ridosso del confine italiano, nella scorsa settimana sono rimaste coinvolte dall’alluvione che ha causato la perdita di vite umane e danni ingentissimi (si stima oltre a un miliardo nel solo Piemonte). La giunta regionale è intervenuta prontamente e sta monitorando la situazione, chiamando in causa il Governo che è intervenuto nella giornata di ieri, per la ricognizione  degli interventi indispensabili, manifestando la volontà di agire fattivamente.

Oltre alla furia della natura, purtroppo stanno emergendo  responsabilità che la magistratura andrà ad accertare.  Molto è dovuta all’incuria, ai mancati interventi ed a opere pubbliche che già presentavano difetti di varia natura, come il ponte di Garessio. Il questi giorni, come in casi avvenuti in anni precedenti e  non solo in Piemonte, la memoria  ritorna inevitabilmente a mali italici, anche se nel caso nostro le conseguenze non sono così cruente. Nel nostro Paese si è consumata una tragedia per l’elevato numero di vittime, oltre alla beffa di una sentenza pilotata, che ha offeso la memoria delle vittime e la dignità dei superstiti colpiti dal lutto e dai danni subiti.

Ci riferiamo a quel che accadde ben 57 anni fa, proprio di questi giorni in Veneto. Era  il 9 Ottobre 1963, ore 22,39: una enorme frana, una massa rocciosa pari a circa 270 milioni di metri cubi, composta da rocce e detriti, comincia a scivolare lungo il versante settentrionale del monte Toc, su un fronte di 1.800 metri.

Un enorme boato risuona nella valle sottostante. In pochi istanti la gigantesca frana precipita nel lago artificiale, formato da una diga, nella vallata del Vajont, tra le province di Belluno (Veneto) e Udine (Friuli), sollevando una massa d’acqua di circa 40 milioni di metri cubi, alta oltre 100 metri, contenente massi del peso di diverse tonnellate.

La frana, precipitando, sviluppa un’energia pari a 172 milioni di Kwh e la massa d’acqua genera uno spostamento d’aria due volte superiore a quello provocato dalla bomba atomica lanciata su Hiroshima alla fine della seconda guerra mondiale.

La massa d’acqua si divide in due ondate. Mentre la prima spazza via le frazioni più basse che sorgono sulle rive del lago artificiale, la seconda – decisamente più violenta – si infrange sulla diga alta 265 metri – che resiste all’urto – ed in buona parte la scavalca, riversandosi con furia inaudita sulla sottostante valle del Piave. La stretta gola del Vajont la comprime ulteriormente e le permette di acquistare un’incredibile energia distruttiva. Un’onda alta più di 70 metri si abbatte sulla valle. Una biblica inondazione travolge il comune di Longarone e le frazioni vicine i cui abitanti percepiscono il mortale pericolo, ma non hanno neppure il tempo di fuggire.
Longarone viene totalmente rasa al suolo.

I morti sono 1.917: 1450 a Longarone, 109 a Castelvazzo, 158 a Erto e Casso, oltre a 200 tecnici ed operai della diga, con le loro famiglie. I feriti sono pochissimi.
Mera fatalità, disastro naturale oppure una tragedia prevedibile e prevista e che poteva essere evitata? Negli anni precedenti un’inchiesta giornalistica segnalò con prove documentali la pericolosità della diga. Purtroppo neanche la magistratura colse il segnale. La Democrazia Cristiana che dominava incontrastata nel “bianco Veneto”, bloccò ogni iniziativa, forse per non privarsi di sostanziali interessi.

Studi approfonditi e diverse sentenze processuali hanno dimostrato che la tragedia del Vajont poteva essere evitata. Ma che diverse sottovalutazioni tecniche, la logica del profitto applicata ad ogni costo ed il cinismo dei dirigenti della SADE, la società elettrica che la ideò, la progettò e la costruì furono alla base di un disastro di enormi proporzioni che poteva non accadere.

Alle fondamenta della tragedia una semplice constatazione: la zona scelta per la costruzione della diga del Vajont era una zona franosa da secoli e da tre anni il versante montuoso che sovrastava il bacino idroelettrico, ancora in fase di collaudo, aveva cominciato a muoversi.

Tutto ormai dimostra che quella del Vajont fu una tragedia annunciata, una tragedia che poteva essere evitata se solo si fosse usato un po’ di buon senso.
Quando accadono tragedie di queste dimensioni, le responsabilità individuali si perdono nel tempo. Una diga non si costruisce in un giorno e tantomeno si localizza dove costruirla in poco tempo. Le responsabilità individuali, quindi, si diluiscono nel tempo e soprattutto finiscono con il sommarsi l’una con le altre.

I processi penali e civili che si sono celebrati nel tempo hanno individuato due soli responsabili, ma non per la progettazione e la costruzione di una diga che pure ha retto all’urto dell’acqua e che – come tale – si è dimostrato in realtà un ottimo manufatto, ma per aver provocato “l’inondazione che ha raso al suo Longarone, aggravata dalla previsione dell’evento, compresa la frana e gli omicidi”.

In altre parole con il loro comportamento, un ingegnere della società che aveva costruito la diga e identificato la zona del bacino e un dirigente del ministero dei Lavori Pubblici, pagarono per tutti, in verità con condanne ampiamente condonate.

Ciò che resta è il sospetto che non solo due uomini, ma un’intera struttura, con ampie complicità ministeriali e governative, agirono con cinismo e superficialità, in nome del profitto, infischiandosene della pubblica incolumità.

Il dato di fondo è che quella diga e quel bacino non dovevano essere costruiti nella valle del Vajont, perché la montagna che la sovrastava era franosa.
Ma diga e bacino furono costruiti proprio lì. Perché? Perché così conveniva alla SADE, la società in definitiva vera ed unica responsabile della morte di quasi duemila persone. Ma quali e quanti interessi si nascondevano dietro alla SADE?

Francesco Rossa

Condirettore Responsabile e Direttore Editoriale

 

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Articolo pubblicato il 11/10/2020