Boxwaterquitespace.

Piccolo ed essenziale accessorio per il recupero funzionale delle baite alpine.

Qualche annetto fa era invalsa la moda di recuperare vecchie baite alpine in cui trascorrere ore liete e spensierate lontani dalla concitata frenesia della quotidianità cittadina.

Una specie di autolockdown antesignano per sfuggire, prima che fosse troppo tardi, ad un virus molto più subdolo e diffuso dell’attuale, in grado di aggredire silenziosamente il già più che labile sistema nervoso di una buona parte degli abitanti delle città e di una non trascurabile percentuale di individui, sparsi nei più svariati contesti naturali, giunti comunque ai limiti della sopportazione dello stress indotto da uno stile di vita alla continua ricerca del di tutto, di più e subito.

 

Perfino le autorità se ne erano rese conto al punto che, quelle più lungimiranti e sensibili, avevano bandito dei concorsi per l’assegnazione di contributi (ma va!) per il recupero e la ristrutturazione di baite e abitazioni rurali site in alpeggi, borgate montane disabitate o quasi. Vennero così attivati tutta una serie di strumenti economici e normativi nel tentativo, lodevole, di fermare l’emorragia di abitanti e per dare un impulso alla nascita di luoghi particolarmente deputati alla terapia naturale, diffusa ed integrata nel territorio e nella natura, senza doverne stravolgerne gli aspetti. Senonché (le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni) succedeva spesso che a fronte dell’acquisto di un immobile di poco valore a cifre irrisorie, si assisteva a recuperi e ristrutturazioni che, vincolate esteticamente nelle parti esterne, concedevano ampi spazi di manovra negli interni, non così esposti al primo impatto visivo.

 

Ed ecco che in questi ultimi era un fiorire di proposte tecnologiche ed estetiche degne di una mostra di arte moderna e di laboratori di tecnologia sofisticata, in cui cucine con piastre ad induzione (ovviamente necessarie per cuocere con fuoco a legna la polenta nel paiolo di rame) si presentavano senza soluzione di continuità e angoli appositamente attrezzati all’ultimo ritrovato per lo smart working (e sì, c’era già allora, anche se l’energia elettrica per il tutto si autoproduceva con una dinamo azionata a pedali) erano ricavati in appositi balconcini posti a mezza parete.

 

Ma erano soprattutto i bagni a mostrare la talentuosità onirica dei committenti e la relativa risposta, senza misura né buonsenso, di coloro che realizzavano il tutto. Con il risultato di spendere cifre da capogiro, rispetto al prezzo di acquisto, per un qualcosa di chiaramente fuori luogo, marcatamente consumistico ed evidentemente esibizionistico.

 

Tuttavia (anche in questo caso l’eccezione conferma la regola) ecco come un solitario controcorrente aveva pensato di recuperare una vecchia abitazione in pietra, costituita da una unica stanza di pochi metri quadrati, senza dissanguarsi e senza per forza dover dimostrare quanto la sua salute psicofisica dipendesse strettamente dalla esposizione compulsiva di ogni sorta di ausili per le proprie carenze affettive nascoste.

 

Costui decise semplicemente di dare una ripulita al tutto, interno ed esterno, mantenendolo allo stato dell’arte. Solo dopo aver dato una mano abbondante di calce alle pareti e aver ripristinato il tiraggio del camino, ad uso cucina e riscaldamento, si rese conto che mancava qualcosa di essenziale di cui fino ad allora i precedenti abitanti non sentivano la così stringente necessità avendo a disposizione luoghi naturali sconfinati per espletare le funzioni connesse alla sua presenza.

 

Anziché costruire una stanzetta dedicata a tali funzioni, pensò bene di farsi allestire un piccolo box mobile(*) da piazzare in un angolo della stanza. Così senza opere murarie e con tre semplici raccordi di carico e scarico delle acque, disposti nella parte posteriore del box, allacciati ai tubi provenienti dall’esterno, tramite fori passanti nel muro, supplì egregiamente alla evidente mancanza (ad impatto zero).

 

Ed in effetti conseguì una serie di risultati pratici: fare la vera differenza rispetto alla routine quotidiana cittadina, riducendo le necessità a quelle essenziali, implementando le mancanze senza spendere una fortuna, e facendo tesoro di quanto l’esperienza sintetizzata in quella costruzione aveva già ben espresso con la capacità profetica dell’intelligenza popolare. Bastarono poche sedute di quella terapia per trarne evidenti benefici senza peraltro ricorrere a contributi pubblici, né indebitamenti a vario titolo, o ricorsi a sostegni psicologici che non possono mancare quando si intraprendono grandi opere in grado di stravolgere lo stato dell’arte e degne di essere menzionate negli annali della storia.

 

Se serve un sorso d’acqua non occorre costruire un acquedotto, se serve il necessario non occorre portarsi appresso il superfluo; o almeno qualche volta se ne può fare a meno con grande vantaggio.

 

schizzo e testo

pietro cartella

 

(*) originariamente ricavato da un grande frigorifero dismesso, riconvertito allo scopo

 

 

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Articolo pubblicato il 29/10/2020