Il furto del Liberalismo
Luigi Einaudi

Parole, fatti, apparenze di una ideologia contesa

Quelli di noi che hanno vissuto i “formidabili” anni settanta (per usare la definizione di un loro esaltato protagonista) ricorderanno come il termine “liberale”, con tutte le sue possibili derivazioni, sollevava immediatamente nella sinistra di allora -che era la tendenza sicuramente preponderante sotto tutti gli aspetti, politico, sociale, economico, culturale, di costume- una furibonda reazione di rigetto. Pronunciare quell’espressione, che fosse sostantivo o aggettivo, costituiva una feroce provocazione, una bestemmia, un insulto, come l’abbaiare di un cane in chiesa.

Essere allora liberali e liberisti equivaleva ad essere contro il cammino della storia, contro le magnifiche sorti e progressive del mondo, contro ogni bella e nobile aspirazione umana. I giornali che oggi definiremmo mainstream e la televisione di Stato erano popolati da giornalisti, sia che vestissero giacca e cravatta sia che portassero l’eskimo, che nel liberalismo vedevano un incidente della storia da superare il più presto possibile verso il sole nascente del socialismo nelle sue tante varianti.

La stessa Democrazia Cristiana, trincea del tradizionalismo e del conservatorismo borghese e popolare, pendeva però  vistosamente a sinistra sotto l’impulso di un cattolicesimo progressista, sociale, operaista e terzomondista. Anche la destra estrema del Movimento Sociale si rifaceva a un modello ideologico che nel liberalismo borghese vedeva il nemico da battere o quantomeno da superare.

Chi -come lo scrivente- militava in un piccolo partito che si rifaceva, anche nel nome, al liberalismo ottocentesco e agli insegnamenti di Croce ed Einaudi veniva guardato con patetica compassione, come un personaggio gozzaniano rappresentante di un’epoca ormai travolta dal massiccio incombere di un mondo nuovo.

Oggi quel termine, “liberale”, è proprietà di tutti, è un marchio apposto su ogni posizione politica, su ogni espressione intellettuale, premessa di ogni discorso pubblico e privato.

La versione anglosassone, l’ideologia liberal, è poi diventata la vernice culturale della sinistra italiana che, dimenticata la lotta di classe e i diritti economici delle classi subalterne, oggi insegue i diritti civili più snobistici e più glamour, quasi a far dimenticare il vecchio provincialismo comunista, con le sue Feste dell’Unità, i fazzoletti rossi, le Case del Popolo e i vari Pepponi che tromboneggiavano nelle sezioni di paese.

Eppure, nonostante questo dilagare di un nuovo trionfante liberalismo, si ha la netta impressione di essere entrati nella più illiberale fra le società che abbiamo conosciuto dopo i totalitarismi novecenteschi.

Abbiamo tante volte richiamato le distopie letterarie del secolo scorso, trattandole appunto come fenomeni artistici, anche se piene di profetismo sociale e politico, ma oggi si fa largo in noi la sensazione che non fossero solo creazioni letterarie e che una buona parte di esse si stia inverando nel mondo contemporaneo, un mondo che si allontana sempre più dalle caratteristiche di una società liberale classica.

Intanto le concentrazioni di potere monopolistico, oligopolistico, oligarchico -che peraltro sono sempre esistite- stanno assumendo un aspetto diverso, potenziate ed esaltate da due elementi nuovi, efficientissimi e pericolosissimi: la digitalizzazione del controllo sociale e l’accentramento crescente e sovranazionale del potere finanziario.

Il “capitalismo della sorveglianza”, analizzato da Shoshana Zuboff nel suo libro del 2019; il potere terrificante delle “dirigenze interfacciate” (interlocking) a livello internazionale; lo strapotere di un pugno di colossali fondi di investimento votati esclusivamente alla speculazione; le “camere di confronto planetario” dove ristrette élites si trovano per concordare comuni strategie economiche e politiche; la privatizzazione degli organismi politici e di controllo internazionali, sono tutti elementi che destano profonda inquietudine fra chi crede ancora nella democrazia.

Se a tutto questo si aggiungono il dilagare della “società della disinformazione”,  l’aggressività dei sempre più numerosi soggetti portatori di richieste politicamente corrette che vanno dalla cancel culture all’ideologia transgender, l’intolleranza dei mezzi di comunicazione verso le opinioni divergenti rispetto a quelle ufficiali, intolleranza che poi discende e si diffonde negli strati sociali più fragili sotto l’aspetto culturale, ebbene allora abbiamo un quadro desolante circa le sorti di un liberalismo contemporaneo professato da tutti ma praticato da pochissimi.

E’ strano come le istanze più genuinamente liberali, quelle della migliore tradizione politico-filosofica occidentale, siano oggi -almeno nel nostro paese- riproposte da uomini di sinistra, spesso provenienti da quell’ambiente politico sedicente progressista o addirittura rivoluzionario di cui si diceva all’inizio e che, fino a non molti anni fa, condannava il liberalismo come ideologia vetero-borghese e sostanzialmente reazionaria, spesso con tratti fascistoidi.

Due pensatori torinesi come Ugo Mattei e Luca Ricolfi sono oggi l’esempio di una sinistra “divergente”, intellettualmente onesta, profondamente liberale nel senso tradizionale del termine, che in questi ultimi anni si è schierata senza se e senza ma sul versante dell’intransigenza democratica e costituzionale, attirandosi non poche critiche da quell’altra sinistra egemonizzata dal Partito Democratico che invece ha ormai pienamente sposato il conformismo governativo, autoritario, illiberale, intollerante.

L’ultimo libro di Mattei, Il diritto di essere contro (Piemme, 2022), è un accurato resoconto di come l’occidente liberale ha elaborato il diritto di resistenza al potere quando questo travalica i limiti assegnatigli dalle carte costituzionali ma anche, semplicemente, dal diritto naturale. Ed è proprio il diritto di “essere contro”, il diritto di resistenza al sopruso (qualcuno ricorda ancora le recenti follie legislative, sanitarie, vaccinali?) e all’imposizione culturale (qualcuno ricorda gli attuali epiteti di Putiniani, Filorussi,  Antigovernativi?) che, per Mattei, rappresenta l’anima del liberalismo.

E poi Ricolfi che, in collaborazione con la moglie scrittrice Paola Mastrocola, ha pubblicato un Manifesto del libero pensiero (La nave di Teseo, 2022) che già nel titolo riecheggia antichi scritti liberali, libertari, illuministi, rivoluzionari.

Un libro snello e leggibilissimo ma anche profondamente inserito in quella tradizione liberale di cui stiamo parlando, un libro “contro”, un libro che ci pone in guardia da quel “follemente corretto” che va corrompendo il nostro modo di pensare e di parlare, partendo dal luogo elettivo dell’educazione alla libertà, e cioè la scuola, per poi esondare nell’intera società, la quale appare stranamente affascinata da un’ideologia che può sembrare innovativa ma che invece è semplicemente demenziale.

Due lavori che si inseriscono perfettamente in quel filone di pensiero le cui radici affondano nei secoli passati in cui uomini come Locke, Montesquieu, Tocqueville, i padri costituenti americani e gli illuministi francesi fino ai nostri Croce, Einaudi, Leoni hanno delineato un’idea e, se mi è permesso, un sentimento o addirittura una passione, che ci ha guidato fino ad oggi, anche quando, negli anni “formidabili” di allora e in quelli terrificanti di oggi, avevamo ed abbiamo tutti e tutto contro di noi.

Non chiediamo che l’idea fragile e meravigliosa del liberalismo sia condivisa da tutti, perché non saremmo liberali, ma solo che essa non ci venga rubata, deformata e trasformata in una caricatura da parte di chi non l’ha mai compresa e, fino a ieri, l’ha sempre disprezzata. E oggi la usa deliberatamente per renderci schiavi.

 

 

 

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Articolo pubblicato il 14/07/2022