Fake Democracy

Intelligenza artificiale e “democrazie comunicative”: quali criticità

Le immagini di Donal Trump arrestato hanno fatto il giro del mondo, visualizzate da 5 milioni di utenti Twitter e riprese da pressoché tutti i principali media del pianeta. Peccato fossero false.

A ideare la colossale fake news è stato Eliot Higgins, fondatore di Bellingcat, una piattaforma di giornalismo investigativo, che è ricorso a un programma di intelligenza artificiale che, pur con qualche errore grafico, è riuscito a far circolare, con inaudita velocità, una notizia inventata di sana pianta, ma che evidentemente poteva risultare credibile al grande pubblico.

Qualcuno ironizzerà divertito, anche se in realtà c’è poco da sorridere. Infatti, le liberaldemocrazie rappresentative moderne, a suffragio universale, che vedono la partecipazione al voto di milioni di persone, poggiano la loro premessa nella capacità degli elettori di valutare e soppesare con razionalità lo stato delle cose e le diverse opzioni politiche.

Nondimeno, salvo rarissimi casi, non essendoci un contatto diretto tra governanti e governati e tra chi quella notizia la conosce per averla direttamente appresa e la massa di persone che invece vengono a saperne indirettamente, il ruolo dell’informazione (specie quella politica) diventa il perno su cui ruota il corretto funzionamento delle attuali democrazie.

Cosa decide un Governo, quali proposte siano discusse in Parlamento, che posizione abbia assunto un Presidente della Repubblica viene a conoscenza dei cittadini (una volta primariamente) attraverso gli organi di stampa e adesso (sempre più) grazie ai social o agli altri canali di distribuzione delle informazioni, tra cui, per rilevanza, un ruolo centrale è da attribuirsi a WhatsApp.

Che nella storia siano circolate informazioni false non è certo una novità di questi ultimi anni. Basti pensare – come ci ricorda il libro di Marc Bloch “I re taumaturghi” (1924) – che nel medioevo i re francesi e inglesi inducessero i propri sudditi a credere di possedere doti miracolose, tanto da guarire, con la semplice imposizione delle mani, la malattia delle scrofole; diceria che induceva centinaia di persone a recarsi in pellegrinaggio a cospetto del re ritenuto figura quasi divina.

In compenso, il meccanismo della falsificazione della realtà è oggi per certi versi ancora più pericoloso per due ordini di motivi. Il primo è che, a differenza dei regimi retti da monarchie non rappresentative, la legittimità di un sistema democratico poggia (non solo, ma principalmente) sul meccanismo elettivo per cui spetta ai cittadini scegliere da chi essere governati, oltreché, sempre mediante il voto, influenzare l’agenda delle decisioni pubbliche.

In secondo luogo, mai come in questi ultimi lustri, la tecnologia ha permesso di comprendere i nostri gusti, riversando una quantità enorme di dati nelle mani di coloro che possiedono gli strumenti informatici capaci di reperire tale molteplicità d’informazioni. È sufficiente ricercare qualcosa su Google e, magicamente, per giorni ci sbuca fuori la relativa pubblicità.

Se colleghiamo questa sproporzionata possibilità di conoscere le preferenze e le inclinazioni di miliardi di persone (da quelle sportive alle musicali, dagli abiti da indossare alle mete per le vacanze estive) alle immense potenzialità di rielaborazione che offre l’intelligenza artificiale, il cerchio si stringe.

A conferma, è sufficiente richiamare che la pubblicità del futuro diverrà sempre maggiormente suadente (e dunque pericolosa) perché in larga misura personalizzata, nel senso – ad esempio – che la reclame di un’autovettura muterà colore, sfondi paesaggistici, tipologia di musica d’accompagnamento e quant’altro, a seconda delle preferenze che il venditore sarà riuscito a carpire di noi attraverso i social, Google o le tipologie degli acquisti effettuati on line.

Qualche lettore griderà al complotto, ma così (purtroppo) non è. Basta andare su internet per trovare decine di articoli che riprendono quando si è appena detto.

A ciò deve aggiungersi un ulteriore elemento di valutazione. Sin dalle ultime decadi dell’Ottocento, diversi politologi (tra cui Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, solo per citarne alcuni) hanno messo in discussione l’effettiva realizzabilità di una democrazia intesa alla stregua di “potere del popolo”, evidenziando come qualsiasi tipologia di organizzazione sociale – dallo stato al partito politico, dal parlamento alla burocrazia – sia nei fatti concretamente gestita da una minoranza di persone. Dacché, secondo questi studiosi, la democrazia non è mai stata – né potrà esserlo – il “potere del popolo”, bensì (nella migliore delle ipotesi) si limita a rappresentare un sistema istituzionale che si fonda sulla selezione della classe politica attraverso l’acquisizione del consenso popolare da parte delle differenti élites in competizione fra loro per la conquista del potere.

In tal modo ridotto il ruolo degli elettori, rimane pur vero che (poco o molto) una facoltà di scelta ai cittadini nelle moderne democrazie rimane pur sempre. Non a caso, il problema dell’informazione, ovvero della “veritiera informazione”, risulta essenziale, pena trasformare la democrazia in un concetto vuoto di significato a favore del popolo.

Eppure il problema della “correttezza informativa” non è affatto scontato da risolvere. Da un lato, infatti, i mezzi di informazione – almeno quelli a più ampia diffusione – sono nelle mani di pochi, grandi (e potenti) gruppi imprenditoriali. Dall’altra, negli ultimi tempi, l’elaborazione di massicce campagne di disinformazione pare stia diventato un mezzo (se non abituale, certo molto diffuso) di “lotta politica”, spesso volto a screditare l’avversario politico.

È il Donald Trump, vestito n tuta arancione da carcerato, è lì a dimostrarlo.

Ma vi è un fattore ulteriore di preoccupazione. Il bombardamento del “è vero”, “non è vero”, o potrebbe “non essere del tutto vero”, lascia il cittadino in una condizione di stralunamento generale, come di chi, guardando il cielo, non riesce a individuare la “stella polare” e, di conseguenza, fatica a decifrare ogni ulteriore costellazione.

Prendiamo ad esempio l’annosa questione se il virus del Covid-19 – che tanto ha impattato sulle nostre vite – sia fuoriuscito o meno dal laboratorio di Wuhan. A sostenere la tesi affermativa ci sono diversi studiosi (ad esempio, Steven Quay, docente di Medicina alla Standford University, nonché dirigente medico alla Harvard Massachusetts General Hospital, oppure Angus Dalgleish, professore di Oncologia presso l’Istituto di ricerca di malattie infettive e immunitarie della St. George’s University of London) e anche l’FBI americana e, di recente, un rapporto del dipartimento dell'Energia Usa. All’opposto, altrettanti importanti ricercatori hanno affermato esattamente il contrario. A chi e su quali basi credere non possedendo di norma l’elettore medio così specifiche competenze?

In questa confusione totale – che tutto avvolge, annebbiando talvolta ogni certezza – il cittadino finisce spesso per aderire alla “versione narrativa” maggiormente consona alle proprie emozioni e sensazioni, al retaggio personale e culturale o magari religioso. Inoltre, un simile “caos informativo” non rappresenta poi quel terreno fertile sul quale dovrebbero poggiare le moderne democrazie comunicative, già triturate dalle minoranze al potere – siano esse politiche o economiche – e adesso ulteriormente martoriate da una molteplicità di “fake news” create ad arte da personaggi privi di scrupolo, magari grazie all’ausilio dell’intelligenza artificiale.

Il volto di Trump, avvinghiato tra le forze dell’ordine negli attimi del finto arresto, è lì a porci queste domande.

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Articolo pubblicato il 30/03/2023