IL PNRR Scricchiola?

Alcune criticità del Piano nazionale di ripresa e resilienza

Il PNRR scricchiola?

Sì, abbastanza ma la cosa era inevitabile, prevedibile e, tutto sommato ed entro certi termini, auspicabile. Ci rendiamo conto che parlar male del PNRR significa fare la parte del cane in chiesa o, in termini più attuali, quella degli eco-vandali che imbrattano le bellezze artistiche e suscitano indignazione; ma, a differenza del primo lo facciamo coscientemente e, a differenza dei secondi, non siamo preda di paranoie utopistiche, criticamente convinti che ogni mitologia, per quanto affascinante e condivisa, abbia i suoi punti deboli. E il PNRR ne ha alcuni molto deboli.

Intanto, appunto, l’aspetto mitologico: il PNRR ha assunto per i nostri politici l’aspetto di un evento epocale, salvifico, millenaristico, un diluvio benefico che inonderà il paese di denaro facile in grado di far ripartire il sistema economico messo a terra dalla pandemia.

Un evento lontanamente paragonabile al Piano Marshall del dopoguerra, che però aveva due caratteristiche radicalmente diverse: era di dimensioni più contenute e si riversava su un paese distrutto materialmente e che quindi aveva in sé grandissime potenzialità di crescita, soprattutto in termini industriali e infrastrutturali, potenzialità sostenute da una grande voglia, anche popolare, di riscatto e di rinascita.

E, ancora, si trattava di un paese libero nelle sue decisioni di politica economica anche se militarmente occupato, mentre oggi abbiamo una nazione sostanzialmente sottomessa alla volontà dell’Unione europea e ai suoi mille vincoli e capricci.

E poi: non siamo già in ripresa senza che il PNRR abbia ancora dispiegato i suoi ipotetici effetti?

Il PNRR è stato da qualcuno paragonato, forse non immeritatamente, ai piani quinquennali di sovietica memoria; il quadro storico e concettuale è naturalmente molto diverso, ma con quello strumento del socialismo reale esso ha una comunanza innegabile: quella burocratica, con tutte le sue fragilità, le sue inadeguatezze, il suo velleitarismo pianificatorio.

E tutto questo è emerso platealmente dalle recenti dichiarazioni del leghista Molinari e del ministro Fitto, non proprio due personaggi marginali essendo il primo capogruppo alla Camera e il secondo ministro per gli Affari europei, dichiarazioni con cui viene messa in dubbio sia la necessità complessiva del PNRR per la nostra realtà nazionale sia la sua concreta possibilità di attuazione nei termini previsti.

E’ inutile dire che quelle affermazioni sono state immediatamente soverchiate dalla narrazione fideistica di un PNRR imprescindibile, necessario, salvifico, anche da parte dello stesso governo proprio nella persona di Giorgia Meloni.

Il PNRR ci chiede di credere, obbedire, combattere. D’altra parte l’inaspettata pioggia di miliardi che esso comporta non può e non deve essere arginata, e nulla vale l’obiezione che altri paesi non l’hanno raccolta, che -come dicevamo- la ripresa si è già affacciata sullo scenario europeo e italiano senza l’onda del PNRR, che si tratta in grandissima parte di prestiti i quali comporteranno per il futuro un gravame poderoso sulle nostre finanze pubbliche, che la nostra struttura governativa e amministrativa sia a livello centrale che periferico non è in grado di reggere l’impegno progettuale e attuativo dei vari piani, che si rischia molto seriamente di dare il via a una grande quantità di realizzazioni inutili, inconsistenti, transitorie, destinate a soddisfare solo il narcisismo e la brama di consenso di molti politici e di molti amministratori oltre che la fame atavica di progettisti e imprese.

Il tutto sulla base del principio keynesiano del moltiplicatore degli investimenti, secondo cui la spesa attuata genererebbe una crescita del reddito ben più che proporzionale che automaticamente la ripagherebbe, e con un notevole surplus.

Lo stesso Keynes sosteneva che per ottenere l’effetto espansivo della spesa pubblica in termini di reddito e di crescita lo stato poteva assumere un milione di operai e far loro scavare un milione di buche nel terreno, e poi assumerne un altro milione per fargliele riempire; probabilmente scherzava, ma un certo numero di politici e amministratori nostrani sembra che abbiano preso quella teoria molto sul serio.

Carlo Tarallo, in un simpatico articolo su La Verità del 2 aprile, elenca tutta una serie di progetti PNRR tra l’incredibile e il demenziale fra cui spiccano ippodromi, campi di padel, campi di calcio, portali del turismo e soprattutto tante e tante piste ciclabili e ciclovie; tutti interventi che, com’è facile intuire, stanno in cima ai desideri degli italiani.

Naturalmente non mancano interventi strutturali seri, ma la domanda di Molinari se non sia opportuno rinunciare alle realizzazioni più elettoralistiche e al principio dello “spendere per spendere” a questo punto diventa una domanda molto sensata.

Ma c’è un altro elemento di estrema criticità, assolutamente fondamentale, che investe tutto il PNRR.

Questo strumento è un pacco preconfezionato i cui contenuti in gran parte rispondono ottimamente alle esigenze di determinati grandi interessi sovranazionali, soprattutto economici, ma non del tutto a quelli specifici dell’Italia; cosa che d’altronde accade spesso nelle scelte politiche ed economiche europee dettate ad un tempo dalle ideologie correnti e da un lobbismo pervasivo.

Dei 191,5 miliardi di euro destinati all’Italia, di cui solo 70 a fondo perduto, 40,32 miliardi sono destinati alla “digitalizzazione, innovazione, competitività” e 59,47 miliardi alla “rivoluzione verde e transizione ecologica” per un totale di 99,79 miliardi.

Il resto viene ripartito fra altre voci: alle infrastrutture vanno ad esempio 25,40 miliardi e -si badi bene- alla salute solo 15,63 miliardi. Ora, che la digitalizzazione e la transizione ecologica siano settori interessanti è certo, ma che insieme assorbano più della metà delle risorse disponibili appare irragionevole.

Anche qui, come per i campi di padel e le ciclovie, vale la pena di chiedersi se quei due settori siano veramente quelli bramati dagli italiani o, se preferite, siano quelli di assoluta necessità per farli vivere meglio come invece -scusate la banalità dell’argomentazione- i trasporti e, soprattutto, la sanità.

Per tacere di altri modesti problemi nazionali come le ricorrenti crisi idriche, il dissesto idrogeologico, la forestazione, le crisi in agricoltura o nel settore della pesca, le emergenze sismiche e molto altro ancora...

E’ vero che la vista lunga e l’alta progettualità dell’Unione europea guardano al futuro remoto, un futuro green e proiettato nel metaverso, ma noi popolani ogni giorno dobbiamo combattere con strade intasate, treni soppressi, mancanza di parcheggi, scuole cadenti, pronto soccorso affollati e prestazioni sanitarie che si misurano a mesi.

Scoprire che per il PNRR queste sono esigenze secondarie fa nascere seri dubbi sulla coerenza di quello strumento con le reali priorità della popolazione italiana, ma fa soprattutto nascere il sospetto che dietro il privilegio concesso a digitalizzazione e transizione ecologica si nasconda, nella migliore delle ipotesi, uno strabismo ideologico dell’Unione oppure, nella peggiore, un evidente e scontato favoritismo alle grandi imprese, spesso multinazionali, che in quei settori privilegiati operano con grande soddisfazione e con grandissimi profitti.

Se il Qatar, con qualche modesta unzione tangentizia a Bruxelles, ha così ben tutelato i suoi interessi, figuriamoci che cosa possono fare i colossi del digitale e della sostenibilità ambientale.

Per concludere, permetteteci una domanda ingenua, da uomini della strada: meglio l’italietta degli anni ’50 che, senza soldi, spendeva coraggiosamente e proficuamente quei pochi che aveva o l’Italia europeista di oggi che, inondata di miliardi dal PNRR, scopre di non sapere che farne?

 

 

 

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Articolo pubblicato il 07/04/2023