Giovanni Romanetto - Partigiano senza fortuna, ma con cuore

Di Alessandro Mella

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e le difficili vicende di quelle ore complesse e mai davvero sufficientemente comprese, anche nelle Valli di Lanzo iniziò a prendere forma il movimento partigiano con varie formazioni destinate a moltiplicare sensibilmente i propri numeri nel tempo. Crescita favorita anche dai “bandi Graziani” per l’arruolamento obbligatorio nelle forze armate della RSI i quali spinsero molti giovani tra i monti ad abbracciare la Resistenza.

Tuttavia, vi furono anche tanti ragazzi e ragazze che presero questa decisione nell’imminenza degli eventi armistiziali a volte per convinzione ed altre per sfuggire alle truppe tedesche che fin dai primi giorni presero a dar la caccia alle persone e soprattutto agli sbandati del Regio Esercito.

Giovanni Romanetto era nato in una data che pareva una profezia e cioè il giorno 8 settembre (come l’armistizio del 1943) e nell’anno 1922 (poco più di un mese dopo Mussolini avrebbe assunto l’incarico di governo). (1) Venne al mondo tra i monti di Viù, nell’incantevole frazione alpestre della Balma, figlio di Michele e Bertina Versino. (2)

Appartenente al distretto militare di Chivasso, oggi non più esistente perché da molto tempo accorpato a quello di Torino, indossò l’uniforme grigioverde del corpo degli Alpini. Fin dal giorno successivo l’armistizio risalì alla Balma, frazione che si trova piuttosto in alto rispetto al capoluogo Viù, ove era nato e cresciuto, ma anche dove si andavano radunando ex militari, dissidenti ed i primi animatori dell’opposizione all’occupante tedesco. Per questo, de facto, egli aderì alla costituenda IV Divisione “Giustizia e Libertà” fin dal 9 settembre 1943. I mesi passarono duramente poi avvenne un fatto significativo che lasciò memoria perpetua nella comunità.

Era la mattina del 9 marzo 1944 quando una colonna mista, composta da militari tedeschi e da militi della Decima Mas, risalita da Lanzo, giunse a Viù per un’operazione di rastrellamento. Desiderosi di agire con energia e beneficiando dell’effetto sorpresa avevano recato con loro alcuni pezzi d’artiglieria da impiegare allo scopo:

Già da due giorni, dal 7 marzo 1944, stazionavano in Piazza a Viù vari mezzi militari, anche due cannoni: un 38 mm, anticarro italiano ed un famoso 88 tedesco, il non plus ultra delle artiglierie della Seconda Guerra Mondiale. (3)

Tuttavia, lungo la strada principale, in frazione Versino, il manovratore dell’autocarro che trainava il pezzo da 88 fece un errore di calcolo e nella manovra finì con una ruota nel fosso restando incastrato e vanificando l’effetto sorpresa. Fu necessario radunare varie persone del paese, poi trattenute per qualche ora, al fine di rimetterlo in strada. Ricordò Ignazio Guglielmino nella testimonianza raccolta da Donatella Cane:

La mattina del 9 marzo, uscimmo quasi in punta di piedi prima che venisse giorno. La piazza di Viù era deserta, solo un soldato era di guardia sul marciapiede dell’albergo Moderno trasformato in Comando come tutte le volte che avveniva un rastrellamento in Valle. Io e Papà, dato uno sguardo e visto che apparentemente era tutto tranquillo, decidemmo di andare a seminare l’orto di Teppati, allora in nostra gestione: com’erano preziosi i terreni!

Alle 8,30, il messo era davanti alla panetteria di fronte all’orto dove ora c’è la farmacia. Oltre al messo c’erano due Tedeschi col classico elmetto e il Mauser a spalle. Ci chiamarono. Il messo disse a Papà che avevano il cannone grosso impantanato al Versino e che erano venuti in paese a cercare tutti gli uomini. (…) Il cannone, piazzato su un carrello a rimorchio, era là. Il camion che trainava il carrello col cannone, procedeva in direzione di Usseglio e, nella curva del Versino, aveva fatto manovra in retromarcia per posizionare il cannone con la canna rivolta verso Pessinea. L’autista, forse poco esperto, con una manovra errata aveva però spinto il carrello nella cunetta incastrandolo contro la montagna. Attorno al cannone esisteva una gran confusione: tanti che comandavano, un comandante tedesco era affiancato da tre o quattro sottufficiali della Decima M.A.S. (…) Sganciato il carrello, dalla Centrale di Fucine si fecero dare un argano binda, poi si usarono tagliole in quattro con funi attaccate a un frassino. Morale, l’operazione di spostamento di lato del carrello, prima per allontanarlo dalla montagna e poi per tirarlo in retromarcia e metterlo in posizione non fu poi troppo difficile. Eravamo una ventina di uomini robusti e alcuni anche esperti nel movimento di camion e nell’uso di funi e carrucole. (4)

Fu a quel punto che, verso metà mattinata, gli artiglieri poterono metter mano al loro pezzo ed iniziare, tardivamente secondo le loro previsioni, il proprio fuoco verso le alture ove si sapeva che s’erano radunati partigiani e renitenti. Quel ritardo fu provvidenziale perché il fuoco d’artiglieria giunse abbastanza tardi da impedire di stringere il cerchio attorno a quelle che i rastrellatori vedevano come prede piuttosto che come persone. Ancora Guglielmino:

Alle 10,30 il cannone era in posizione e partì il primo colpo. Cadde basso cioè sulle creste del Bòsch Sech. Il secondo, troppo alto, passò oltre e andò a scoppiare in Val d’Ovarda. Al quinto o sesto sparo, gli ufficiali con dei binocoli mai visti prima saltarono fuori urlando qualcosa come: “Caput eines caput”. Cessarono di sparare. Lì vicino a noi c’era una radio che trasmetteva su alle fanterie dove c’erano dei morti. Nei prati tra Brendo e Balma sembrava quando si dà un calcio a un formicaio: si vedeva a occhio nudo tutti che scappavano verso i brich (alture) impervi, verso Pessinea e Lemie. (…) La mattina del 10 marzo, non c’erano i telefonini ma le notizie correvano. Si bisbigliava di morti e feriti su verso la Balma. Si seppe che su ai Pianass era stato colpito a morte Giovanni Romanetto. Al momento non si ebbero notizie di Edoardo Baietto rimasto terribilmente ferito. (5)

Fu a questo punto che accadde quello che mai ci si sarebbe aspettato. Raro a Viù e raro a marzo, figurarsi poi in metà mattinata, s’alzò improvvisa una nebbia fitta e grigia che impedì alle truppe di terra di salire lungo i sentieri e verso i partigiani ma, soprattutto, mise a tacere il pezzo da 88. Ai tedeschi non restò che agganciare il carrello ad un Fiat 666 di preda bellica per portarlo di nuovo verso valle. Gli uomini, a suo tempo radunati per liberare il pezzo incastrato, furono “liberati” e venne loro concesso di rientrare presso le proprie abitazioni. E lo fecero di gamba lesta perché: si sa mai!

Frattanto, come abbiamo letto, i colpi sparati erano andati parzialmente a segno e purtroppo il nostro Giovanni, che il nome di battesimo aveva scelto anche eccezionalmente come nome di battaglia partigiano, era stato ucciso dall’esplosione di uno dei proiettili da 88 mm indirizzati verso le alture. Fulminato lì, tra i prati ove era nato e cresciuto, fulminati la sua giovinezza, il suo idealismo, le sue speranze per un mondo migliore ed un’Italia in qualche modo diversa da quella, sola, che aveva sempre conosciuto. Nella tragedia di quella morte prematura ed ingiusta resta solo il minore conforto del sapere che la sua vita si concluse non nei deserti sabbiosi d’Africa o nelle gelide steppe russe, ma, almeno, tra i felici pascoli di quei luoghi ancora oggi ricchi di bellezza ed incanto.

Ed oggi il nostro Romanetto, alpino e partigiano viucese, riposa in una piccola tomba nel cimitero del paese ove ancora, da quella posizione, può guardare le sue montagne ed il passare degli anni, del tempo e delle stagioni.

Passata la furia della guerra il parroco, don Manassero, mosso dalla devozione popolare che attribuì ad un vero miracolo la provvidenziale nebbia, volle costruire nella chiesa parrocchiale la grotta ex voto, con altare, dedicata alla Madonna di Lourdes cui i viucesi attribuirono il merito della grazia ricevuta. (6)

Così ancora oggi quell’angolo della grande parrocchiale ricorda ai fedeli il giorno in cui Romanetto cadde per la libertà, lo sfortunato Baietto restò ferito gravemente pur avendo salva la vita e tanti altri giovani trovarono salvezza in quel grigiore improvviso che nessuno ha mai saputo davvero spiegare. Forse un miracolo, davvero un miracolo, di cui il nostro Giovanni purtroppo non poté beneficiare. Ragione importante per non scordarne mai il sacrificio.

Alessandro Mella

L’autore desidera rinnovare un ringraziamento alla memoria di Donatella Cane. La sua opera di custodia delle memorie valligiane resta imprescindibile per gli studi storici sul territorio.

NOTE

1) Il cognome Romanetto è assai diffuso nelle Valli di Lanzo ed in specie nella Valle di Viù. Si ritiene che possa derivare dagli antichi legionari romani che, al momento del congedo, ricevevano in premio appezzamenti di terreno ove stabilirsi.

2) Commissione Regionale Piemontese per l’accertamento delle qualifiche partigiane, scheda Giovanni Romanetto tramite il portale Partigiani d’Italia.

3) Ignazio Guglielmino – La Vita di un Uomo, a cura di Donatella Cane Julini, Castellamonte 2013.

4) Ibid.

5) Ibid.

6) Secondo alcune fonti la costruzione avvenne già nel giugno del 1945 anche in forza di un voto che lo stesso don Manassero, nel febbraio 1945, aveva caldeggiato tra la popolazione. A riguardo si veda: ‘L Vicari, Un gruppo di viucesi, Torino, 2017, p. 90.

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Articolo pubblicato il 17/07/2023