Il Caval ëd Bronz – Monumento al Duca di Savoia

Di Alessandro Mella

L’antica Torino è uno scrigno di tesori, reminiscenze, bellezze e monumenti degni di nota e considerazione. Quello ad Emanuele Filiberto di Savoia s’erge ancora oggi al centro dell’antica piazza San Carlo nel cuore della città storica.

Ivi fu collocato, opera di Carlo Marocchetti, in epoca carloalbertina, nel 1838 dopo la fusione a Parigi, per rendere omaggio ad un grande personaggio della più antica dinastia europea.

Il duca, detto anche Testa di Ferro, fu infatti artefice di grandi mutamenti in Casa Savoia spostando l’attenzione dalle provincie francesi verso la pianura italiana portando la capitale da Chambery a Torino già nel 1563. A riprova di come sia pretestuoso parlare di reali non italiani, in specie se paragonati ad altre dinastie che in Italia arrivarono solo a ridosso della metà del Settecento.

Non si poteva, dunque, non rendere omaggio all’uomo che più di chiunque altro legò i Savoia alle sorti d’Italia e del Piemonte ed è singolare che l’erezione del monumento sia avvenuta sotto il regno di Carlo Alberto, primo milite dell’indipendenza italiana. E fu proprio lui a commissionarlo a Marocchetti all’indomani della sua ascesa al trono, nel 1831, forse ispirato dalle grandi opere equestri innalzate a Parigi, a suo tempo, in place Concorde, un tempo place Royale, ed in place Vendome.

La statua, imponente e grandiosa, mostra il duca in armatura, spada sguainata, alla battaglia di San Quintino. Il basamento è in marmo di Baveno decorato dello scudo sabaudo con la corona dei duchi ed i bassorilievi ripercorrono le gesta vittoriose di Emanuele Filiberto. In particolare, la già citata battaglia di San Quintino e la pace di Cateau Cambrésis.

Sugli stessi bassorilievi l’occhio attento coglierà ancora i segni delle palle di moschetto che, purtroppo, furono impiegate per arginare le sedizioni e le rivolte del 1864.

Una piccola recinzione, in ferro battuto, circonda l’opera per tutelarla ma senza grande successo poiché non idonea ad impedire od almeno scoraggiare bivacchi e follie incaute, problema sollevato fin dal passato remoto:

Emanuele Filiberto invece che sta nel bel mezzo un di piazza San Carlo è fiancheggiato da bassirilievi ma non è difeso che da innocue catene che lasciano passare liberamente tutti i monelli del mondo, i quali non usano soverchio riguardo alle opere d'arte in genere, ed ai bassirilievi in specie. Quanto a conservazione Emanuele Filiberto e Conte Verde strano in pari merito con altri monumenti che non vedono altra pulizia che quella dell’acqua piovana quando viene, e del resto polvere ed altro vi stanno sopra in permanenza. (1)

Tuttavia, ben altro pericolo corse l’opera quando la città divenne perpetuo bersaglio dei bombardamenti angloamericani durante l’ultimo conflitto mondiale quando piogge di spezzoni incendiari ed ordigni si abbattevano sul capoluogo sabaudo. Il monumento, come altri, fu in un primo momento protetto come si poteva ma poi si comprese che tale soluzione non era affatto sufficiente:

Con molta cura il monumento ad Emanuele Filiberto in piazza San Carlo era stato ricoperto da sacchetti di sabbia mascherato con assiti di legno. Gli spezzoni incendiari lanciati in grande abbondanza nella penultima incursione hanno combusto la gabbia di legno, dispersi i sacchetti, e il caval 'd bróns come consuetudinariamente chiamano questa statua equestre i torinesi, è tornata a troneggiare nel centro della piazza. Poiché si tratta del più pregevole monumento del Marochetti che abbia Torino, sarebbe opportuno, al fine di salvarlo da ulteriori attacchi nemici, di provvedere a ricoprirlo nuovamente o addirittura toglierlo dalla sua base. (2)

E fu così che si decise di procedere per cui il cavallo ed il duca furono smontati, faticosamente, e portati a Santena nel grande parco del complesso cavouriano onde metterlo al sicuro dai pericoli del conflitto.

Per fortuna con la fine della guerra l’opera sopravvisse all’iconoclastia antisabauda che fu ventilata e caldeggiata da non pochi invasati. Anzi essa divenne un vero simbolo della città al pari della Mole Antonelliana tanto da diventare icona torinese perfino nelle banconote:

Il monumento del re (duca nda!) sabaudo in piazza San Carlo è stato riprodotto sui nuovi biglietti da 5 mila lire coniati dalla zecca di Stato e distribuiti dalla Banca d'Italia.

È la prima volta che il disegno di un monumento di Torino viene utilizzato per essere stampato sulla carta filigranata delle banconote.

L'autore delle illustrazioni delle ultime 5 mila lire (in circolazione da qualche settimana) ha eseguito un collage di alcune prestigiose architetture italiane.

La statua di Emanuele Filiberto è sormontata da un baldacchino di stile gotico. Accanto ci sono i portici della Ca d'Oro di Venezia, un rosone della cattedrale di Troia e la celebre fontana «delle tartarughe» di Roma.

L'altra facciata della banconota rappresenta il ritratto di Antonello da Messina ed il leone alato che appoggia una zampa sul codice della legge, simbolo e stemma della repubblica veneta. (3)

Tuttavia, l’inquinamento, i decenni di storia, le sventure e qualche imprudenza d’avventori e turisti, resero fragile la salute della statua e nel 1979 fu nuovamente necessario rimuoverla per destinarla ad un intenso restauro conservativo. Operazione che richiese alcuni mesi ma che restituì al caval ëd bronz il suo antico splendore. Il ritorno alla propria storica sede fu accolto con gioia dai torinesi:

Testa di ferro ritorna in arcione e s'accinge, col fido Caval 'd bróns, ad un trionfale ingresso in piazza San Carlo. Rimontato oggi presso la ditta Craviolatti, di via Monte Santo, il celebre monumento equestre del Marocchetti muoverà infatti domattina, di buon'ora, ormai restaurato e tirato a lucido, alla volta del centro cittadino, per riprenderne fiero possesso.

Dopo una vacanza di 190 giorni esatti, Emanuele Filiberto ed il suo bronzeo destriero saranno infine ricollocati sul piedestallo nel «salotto di Torino» e prima di mezzogiorno, salvo imprevisti, la piazza riacquisterà agli occhi dei passanti l'aspetto tradizionale.

Un'operazione certamente meno complicata di quella che fu necessaria per rimuoverli. Poiché cavallo e cavaliere arriveranno in piazza San Carlo già fissati alla base metallica ed al primo blocco di quella lapidea, trovando bassorilievi e stemmi ormai applicati al resto del basamento.

All'argano ed al castello di legno usati per il «ritorno» di Testa di ferro nel '46, durante un comizio di Negarville, si sostituirà questa volta la tecnologia di una potente gru. Né, infine, dato il breve periodo di «sfollamento» rispetto ad allora, dovrebbero nascere discussioni sul giusto verso del monumento, verso piazza Castello o verso Porta Nuova: tutti se ne ricordano, non è così?

Senza anticipare ora le spiegazioni tecniche che l'assessore Vindigni e i funzionari delle Belle Arti forniranno, assieme agli autori del restauro, domani pomeriggio in una conferenza stampa, ricordiamo per sommi capi le tappe del restauro realizzato dalla ditta Craviolatti.

Dopo i prelievi di «carote» di bronzo e le macrofotografie della superficie (per studiare l'erosione di smog e microrganismi), cavallo e cavaliere sono stati ripuliti — con getti di sabbia a pressione — dallo strato verdognolo di ossido e di incrostazioni: completati dal lavoro di un artigiano nelle parti di finimenti mancanti, hanno quindi ripreso il cupo splendore del bronzo con un passaggio «a fuoco» di cera protettiva.

E oggi si pavoneggiano in un aspetto nuovo e inatteso, stranamente «sano» per una coppia di centocinquant'anni abituata a vivere all'addiaccio (…). (4)

Ed ancora oggi Emanuele Filiberto, Testa di Ferro, sorge nel centro della città.

Osserva i passanti, i turisti, la gente indaffarata, chi pensa al lavoro, chi ai propri sagrin e passa e tira via senza fermarsi e senza pensieri. Forse, qualche volta, vorrebbe dire le sue a chi bivacca ai suoi piedi serbandogli poco rispetto, forse si accontenterebbe se la gente, vedendolo, si ricordasse di lui e di come egli fece di Torino una grande e gloriosa capitale.

Quella che fu rifugio per gli esuli di tutta Italia, quella da cui partì la grande impresa che l’Italia fece.

Alessandro Mella

NOTE

1) La Gazzetta del Popolo, 117, Anno XXIII, 27 aprile 1870, p. 5.

2) Stampa Sera, 195, Anno LXXVII, 16 agosto 1943, p. 2.

3) Ibid., 268, Anno CXI, 9 ottobre 1979, p. 7.

4) La Stampa, 119, Anno CXIV, 3 giugno 1980, p. 20.

 

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Articolo pubblicato il 15/11/2023