L'EDITORIALE DELLA DOMENICA DI CIVICO20NEWS - Elio Ambrogio: ma quale politica finanziaria per l’Italia?

Dopo gli ultimi provvedimenti parlamentari

Archiviati i tre momenti economico-finanziari che hanno occupato i lavori del governo e del parlamento -revisione del Patto di stabilità europeo, modifica del MES, approvazione della legge di bilancio - avanziamo qualche riflessione su quella che è la politica economica del nostro paese e dell’Unione europea in generale.

Intanto possiamo dire che la prima è quasi completamente assorbita e determinata dalla seconda, cioè non esiste più una politica di bilancio nazionale se non nei termini ristretti consentiti dal Patto di stabilità, il quale è stato appena un po’ allentato dalla recente trattativa condotta dal governo italiano ma resta pur sempre un vincolo esterno fortissimo, un vincolo che impone all’Italia e agli altri paesi interessati una politica economica fondamentalmente restrittiva e, dunque, per molti aspetti recessiva.

Ancora oggi molti si domandano quale sia il significato dei due famosi parametri imposti nel lontano 1997 dall’UE (rapporto debito/Pil non superiore al 60%, rapporto deficit/Pil non superiore al 3%), parametri che, pur rimaneggiati sotto il profilo della tempistica di rientro dal debito e dal deficit, restano sostanzialmente fermi e immutati nel tempo come certe colonne dei templi antichi.

In passato è circolata a lungo nella rete l’intervista del Frankfurter Allgemeine Zeitung a Guy Abeille, il funzionario del ministero delle finanze francese che, su incarico del presidente Mitterand, ha “inventato” la regola del tetto del 3% al rapporto tra deficit e Pil. Fu individuato il 3% semplicemente perché, partendo dal livello del 2,6%, come inizialmente auspicato, il 2% sarebbe stato troppo arduo da raggiungere  politicamente, mentre il 3% sarebbe stato più “comodo”.

Quel livello sarebbe stato poi adottato anche dalla Germania che – a quanto si racconta – in cambio avrebbe ottenuto un livello massimo del debito del 60%, cioè quello tedesco dell’epoca. In ogni caso si trattò di una decisione tutta politica e non economica che ci trasciniamo irrazionalmente appresso ancora oggi, e in ogni caso si tratta di una regola ritagliata, guarda caso, allora come oggi, sulle situazioni e sulle esigenze dei due azionisti di maggioranza dell’area euro, e cioè Francia e Germania.

Di lì comincia la storia della politica di bilancio europea, tutta informata al rigore teutonico sul tema del debito (schulden) visto come colpa (schuld) e quindi da redimere ad ogni costo secondo una visione non solo economica ma anche morale.

E’ appena il caso di ricordare che l’idea di una spesa pubblica, anche in regime di deficit, da attuare secondo le esigenze di una società e di uno stato non è una caratteristica della mentalità latina e mediterranea, come certi rigoristi nordici sostengono con impeto calvinista: pochi giorni fa è morto Wolfgang Schauble, l’ex ministro delle finanze tedesco che è stato forse il maggior esponente di questo rigorismo, e la cui avversione nei confronti del lassismo finanziario meridionale fu semplicemente mitica.

L’idea di una spesa pubblica virtuosa è invece diffusa nella cultura finanziaria anglosassone al di qua e al di là dell’Atlantico: le teorie keynesiane, perfino nella versione estrema della Modern Money Theory, hanno sempre avuto credito sia negli Stati Uniti del New Deal rooseveltiano sia nella declinazione inglese dello stato sociale dal Piano Beveridge in poi. Anche la Germania dell’economia sociale di mercato, per molti aspetti, si colloca in questa prospettiva, almeno fino al prevalere del rigorismo di cui abbiamo detto a partire dagli ultimi anni del novecento.

In altri termini, i parametri di Maastricht hanno impresso una svolta non solo alla politica finanziaria europea ma anche ad una intera cultura economica e sociale dove alcuni paesi, più fragili sotto l’aspetto dei conti pubblici, si sono subito trovati a disagio e, fra di loro, l’Italia non solo ha dovuto rinunciare ad un complesso progetto politico-sociale che fino ad allora aveva dato splendidi frutti (l’Italia centrista e, in parte, anche quella di centro-sinistra) ma anche a una politica economica che, pur nella forte dimensione sociale, aveva comunque saputo gestire con equilibrio il suo indebitamento.

Sulla nascita del debito pubblico italiano ci sono svariate ipotesi, ma stranamente è minoritaria quella di carattere più strettamente finanziario -e sicuramente più realistica- che vede nel “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 e nell’introduzione dell’asta marginale nel collocamento del debito pubblico le cause profonde della crescita dell’indebitamento statale.

Molto più comodo, e ideologicamente coerente con la  teoria economica maggioritaria, trovare invece tali cause nella tendenza spendacciona della politica italiana, proprio come sostiene il rigorismo nordico, nonostante la lunga serie di avanzi primari nel nostro bilancio che smentiscono tale superstiziosa credenza.

La crisi finanziaria del 2007-2008 e quella pandemica del 2020, con tutta l’annessa follia “chiusurista” e repressiva, hanno messo seriamente in forse l’impostazione del rigore finanziario europeo mostrando come di fronte ad eventi imprevisti ad alto impatto sociale ed economico quella filosofia non regga e vada derogata.

 Il PNRR e la politica monetaria espansiva attuata dalla Banca centrale europea di Mario Draghi hanno riproposto una nuova visione della politica economica basata sulla spesa pubblica e sulla crescita  monetaria, ma l’Europa ha immediatamente scelto di correre ai ripari come dimostrato dalla recente politica di Christine Lagarde e dalla riproposizione del patto di stabilità, anche se rivisto e ammorbidito nei tempi.

E l’Italia come si pone in questo mondo investito da tempestosi cambiamenti?

Come sempre: naviga a vista. La vicenda MES è emblematica di una posizione incerta che ha trovato un’espressione non proprio convincente nel comportamento di Giorgetti, il quale ha fatto chiaramente capire  -a proposito del patto di stabilità- che il governo prenderà tempo, visto che la nuova versione di esso lo consente... e poi si vedrà nei prossimi anni.

Quello su cui tutti hanno disinvoltamente sorvolato è la malcelata convinzione di non poter realmente ridurre il debito e il deficit italiani nei tempi e con le modalità richieste dal trattato.

In fondo, in questo paese, nessuno crede seriamente di poter rientrare nei parametri richiesti, neppure in tempi lunghissimi. L’unica speranza -peraltro abbastanza fondata- risiede nella sostenibilità di quella massa enorme di debito, speranza che sembra condivisa dai mercati finanziari i quali hanno comunque dimostrato in questi ultimi tempi una evidente fiducia nei nostri titoli.

Quello che fa male, però, è l’atteggiamento di una certa politica di opposizione che sembra scommettere tutto sul fallimento di queste aspettative e di queste politiche pur di scalzare il governo Meloni da Palazzo Chigi.

La sinistra italiana, fanatica del “vincolo esterno”, rigorista quando non è al governo, anti-italiana e attaccata all’Europa come un bambino alla gonna della mamma, sempre pronta al paragone provinciale con gli altri paesi, in realtà tifa per chiunque meno che per la nostra nazione, come ha ben dimostrato la vicenda del MES col suo profeta Gentiloni.

Sarà, ma all’Italia europeizzata di oggi noi continuiamo a preferire l’”italietta” di molti anni fa che costruiva autostrade, automobili di qualità, grandi opere pubbliche, che aveva l’IRI e l’ENI di Mattei, che aveva una “liretta” stabile, onorata, rispettata, che aveva una sanità invidiabile e invidiata, un sistema previdenziale in equilibrio, titoli di stato solidi, e tutto ciò -incredibile ma vero- con i conti pubblici infinitamente più in ordine di quelli attuali.

 

 Civico20News

 Elio Ambrogio

   Editorialista

 

 

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Articolo pubblicato il 31/12/2023